Verbale C.d.S.:Ammissibilità della notifica all'estero, a mezzo posta

La Seconda Sezione ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione, oggetto di contrasto, concernente l'ammissibilità della notifica all'estero, a mezzo posta e non tramite l'Autorità centrale dello Stato del destinatario, come consentito dall'art. 16 del Reg. UE n. 1393 del 2007, del verbale di accertamento di infrazione al codice della strada, quale atto organicamente inserito nella procedura per l'irrogazione di una sanzione amministrativa.

Ordinanza interlocutoria n. 24382 del 30/09/2019
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Sezione Lavoro Sentenza n. 20914 del 5/8/2019 Pubblico impiego – dipendente sottoposto a procedimento penale – sospensione in attesa di conclusione del processo - cessazione dal servizio per raggiunti limiti di età – successiva sentenza penale di condana

06/09/2019 CORTE CASS. Sent. 20914 - 2019.pdf 852 Kb

Segnalazione da U.O. Monitoraggio contratti e legale Il ricorrente, dipendente di una Università, era stato sottoposto a procedimento penale per reati di peculato e falsità materiale e conseguentemente sospeso dall’amministrazione, in attesa della definizione del procedimento penale. Alla scadenza dei 5 anni di sospensione il ricorrente veniva collocato in aspettativa per 2 anni ai sensi dell’art. 3 comma 2 L. 97/2001, e, al termine dell’aspettativa, nuovamente sospeso fino a che, durante la sospensione, era cessato dal servizio per raggiunti limiti di età. Successivamente a ciò era poi intervenuta la sentenza penale di condanna e l’amministrazione aveva riavviato il procedimento disciplinare sospeso e comminato la sanzione del licenziamento senza preavviso. Il ricorrente ritiene che il procedimento non potesse essere più riaperto per mancanza di interesse da parte dell’amministrazione a causa della sua cessazione dal servizio. I giudici respingono la domanda chiarendo in particolare che: “qualora sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio a seguito di procedimento penale, l'interesse all'esercizio dell'azione disciplinare da parte della pubblica amministrazione permane anche nell'ipotesi di sopravvenuto collocamento in quiescenza del dipendente e ciò non solo per dare certezza agli assetti economici tra le parti ma anche per finalità che trascendono il rapporto di lavoro già cessato, poiché il datore pubblico è pur sempre tenuto a intervenire a salvaguardia di interessi collettivi di rilevanza costituzionale, nei casi in cui vi sia un rischio concreto di lesione della sua immagine; sicché il datore di lavoro ha l'onere di attivare o riprendere l'iniziativa disciplinare al fine di valutare autonomamente l'incidenza dei fatti già sottoposti al giudizio penale e definire il destino della sospensione cautelare, legittimando, in difetto, la pretesa del lavoratore a recuperare le differenze stipendiali fra l'assegno alimentare percepito e la retribuzione piena che sarebbe spettata in assenza della misura cautelare (in tal senso Cass. 24 agosto 2016, n. 17307; Cass. 28 luglio 2017, n. 18849; Cass. 10 agosto 2018, n. 20708”. Inoltre, proseguono gli Ermellini, solo l’irrogazione della sanzione preclude l’accoglimento, in caso di dipendente dimissionario, della istanza di riammissione in servizio del dipendente stesso, ed impedisce a quest’ultimo la partecipazione ai concorsi pubblici ex art. 2 comma 3 d.P.R. 487/1994. 
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Sezione Lavoro Sentenza n. 21528 del 20/8/2019 Pubblico impiego – procedure concorsuali – annullamento per autotutela del concorso svolto – richiesta risarcimento danni – principi di diritto

23/09/2019
CORTE CASS. Sent. 21528 - 2019.pdf 336 Kb


Segnalazione da U.O. Monitoraggio contratti e legale

Il ricorrente chiede che venga riconosciuta la illegittimità della sua retrocessione alla posizione di provenienza – disposta dal Comune di cui è dipendente – a causa dell’annullamento in autotutela del concorso svolto per la copertura di un posto dirigenziale. Il ricorrente chiede inoltre il risarcimento dei danni subiti sostenendo che l’annullamento d’ufficio del concorso non implica automaticamente la nullità del rapporto di lavoro stipulato sulla base del suddetto concorso. I giudici respingono la richiesta e dettano il seguente principio di diritto: “nell'impiego pubblico contrattualizzato, poiché alla stipula del contratto di lavoro si può pervenire solo a seguito del corretto espletamento delle procedure concorsuali previste dall'art. 35, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 165/2001 o, per le qualifiche meno elevate, nel rispetto delle modalità di avviamento di cui al combinato disposto del richiamato art. 35, comma 1, lett. b) e degli artt. 23 e seguenti del d.p.r. n. 487/1994, la mancanza o l'illegittimità delle richiamate procedure si traduce in un vizio genetico del contratto, affetto, pertanto, da nullità, che l'amministrazione, in quanto tenuta a conformare il proprio comportamento al rispetto delle norme inderogabili di legge, può fare unilateralmente valere, perché anche nei rapporti di diritto privato il contraente può rifiutare l'esecuzione del contratto nei casi in cui il vizio renda il negozio assolutamente improduttivo di effetti giuridici. Pertanto il legittimo annullamento in autotutela del concorso interno sulla cui base era stato poi stipulato il contratto di lavoro, consente alla P.A. di considerare caducato il rapporto di lavoro e di non darvi ulteriore esecuzione.” Prosegue poi la Corte: “Da quanto sopra deriva che l'eventuale responsabilità della P.A. per l'accaduto non ha natura contrattuale, … trattandosi semmai di una tipica fattispecie di responsabilità precontrattuale (e dunque extracontrattuale) ex art. 1338 c.c., per avere la P.A., attraverso l'indizione di un concorso illegittimo e la successiva stipula in base ad esso di un contratto di lavoro nullo, leso l'affidamento altrui.” Da ciò consegue che sulla base delle regole proprie della responsabilità extracontrattuale, spetta a chi lamenta di aver subito un danno, dimostrarne l’esistenza e la riconducibilità al comportamento altrui. 
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Sezione Lavoro Sentenza n. 21416 del 14/8/2019 Pubblico impiego – permesso ex art. 33 comma 3 L. 104/1992 per assistenza a parente disabile non ricoverato stabilmente presso alcuna struttura – assistenza in ambito familiare – ricovero in ambiente ospedaliero

23/09/2019
CORTE CASS. Sent. 21416 - 2019.pdf 684 Kb

Il ricorrente impugna il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla ASL di cui era dipendente, per aver dichiarato che il soggetto disabile per cui beneficiava dei permessi ai sensi dell’art. 33, comma 3, della L: n. 104/ 1992, la madre, non fosse ricoverato stabilmente presso alcuna struttura, mentre la Asl, a seguito di controlli, aveva appurato che da due anni la signora soggiornava presso una residenza sostanzialmente alberghiera. Gli Ermellini, accogliendo il ricorso del dipendente chiariscono il significato del comma 3 dell’art. 33 L. 104 che così stabilisce: “A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, ...ha diritto a usufruire di tre giorni di permesso mensile retribuito” Dicono i giudici: “la ratio legis dell'istituto in esame consiste nel favorire l'assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare rendendo incompatibile con la fruizione del diritto all'assistenza da parte dell'handicappato solo una situazione nella quale il livello di assistenza sia garantito in un ambiente ospedaliero o del tutto similare. Solo strutture di tal genere, infatti, possono farsi integralmente carico sul piano terapeutico ed assistenziale delle esigenze del disabile, con ciò rendendo non indispensabile l'intervento, a detti fini, dei familiari….. Se, invece, la struttura non sia in grado di assicurare prestazioni sanitarie che possono essere rese esclusivamente al di fuori di essa, si interrompe la condizione del ricovero a tempo pieno in coerenza con la ratio dell'istituto dei permessi … che è quella di consentire l'assistenza della persona invalida che non sia altrimenti garantita o per i periodi in cui questa non lo sia…. Da tanto consegue che il lavoratore può usufruire dei permessi per prestare assistenza al familiare ricoverato presso strutture residenziali di tipo sociale, quali case-famiglia, comunità-alloggio o case di riposo perché queste non forniscono assistenza sanitaria continuativa mentre non può usufruire dei permessi in caso di ricovero del familiare da assistere presso strutture ospedaliere o comunque strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria continuativa.” Il termine “ricovero” di cui all’art. 33 L. 104/1992 è riferibile solo al ricovero in strutture di tipo sanitario. 
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Sezione Lavoro Sentenza n. 18411 del 9/7/2019 Pubblico impiego – abuso di permesso ex art. 33 comma 3 L. 104/1992 – lavoratore rimasto a casa nelle giornate di permesso - licenziamento per giusta causa

23/09/2019
CORTE CASS. Sent. 18411 - 2019.pdf 335 Kb

La Corte respinge il ricorso di un lavoratore che era stato licenziato per avere abusato, in due circostanze, del permesso ex art. 33 comma 3 L. 104/1992. L’agenzia investigativa assunta dalla società datrice di lavoro aveva infatti dimostrato, attraverso l’appostamento di un suo investigatore nei pressi della casa del lavoratore, che quest’ultimo, nelle giornate in cui aveva usufruito del permesso, non era mai uscito di casa, dalla mattina molto presto fino a sera inoltrata. Il ricorrente quindi era rimasto a casa tutto il tempo e non si era recato ad assistere la zia handicappata, a differenza di quello che aveva invece dichiarato. La condotta del lavoratore, aveva quindi incrinato in modo insanabile il rapporto di fiducia con la società datrice di lavoro che aveva pertanto proceduto con il licenziamento per giusta causa. La sentenza riguarda un rapporto di lavoro tra privati, ma è ovviamente applicabile anche al lavoro pubblico. 
 
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Sezione Lavoro Ordinanza n. 21412 del 14/8/2019 Pubblico impiego – polizia municipale – turnisti – turno nei giorni festivi – turno in giorni festivi infrasettimanali – compenso aggiuntivo – cumulo – CCNL comparto regioni e autonomie locali 14/9/2000 art

CORTE CASS. Ordin. 21412 - 2019.pdf 184 Kb

Il Comune di Rho ricorre contro la sentenza della Corte d’appello territoriale che lo aveva condannato al pagamento del compenso aggiuntivo - previsto dall’art. 24 comma 2 del CCNL comparto regioni e autonomie locali del 14/8/2000 - che alcuni lavoratori rivendicavano per aver prestato la loro attività in giornate festive infrasettimanali. Compenso aggiuntivo cha andava a cumularsi con la maggiorazione già percepita per il lavoro prestato in turno nei giorni festivi ai sensi dell’art. 22 comma 5 del suddetto contratto. Gli Ermellini, accogliendo il ricorso del Comune chiariscono nella sentenza: “questa Corte ha già più volte affermato che, ove la prestazione cada in giornata festiva infrasettimanale (come in quella domenicale) si applica l'art. 22, comma 5, del CCNL 14.9.2000 comparto Autonomie locali - che compensa il disagio con la maggiorazione del 30% della retribuzione -, mentre il disposto dell'art. 24 - che ha ad oggetto l'attività prestata dai lavoratori dipendenti in giorni festivi infrasettimanali, oltre l'orario contrattuale di lavoro - trova applicazione soltanto quando i predetti lavoratori siano chiamati a svolgere la propria attività, in via eccezionale od occasionale, nelle giornate di riposo settimanale che competono loro in base ai turni, ovvero in giornate festive infrasettimanali al di là dell'orario di lavoro; …. pertanto, in relazione al lavoro prestato in giorni festivi, il lavoratore turnista ha diritto alla maggiorazione di cui all'art. 24, comma 1 CCNL quando ciò avvenga in coincidenza con il giorno destinato al riposo settimanale (in tal caso, la maggiorazione spetta in aggiunta al riposo compensativo); ha diritto alla corresponsione del compenso di cui all'art. 24, comma 2 (in alternativa al riposo compensativo) quando la prestazione sia resa in giorno festivo oltre il normale orario di lavoro; ha diritto al solo compenso di cui all'art. 22, comma 5, per la prestazione resa in giorno festivo in regime di turnazione ed entro il normale orario di lavoro”. 
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Cisterne per il trasporto di merci pericolose

Prot. n° 27566 del 9 settembre 2019 - Cisterne per il trasporto di merci pericolose su strada ad esclusione di quelle destinate al trasporto di merci della classe 2- - Speesore minimi.

Accordo internazionale relativo all’adozione di condizioni uniformi di omologazione ed al riconoscimento reciproco delle omologazioni degli accessori e parti di veicoli a motore (Ginevra, 20/3/58).

"Prescrizioni uniformi relative alla omologazione dei veicoli per quanto concerne l’installazione dei dispositivi di illuminazione e segnalazione luminosa per ciclomotori e motocicli".
Allegati
circolare_protocollo_26839_del-04-09-2019.pdf
circolare_protocollo_26838_del_04-09-2019.pdf
circolare_protocollo_26837_del_04-09-2019.pdf
circolare_protocollo_26836_del-04-09-2019.pdf
circolare_protocollo_26835_del-04-09-2019.pdf
circolare_protocollo_26834_del_04-09-2019.pdf
circolare_protocollo_26833_del_04-09-2019.pdf

continua...

Circolari Ministeriali armi ed esplosivi

CIRCOLARE PROTOCOLLO 557/PAS/U/011413/XV.H.MASS(53)5 DEL 14/08/2019
Regolamento (UE) 2019/1148 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 relativo all'immissione sul mercato e all'uso di precursori degli esplosivi, che modifica il Regolamento (CE) n. 1907/2006 e che abroga il Regolamento (UE) n. 98/2013
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Pubblicato il 16/09/2019

Un soggetto sottoposto a misura di prevenzione può guidare (senza patente) un ciclomotore? E' ancora punibile penalmente?

Misure di prevenzione
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01/03/2019) 29-08-2019, n. 36648

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TARDIO Angela - Presidente -
Dott. SIANI Vincenzo - rel. Consigliere -
Dott. VANNUCCI Marco - Consigliere -
Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio - Consigliere -
Dott. CAIRO Antonio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Z.R., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 30/01/2018 della CORTE APPELLO di CATANZARO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO SIANI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore PICARDI ANTONIETTA che ha concluso chiedendo quanto segue:
il P.G. conclude chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. FERRARA Emanuela che conclude riportandosi ai motivi di ricorso chiedendone l'accoglimento. 

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza in epigrafe, emessa in data 30 gennaio - 30 aprile 2018, la Corte di appello di Catanzaro ha parzialmente riformato la sentenza resa in data 10 marzo - 3 settembre 2014 dal Tribunale di Vibo Valentia che aveva giudicato con rito abbreviato Z.R. - imputato dei reati di cui all'art. 81 c.p., D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 75 e D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 116 perchè, sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel Comune di Acquaro, come da provvedimento del Tribunale di Vibo Valentia in data 27 gennaio 2012, si poneva alla guida del ciclomotore marca Piaggio, Typhoon, tg. (OMISSIS), senza essere provvisto della patente che gli era stata revocata, veicolo inoltre privo di copertura assicurativa, con la recidiva infraquinquennale, in (OMISSIS), il (OMISSIS) - e lo aveva dichiarato responsabile dei reati ascrittigli, riuniti in continuazione, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata recidiva, nonchè computata la diminuente per il rito, lo aveva condannato alla pena di mesi sei, giorni venti di reclusione.

1.1. La parziale riforma disposta dalla Corte di appello ha determinato l'assoluzione dell'imputato dal reato di cui all'art. 75, comma 2, in ordine all'addebito di non aver rispettato le leggi, per insussistenza del fatto e, con riguardo alla residua condotta inerente alla guida senza patente del succitato ciclomotore, ha rideterminato la pena in Euro 1.200,00 di ammenda.

1.2. La Corte di appello, esaminate le ragioni poste dal primo giudice alla base della propria decisione e valutate le doglianze svolte dall'appellante, ha considerato insussistente la violazione del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 75 richiamando l'elaborazione che nega al mero obbligo di rispettare le leggi natura di precetto a carico del sottoposto alla misura di prevenzione sanzionabile penalmente.

Ha ritenuto, invece, integrata, con riguardo al secondo fatto, in luogo del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 116 la fattispecie di cui all'art. 73 D.Lgs. cit. per il fatto che, in relazione alla relativa norma incriminatrice, Z. era stato sorpreso alla guida del ciclomotore indicato in rubrica il (OMISSIS), dopo che - operante la sorveglianza speciale a suo carico - il Prefetto di Vibo Valentia il 24 marzo 2011 gli aveva revocato la patente di guida: e tale situazione, per i giudici di appello, aveva integrato il reato sanzionato dall'art. 73 cit..

2. Avverso tale decisione ha proposto ricorso il difensore dell'imputato chiedendone l'annullamento sulla base di un unico motivo con cui lamenta la violazione degli artt. 521 e 597 c.p.p. per mancata correlazione tra imputazione e sentenza e per inosservanza del divieto di reformatio in peius.

Secondo il ricorrente, la decisione impugnata non ha tenuto conto del fatto che - nell'applicare l'art. 521 c.p.p., che consentiva di dare allo stesso fatto una diversa qualificazione giuridica - si sarebbe dovuto necessariamente mettere l'imputato in condizione di poter discutere su ogni profilo che investiva i fatti oggetto di contestazione, ivi compresa la qualificazione giuridica: invece, all'imputato in questo caso non era stata prospettata l'eventualità della nuova qualificazione giuridica per consentirgli di interloquire sull'argomento.

Inoltre, ha dedotto il ricorrente, la nuova qualificazione ha violato il divieto stabilito dall'art. 597 c.p.p., poichè la Corte territoriale, invece di prendere atto che il reato contestato, quello di cui al D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 116 era stato depenalizzato, ha - in pregiudizio dell'imputato - qualificato il fatto diversamente inquadrandolo nella fattispecie di cui all'art. 73 cit..

3. Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso per non essere fondata la prospettazione formulata dal ricorrente in punto di contraddittorio sulla qualificazione del reato ritenuto.
Motivi della decisione

1. La Corte ritiene che il ricorso sia da accogliere, essendo determinante - e assorbendo la stessa questione di contraddittorio sulla nuova qualificazione giuridica del fatto dedotta dal ricorrente - la rilevazione dell'insussistenza del reato contestato.

2. In punto di fatto è stato accertato dai giudici di merito che Z., sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel Comune di Acquaro, in forza del decreto del Tribunale di Vibo Valentia in data 27 gennaio 2012, è stato sorpreso in (OMISSIS), il (OMISSIS) alla guida del ciclomotore marca Piaggio, Typhoon, tg. (OMISSIS), senza essere provvisto della patente necessaria per condurre tale mezzo, in quanto tale patente gli era stata revocata.

E', per il resto, rimasto accertato che il veicolo alla cui guida si era posto l'imputato apparteneva alla categoria dei ciclomotori. Questo elemento è stato dato per assodato dai giudici di merito, i quali hanno fatto univoco riferimento alla suddetta categoria, senza che sia emerso alcun indice in forza del quale essi avrebbero potuto nutrire dubbi che si trattasse di un veicolo diverso da quello caratterizzato dalla cilindrata di 50 c.c. e, quindi, tecnicamente, di un ciclomotore.

3. Sul tema, va, allora, richiamato e ribadito il principio di diritto, di recente puntualizzato in sede di legittimità da alcune decisioni che il Collegio condivide, secondo cui non integra gli estremi del reato di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 73 la condotta del soggetto sottoposto, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale che conduca senza patente - o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata un ciclomotore, non potendo tale mezzo essere ricondotto alla categoria dei motoveicoli contemplata dalla suddetta norma (Sez. 1 n. 6752 del 19/11/2018, dep. 2019, Miceli, Rv. 274803; Sez. 1, n. 49473 del 16/07/2018, Grillo, n. m.).

L'analisi letterale e l'inquadramento sistematico della norma danno ragione di tale approdo.

3.1 La disposizione incriminatrice contestata sanziona con la pena dell'arresto da sei mesi a tre anni la condotta della persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale che sia sorpresa alla guida di "un autoveicolo o motoveicolo", senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata.

La nozione di "motoveicolo" riportata dall'art. 73 non è, tuttavia, tale che possa farsi rientrare in essa anche quella di "ciclomotore", non autorizzando a tanto le norme definitorie di tali categorie estraibili dal Codice della strada.

Il D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 46, comma 1, C.d.S., come modificato dalla L. n. 120 del 2010, stabilisce che, ai fini delle norme del suddetto codice, si intendono per veicoli tutte le macchine di qualsiasi specie, che circolano sulle strade, guidate dall'uomo. Poi, l'art. 47 D.Lgs. cit. classifica i veicoli elencando: a) veicoli a braccia; b) veicoli a trazione animale; c) velocipedi; d) slitte; e) ciclomotori; f) motoveicoli; g) autoveicoli; h) filoveicoli; i) rimorchi; I) macchine agricole; m) macchine operatrici; n) veicoli con caratteristiche atipiche: tale elencazione individua "ciclomotori" e "motoveicoli" come sotto categorie fra loro distinte.

L'art. 52 D.Lgs. cit. definisce i "ciclomotori" come "veicoli a motore a due o tre ruote", contraddistinti da: a) motore di cilindrata non superiore a 50 c.c., se termico; b) capacità di sviluppare su strada orizzontale una velocità fino a 45 km/h". L'art. 53 stesso D.Lgs., definisce i "motoveicoli" come "veicoli a motore, a due, tre o quattro ruote", distinguendoli in varie sottocategorie, tra le quali è compresa quella dei "motocicli" (contigua a quella dei "ciclomotori", in quanto l'unico tipo di "motoveicolo" a due ruote, ma distinta da essa), considerati come "veicoli a due ruote destinati al trasporto di persone, in numero non superiore a due, compreso il conducente" (lett. a).

3.2. Come ha evidenziato la prima delle decisioni richiamate, nessuna modifica sostanziale alle disposizioni indicate è stata apportata dalle integrazioni determinate dal D.M. Infrastrutture e Trasporti 31 gennaio 2003, art. 1, commi 2 e 3, (pubblicato nel Supplemento Ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 123 del 29 maggio 2003), emanato in recepimento della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 2002/24/CE del 18 marzo 2002, relativa all'omologazione dei veicoli a motore a due o tre ruote.

Anche sulla scorta di tale fonte ciclomotori e motocicli restano distinti, rispettivamente, sotto le lettere a) e b). Alla lett. a) i ciclomotori sono classificati come "veicoli a due ruote (categoria L1e) o veicoli a tre ruote (categoria L2e) aventi una velocità massima per costruzione non superiore a 45 km/h e caratterizzati: 1) nel caso dei veicoli a due ruote, da un motore: 1.1) la cui cilindrata è inferiore o uguale a 50 cm/3 se a combustione interna, oppure 1.2) la cui potenza nominale continua massima è inferiore o uguale a 4 kW per i motori elettrici; 2) nel caso dei veicoli a tre ruote, da un motore: 2.1) la cui cilindrata è inferiore o uguale a 50 cm/3 se ad accensione comandata, oppure 2.2) la cui potenza massima netta è inferiore o uguale a 4 kW per gli altri motori a combustione interna, oppure 2.3) la cui potenza nominale continua massima è inferiore o uguale a 4 kW per i motori elettrici. Alla lettera b) sono definitivi i motocicli, ossia veicoli a due ruote, senza carrozzetta (categoria L3e) o con carrozzetta (categoria L4e), muniti di un motore con cilindrata superiore a 50 cm' 3 se a combustione interna e/o aventi una velocità massima per costruzione superiore a 45 km/h.

3.2. In modo corrispondente, le differenze fra le suddette categorie di veicoli hanno avuto il loro riflesso sulla disciplina dell'abilitazione alla guida, quanto meno fino al 19 gennaio 2013, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 59 del 2011, il cui art. 3 ha integralmente sostituito le disposizioni delineate dal D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 116.

3.2.1. Secondo la disciplina previgente, costituita dal D.Lgs. n. 285 del 1992, artt. 116 e 121 non si potevano guidare autoveicoli e motoveicoli - dunque, non anche i ciclomotori - senza avere conseguito la patente di guida,e l'idoneità tecnica necessaria per il rilascio della patente medesima si conseguiva superando una prova di verifica delle capacità e dei comportamenti ed una prova di controllo delle relative cognizioni. Per guidare un motoveicolo di massa complessiva sino a 1,3 t. era previsto il conseguimento della patente di categoria.

Diversamente, per condurre un ciclomotore, il minore di età che aveva compiuto 14 anni doveva conseguire un titolo diverso dalla patente, costituito dal "certificato di idoneità alla guida... a seguito di specifico corso con prova finale, organizzato secondo le modalità di cui al comma 11-bis".

In tale assetto normativo, del tutto coerentemente, non si riteneva che potesse integrare il reato (allora) previsto dal D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 116, comma 13, ma soltanto la violazione amministrativa sanzionata dall'art. 116, comma 13-bis, la guida di un ciclomotore con cilindrata fino a 50 cc. senza aver conseguito il prescritto certificato di idoneità (Sez. 4, n. 23631 del 19/4/2012, Geanta, Rv. 253129), mentre alla fattispecie penale era ricondotto il diverso caso di guida di un ciclomotore maggiorato nella cilindrata e, comunque, non corrispondente alle sue caratteristiche originarie, previste dal D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 52 trattandosi di mezzo rientrante, di fatto, nella categoria dei motoveicoli di cui all'art. 53, per la conduzione del quale era prescritta la patente di categoria "A" (Sez. 4, n. 255 del 18/09/1997, dep. 1998, Fichera, Rv. 210156).

3.2.2. L'attuale disciplina, in vigore dal 19 gennaio 2013 per effetto del D.Lgs. n. 59 del 2011, all'art. 116, comma 1, stabilisce, mutando parzialmente la prospettiva rispetto alla situazione precedente, che non si possono guidare ciclomotori, motocicli, tricicli, quadricicli e autoveicoli senza aver conseguito la patente di guida e, ove richieste, le abilitazioni professionali.

Il complesso veicolare viene così ricondotto a unità tendenziale, in cui, diversamente dal regime previgente, per tutti i veicoli, compresi i ciclomotori, è previsto il conseguimento della patente di guida "conforme al modello UE" (art. 116, comma 3): in pari tempo, però, il legislatore ha conservato le distinzioni derivanti dalle differenti caratteristiche tecniche dei veicoli stessi e dall'età dei conducenti, individuando diverse categorie di patenti abilitanti alla guida. In particolare, mentre per i ciclomotori a due ruote (categoria L1e), con velocità massima di costruzione non superiore a 45 km/h, la cui cilindrata è inferiore o uguale a 50 cmc se a combustione interna, oppure la cui potenza nominale continua massima è inferiore o uguale a 4 kW per i motori elettrici, è prevista la patente "AM" (art. 116, comma 3, lett. a, n. 1), per i motocicli di cilindrata massima di 125 cmc, di potenza massima di 11 kW e con un rapporto potenza/peso non superiore a 0,1 kW/kg, è prevista la patente "Al" (art. 116, comma 3, lett. b, n. 1), per i motocicli di potenza non superiore a 35 kW con un rapporto potenza/peso non superiore a 0,2 kW/kg e che non siano derivati da una versione che sviluppa oltre il doppio della potenza massima, è prevista la patente "A2" (art. 116, comma 3, lett. c) e per i motocicli, ossia veicoli a due ruote, senza carrozzetta (categoria L3e) o con carrozzetta (categoria L4e), muniti di un motore con cilindrata superiore a 50 cmc, se a combustione interna e/o aventi una velocità massima per costruzione superiore a 45 km/h, è prevista la patente "A" (art. 116, comma 3, lett. d).

4. Assodato quanto precede, la Corte ritiene che, alla stregua del quadro normativo di riferimento, il mero fatto dell'intervenuta previsione del conseguimento di una patente di guida anche per i conducenti di ciclomotori, con decorrenza dal 19 gennaio 2013 (quindi, vigente alla data di commissione del fatto ascritto a Z.), non legittimi un'interpretazione in virtù della quale il soggetto che, sottoposto a misura di prevenzione in via definitiva, sia stato colto alla guida di un ciclomotore senza patente, possa essere chiamato a rispondere del reato previsto dal D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 73.

In effetti, anche a seguito delle illustrate innovazioni normative, il conducente del ciclomotore, che si trovi nelle condizioni e tenga la condotta descritte nell'art. 73 cit., non deve rispondere del reato, perchè il suddetto veicolo non può essere, comunque, ricondotto alla nozione di motoveicolo.

4.1. A corroborare, sempre sotto il profilo sistematico, tale conclusione vale rilevare che l'art. 73 cit. non ha fatto altro che operare la ricognizione e l'attrazione nel testo unico della L. n. 575 del 1965, art. 6 norma, la quale, nel caso di guida di un autoveicolo o motoveicolo, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata, ai sensi del D.P.R. n. 393 del 1959, art. 82 e art. 91, comma 2 e comma 3, n. 2, comminava la pena dell'arresto da sei mesi a tre anni, qualora si trattasse di persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a misure di prevenzione.

La struttura di quella fattispecie penale rimandando alle norme integratrici dell'allora vigente "Testo unico sulla circolazione stradale" - fonte che, come da art. 21 (che lo elencava, sotto la lett. d, tra le categorie dei veicoli) e art. 24 (che lo definiva come veicolo a due o tre ruote con cilindrata fino a 50 c.c. e capacità di sviluppare su strada piana una velocità fino a 40 km/h), già conosceva il concetto tecnico-giuridico di "ciclomotore", distinguendolo da quello di "motoveicolo" (descritto dall'art. 25) - prevedeva, proprio in virtù di tale distinzione, solo per i motoveicoli il possesso della patente quale documento necessario per procedere alla corrispondente guida (D.P.R. n. 393 del 1959 cit., art. 90, comma 2), laddove per il conducente del ciclomotore era sufficiente, a mente dell'art. 90, comma 1, D.P.R. cit., avere con sè un documento dal quale si potesse rilevare l'età del conducente.

Il chiaro riferimento, operato dalla norma al duplice presupposto oggettivo (che si aggiunge a quello della definitività del provvedimento di prevenzione) della guida di un motoveicolo - categoria normativamente distinta da quella di ciclomotore - e del difetto di patente in capo al conducente sottoposto a misura di prevenzione definitiva - documento necessario per la guida dei motoveicoli, ma non per quella dei ciclomotori - costituiva l'evidente esito di una scelta legislativa volta a escludere, per il conducente del ciclomotore le conseguenze sanzionatorie previste dalla L. n. 575 del 1965, art. 6.

Il legislatore delegato del 2011, procedendo alla ricognizione delle norme vigenti in materia di misure di prevenzione, ha riprodotto l'art. 6 cit. nel D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 73 senza alcuna sostanziale innovazione.

4.2. Peraltro, non è superfluo rilevare che, nella successione degli atti normativi emanati nel corso dell'anno 2011, il D.Lgs. n. 159 del 2011 risale al 6 settembre 2011 (e la sua entrata in vigore, per la parte che qui rileva, è del 13 ottobre 2011). Intanto, era stato emesso il 18 aprile 2011 il D.Lgs. n. 59 del 2011, fonte che ha previsto, a far data dal 19 gennaio 2013, la necessità del conseguimento della patente di guida (sia pure, con i minimi requisiti autorizzativi della categoria "AM") per i conducenti dei ciclomotori.

Ebbene, è ineludibile osservare che, ove il D.Lgs. n. 159 del 2011 avesse avuto l'obiettivo di rimodellare la fattispecie di cui all'art. 73 cit. recependo e coordinando la novità normativa introdotta nel C.d.S. al fine di estendere la punibilità della condotta sanzionata dall'art. 73 ai conducenti di ciclomotori, lo avrebbe fatto modificando i dati strutturali della fattispecie incriminatrice, essendo già nota la novità normativa riguardante la necessità di abilitazione (anche) per la guida dei ciclomotori. Ma ciò non è avvenuto.

4.3. L'esito di questo ragionamento è che tutti gli indici interpretativi rilevanti per chiarire l'ambito di applicazione del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 73 inducono a concludere che, in mancanza di un intervento normativo, rimangono immutate le distinzioni riguardanti le categorie dei motoveicoli e dei ciclomotori, con l'effetto che la platea dei destinatari della norma incriminatrice in esame non può ritenersi suscettibile di ampliamento sulla scorta di un'esegesi sistematica spinta al punto tale da inserire nella sua sfera di disciplina anche i conducenti dei ciclomotori per il solo fatto che pure per loro è ora necessario il conseguimento del titolo per l'abilitazione alla guida, ove poi il titolo manchi o sia revocato per l'effetto della misura di prevenzione.

Va, dunque, ritenuto che estendere l'applicazione dell'art. 73 cit. anche ai prevenuti che siano stati sorpresi alla guida di ciclomotori senza patente di guida sarebbe approdo contrario all'insuperabile divieto di analogia in malam partem in materia penale risultante dall'art. 1 c.p., dall'art. 14 preleggi e dall'art. 25 Cost..

Nella prospettiva configurata, va senz'altro condiviso il rilievo secondo cui la depenalizzazione del reato di guida senza patente di cui all'art. 116 C.d.S. a seguito del D.Lgs. n. 8 del 2016 non si estende all'ipotesi in cui la guida senza patente venga posta in essere da persona sottoposta a misura di prevenzione personale, in relazione alla quale il D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 73 prevede un autonomo reato (Sez. 6, n. 8223 del 12/12/2017, dep. 2018, Cavallo, Rv. 272233); rilievo che va specificato nel senso che esso non riguarda la guida del ciclomotore, poichè tale condotta è, nella disciplina vigente, estranea all'ambito di applicazione dell'art. 73 cit..

5. Corollario di queste considerazioni è che deve addivenirsi, per le ragioni sopra esposte, all'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perchè il fatto ascritto a Z.R. non sussiste. 

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.
Così deciso in Roma, il 1 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2019 
 
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Oltraggio a p.u.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 1 agosto 2019, n.35428
MASSIMA

Ai fini della configurabilità del reato di oltraggio previsto dall'art. 341 bis cod. pen. è necessaria la presenza di almeno due persone diverse rispetto ai pubblici ufficiali destinatari delle espressioni oltraggiose.


TESTO DELLA SENTENZA

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 1 agosto 2019, n.35428 - Pres. Petitti – est. Costanzo


Ritenuto in fatto

1. Con sentenza n. 3470/2018, la Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna inflitta dal Tribunale d Trapani a Se. Am. per il reato ex artt. 81, comma 2 e 651 cod. pen. (capo A) e 341 bis cod. pen. (capo B) descritti nelle imputazioni.

2. Nel ricorso presentato dal difensore di Am. si chiede l'annullamento della sentenza deducendo: a) violazione e falsa applicazione dell'art. 341 bis cod. pen. e vizio della motivazione, perché è mancata la necessaria presenza di più persone per integrare il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, essendo stati presenti ai fatti solo i due agenti di pubblica sicurezza operanti, i quali, per altro verso, compirono, nel richiedere i documenti all'imputato per identificarlo, un atto non di ufficio ma arbitrario perché essi già lo conoscevano; b)violazione di legge e vizio della motivazione nel disconoscere le circostanze attenuanti generiche per l'assenza di elementi di valutazione favorevoli e per la mancanza di resipiscenza da parte del ricorrente


Considerato in diritto

1. Il primo motivo di ricorso è fondato.

a. Correttamente la Corte di appello ha escluso che l'azione dei pubblici ufficiali sia stata arbitraria evidenziando che essi erano doverosamente intervenuti perché era stata segnalata la presenza di un soggetto che si aggirava con fare sospetto nei pressi di alcuni garage e, individuandolo nell'imputato, gli chiesero le generalità; non avendole questi fornite, gli chiesero di esibire i documenti e, poiché egli dichiarava di non averli, lo accompagnarono presso la sua abitazione a casa (poco distante) fino a che Am. pronunciò le espressioni offensive riportate nell'imputazione. L'assunto difensivo (peraltro indimostrato) secondo cui i pubblici ufficiali già conoscevano l'imputato non è, comunque rilevante perché per l'applicazione dell'art. 393 bis cod. pen., si richiede un'attività ingiustamente persecutoria del pubblico ufficiale, il cui comportamento fuoriesca del tutto dalle ordinarie modalità di esplicazione dell'azione di controllo e prevenzione demandatagli nei confronti del privato destinatario (Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, Rv. 269368; Sez. 5, n. 35686 del 30/05/2014, Rv. 260309).

Tuttavia, ai fini della configurabilità del reato di oltraggio previsto dall'art. 341 bis cod. pen. è necessaria la presenza di almeno due persone (Sez. 6, n. 16527 del 30/01/2017, Rv. 270581) diverse rispetto ai pubblici ufficiali destinatari delle espressioni oltraggiose (Sez, 6, n. 16106 del 18/03/2016; Sez. 6, n.11443 del 25/02/2016; Sez. 6 n. 20936 del 12/02/2015, non massimate).

Invece, nel caso in esame, dalla sentenza impugnata si desume che quando l'imputato pronunciò le espressioni ingiuriose riportate nell'imputazione le due persone presenti erano, appunto, i pubblici ufficiali procedenti, fra i quali, quello destinatario delle offese (p. 3, non numerata).

Ne deriva l'annullamento della sentenza impugnata relativamente al reato ex art. 341 bis cod. pen. oggetto del ricorso, perché il fatto non sussiste.

1. 2. Quanto al secondo motivo di ricorso, deve ribadirsi - che il riconoscimento delle attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, che deve motivare quanto basta a chiarire la sua valutazione sull'adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo (Sez.6, n.41365 del 28/10/2010, Rv.248737; Sez.I, 46954 del 04/11/2004, Rv.230591) e la Corte d'appello ha evidenziato che nessuna circostanza le è risultata valorizzabile per applicare l'art. 62-bis cod. pen., mancando - peraltro ogni sua resipiscenza - e emergendo una negativa personalità proclive a delinquere come ricavabile dai precedenti penali, anche specifici (p. 4).


P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

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Circolare Minimbiente su entità e modalità versamento importi sanzioni amministrative legge 447/95




Con la nota del 14/02/2019 il Ministero dell’Ambiente ha spiegato che le modifiche introdotte rispetto all’art. 10, comma 4, della l. n. 447 del 1995, come modificato dal d.lgs. n. 42 del 2017, sono intervenute sulla percentuale delle sanzioni amministrative applicate per il mancato rispetto delle norme sull’inquinamento acustico che deve essere versata sull’apposito capitolo del Bilancio dello Stato, portandola al 100%. Sempre secondo la norma citata, il 70% di tale ammontare verrà successivamente riassegnato (dal Ministero delle Economie e Finanze) su apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, per essere devoluto, con decreto del relativo Ministro, ai Comuni per il finanziamento dei piani di risanamento di cui all’articolo 7, l. n. 447 del 1995, e alle Agenzie per la protezione ambientale competenti per territorio per l’attuazione dei controlli di competenza.
In merito alle modalità di versamento dei proventi di cui sopra gli stessi devono essere versati sul conto entrata del bilancio dello Stato – capitolo 2592 – art. 19, capo 32. Ogni Comune potrà effettuare il versamento sul codice IBAN, relativo al capitolo 2592 – art. 19, capo 32 sul conto di tesoreria di propria competenza territoriale.

VERSAMENTO DEGLI IMPORTI SANZIONI AMMINISTRATIVE LEGGE 447 95
http://www.anci.it/
------------------
Milano, 7 marzo 2019
Prot. n. 608/19
Circolare n. 69/19

Ai Signori
Sindaci
Assessori all’Ambiente
Comuni della Lombardia
LORO SEDI
Organi di Anci Lombardia

Oggetto: Ministero dell’Ambiente: sanzioni L.447/95 inquinamento acustico

Gentilissimi,
In data 14 febbraio 2019, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare ha trasmesso ad ANCI una informativa in materia di sanzioni amministrative ai sensi della L. 447/95 sull’inquinamento acustico.
Secondo tale comunicazione, le modifiche apportate alla legge con il D. Lgs. n. 42 del 2017 comportano che il 100% delle somme derivanti dalle sanzioni irrogate va versato allo Stato centrale; in precedenza i Comuni dovevano versare il 70% degli importi incassati.
Il Ministero precisa che il 70% dell’ammontare delle sanzioni verrà successivamente riassegnato su apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero dell’Ambiente, per essere devoluto ai Comuni per il finanziamento dei piani di risanamento e alle Agenzie per la protezione ambientale competenti per territorio per l’attuazione dei controlli di competenza.
La comunicazione viene fornita in allegato.

Cordiali saluti
Mario Colombo - Presidente Dipartimento Servizi Pubblici Locali, Ambiente e Mobilità Anci Lombardia
Fabio Binelli - Coordinatore Dipartimento Servizi Pubblici Locali, Ambiente e Mobilità Anci Lombardia

Violazione del codice della strada e patente estera. Fantasie Italiane

Ho ricevuto un verbale per un’infrazione al codice della strada dal Comune di Roma in cui mi venivano chiesti, art. 126 cds, i dati della persona alla guida dell’autoveicolo per la decurtazione dei punti. Ho risposto inviando copia della patente della persona che guidava l’autoveicolo, nel caso si trattava di un residente in Moldavia con patente moldava.

Il Comune di Roma mi ha risposto dicendo che la dichiarazione risultava incompleta, poiché avevo inviato solo la copia della patente senza allegare la copia del permesso internazionale e la traduzione in lingua italiana come da art. 135 cds, per cui la dichiarazione risultava inidonea a sollevare dall’adempimento. Cosa devo fare?


L’articolo 126 bis, 2° comma, del Codice della strada stabilisce che nel caso di mancata identificazione del conducente, il proprietario del veicolo deve fornire all’organo di polizia che procede, entro sessanta giorni dalla data di notifica del verbale di contestazione, i dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione.

La norma, pertanto, impone al proprietario del veicolo di comunicare esclusivamente i dati personali e della patente di colui che era conducente al momento della violazione.
La norma (cioè l’articolo 126 bis, comma 2°, del Codice della strada) non impone ulteriori comunicazioni nel caso in cui il conducente sia titolare di patente rilasciata da altro Stato.

Tuttavia, è vero che molti comuni richiedono al proprietario (indicandolo chiaramente nel verbale che gli spediscono) di comunicare anche il permesso internazionale o la traduzione ufficiale della patente nel caso in cui il conducente del veicolo al momento dell’infrazione sia uno straniero munito di patente rilasciata da Stato extra Unione europea.

Questi stessi Comuni poi, nel giustificare (come ha fatto con il lettore il comune di Roma) la sanzione inflitta al proprietario (ai sensi dell’articolo 126, bis, comma 2°, del Codice della Strada) per non aver inviato anche il permesso internazionale o la traduzione ufficiale della patente citano l’articolo 135 dello stesso Codice che stabilisce che i titolari di patente di guida rilasciata da uno Stato extra Ue per poter guidare sul territorio italiano (se non risiedono in Italia da oltre un anno) devono essere muniti di permesso internazionale oppure di una traduzione ufficiale in lingua italiana della predetta patente.

Quindi riassumendo:
da un lato c’è l’articolo 126 bis, comma 2°, del Codice della Strada che prevede a carico del proprietario una sanzione (quella inflitta al lettore) se omette, senza giustificato e documentato motivo, di inviare all’organo di polizia i dati personali e della patente del conducente (senza richiedere l’invio di altri documenti per casi particolari come può essere quello di un conducente munito di patente estera);
dall’altro lato vi sono numerosi comuni che, invece, fin dall’invio del verbale al proprietario pretendono (scrivendolo nel verbale) anche l’invio del permesso internazionale della traduzione ufficiale in italiano della patente estera nel caso di conducente titolare di patente estera.

Il personale parere dello scrivente è che la sanzione prevista dall’articolo 126 bis, 2° comma, del Codice della Strada sanziona solo l’omesso invio dei dati personali e della patente del conducente (e non anche l’omesso invio di altri documenti non indicati in modo espresso nella norma).

La norma, pertanto, solo con molta “fantasia” può essere interpretata (come fanno i comuni) nel senso di pretendere che il proprietario comunichi anche il permesso internazionale o la traduzione ufficiale in italiano della patente estera.

Del resto l’articolo 135 del Codice della strada prevede (al comma 8) una specifica sanzione, solo a carico del conducente, se il conducente munito di patente straniera guidi in Italia senza avere con sé anche il permesso internazionale o la traduzione ufficiale in italiano della patente estera, ma l’articolo 135 non ha nulla a che fare con l’obbligo del proprietario (previsto nell’articolo 126 bis, comma 2) di comunicare i dati personali e della patente del conducente.

In aggiunta, poi, si deve dire che il ministero dell’Interno ha allegato alla recentissima circolare n. 300/A/3480/19/109/16 del 16 aprile 2019 (facilmente reperibile su internet digitando in un qualsiasi motore di ricerca gli estremi della circolare) un modello di comunicazione dei dati personali e della patente del conducente in cui è previsto che, se conducente è un titolare di patente estera, debbano essere comunicati solo i dati della patente con invio della fotocopia della sola patente (vedere le note 1 e 2 contenute nel modello di comunicazione dei dati).

Detta circolare del ministero è stata evidenziata per evidenziare che evidentemente lo stesso ministero dell’Interno non ritiene che il proprietario debba comunicare altri dati oltre quelli della patente anche nel caso in cui il conducente sia titolare di patente estera (altrimenti avrebbe richiesto nello stesso modello, come fanno i comuni, la comunicazione anche di altri documenti oltre alla patente).

Resta fermo, comunque, che questa circolare non è obbligatoria per i comuni, ma è in ogni caso un chiaro ed autorevole segno di una interpretazione dell’articolo 126 bis, comma 2, differente rispetto a quella di molti comuni italiani.

In definitiva, il verbale che il comune di Roma ha inviato al lettore può essere contestato davanti al Giudice di pace competente (oppure con ricorso al prefetto): toccherà poi al Giudice (o al prefetto) dare la propria interpretazione dell’articolo 126 bis, comma 2°, del Codice della Strada accogliendo o rigettando il suo eventuale ricorso.

Purtroppo non sono rintracciabili sentenze che si siano già espresse, in un senso o nell’altro sulla questione in esame e, pertanto, l’esito di un eventuale ricorso da parte del lettore dipenderà sostanzialmente da come il giudice interpreterà la norma in base alla quale gli è stata inflitta la sanzione (cioè l’articolo 126 bis, 2° comma, del Codice della Strada) se, cioè, si limiterà alla stretta interpretazione delle parole usate dalla norma (che impone l’invio dei soli dati della patente) o se interpreterà la norma in modo estensivo e, cioè, interpretando l’espressione “dati della patente” in un senso più ampio (che includa, cioè, anche il permesso internazionale o la traduzione ufficiale in italiano della patente estera nel caso di conducente munito di patente estera).

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Angelo Forte
 https://www.laleggepertutti.it

E' possibile concedere la residenza in una roulotte?

Domanda
Un nostro cittadino vive in una roulotte posteggiata in un parcheggio pubblico comunale, senza alcuna autorizzazione in tal senso e vuole chiedere la residenza. È possibile ricevere tale tipo di richiesta, viste le norme antiabusivismo? Se si, è da iscrivere come “normale” residente APR, oppure come senza fissa dimora?


Risposta

Sicuramente la richiesta deve essere ricevuta, questo per evitare l’ipotesi del reato di omissione d’atti d’ufficio.

In seguito, eventualmente, si procederà con gli appositi strumenti nell’ambito del procedimento amministrativo: se ricorre l’ipotesi dell’irricevibilità (mancando ad es. i dati obbligatori previsti nel modulo di richiesta…) si formerà un provvedimento negativo in forma semplificata, oppure si farà ricorso al preavviso di rigetto previsto dall’art. 10-bis della legge 241/90, infine l‘Ufficiale di Anagrafe potrà provvedere al ripristino della posizione anagrafica precedente, mediante annullamento della mutazione registrata, a decorrere dalla data della ricezione della dichiarazione.

Prima, però, di provvedere in tal senso, in riferimento al quesito specifico, è necessario riflettere bene sulla situazione di fatto. L’impostazione che si è consolidata nel tempo a proposito, che possiamo riassumere brevemente come segue, è a grandi linee questa:

l’Anagrafe si occupa di registrare la situazione di fatto e tradizionalmente tale funzione non viene snaturata dalla difesa di altri interessi (urbanistici, igienico -sanitari, di ordine pubblico, etc.). Esistono strumenti giuridici appositi, differenti da quelli anagrafici, per la tutela di tali interessi. Pertanto, in termini generali, se gli accertamenti relativi alla dimora abituale danno esito positivo, il cittadino viene iscritto in APR, indipendentemente dalle eventuali violazioni edilizie. Ovviamente la presenza deve avere carattere di stabilità e non essere itinerante;

gli organi preposti (quali il Sindaco, l’Ufficio Tecnico comunale ed il comando di Polizia) ricevono la segnalazione ad hoc da parte dell’Ufficio Anagrafe (art. 1 della legge anagrafica: “L’iscrizione e la richiesta di variazione anagrafica possono dar luogo alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza, ai sensi delle vigenti norme sanitarie”).

Relativamente alle norme antiabusivismo, per potersi configurare un’occupazione abusiva, secondo quanto previsto dall’art. 5 del d.l. 47/2014, occorre la contestuale presenza di due requisiti: l’occupazione arbitraria di terreni o immobili altrui e la querela di parte della persona offesa. Essendo il terreno dove è posizionata la roulotte di proprietà comunale, a seguito della richiesta del cittadino, è necessario fare la segnalazione agli organi preposti (Sindaco, Comando di Polizia, Ufficio Tecnico). Il cittadino stesso dovrà indicare nella richiesta di residenza il titolo in base al quale sta occupando legittimamente l’immobile (in questo caso il terreno). Pertanto una verifica in tal senso è necessaria. Se queste segnalazioni porteranno ad una ordinanza di sgombero, o comunque alla rimozione della roulotte, prima della conclusione del procedimento anagrafico, sarebbe possibile non effettuare l’iscrizione stessa, per carenza del requisito della dimora abituale. Quindi in questo caso la motivazione del rifiuto sarà proprio determinata dalla situazione di fatto.

Riguardo all’ipotesi senza fissa dimora, è necessario chiarire che SFD è chi non fermandosi mai per lungo tempo in uno stesso luogo, non possiede i requisiti per essere considerato residente da nessuna parte e necessita dunque di un trattamento diverso (in pratica si tratta di far coincidere la residenza anagrafica con il domicilio). Secondo l’Istat (“Avvertenze, note illustrative e normativa AIRE, Metodi e Norme, serie B – n. 29 –“, edizione 1992) è chi non abbia in alcun Comune quella dimora abituale che è elemento necessario per l’accertamento della residenza (girovaghi, artisti delle imprese spettacoli viaggianti, commercianti e artigiani ambulanti, ecc.); per tali persone si è adottato il criterio dell’iscrizione anagrafica nel Comune di domicilio. In base alla norme del c.d. decreto sicurezza del 2009, sono cambiate le modalità di iscrizione anagrafica delle persone senza fissa dimora, vista l’introduzione dell’obbligo di fornire all’ufficiale d’anagrafe, al momento della richiesta di iscrizione, “gli elementi necessari allo svolgimento degli accertamenti atti a stabilire l’effettiva sussistenza del domicilio”. Quindi fondamentalmente la distinzione tra iscrizione APR e SFD si gioca sulla differenza tra i concetti di residenza (dimora abitale) e domicilio (sede principale dei propri affari e interessi).

Per concludere, e tornare al caso oggetto del quesito, sarà il cittadino che farà una richiesta di “normale” residenza APR, oppure di iscrizione come SFD, alla quale dovrete rispondere, utilizzando gli strumenti procedimentali ad hoc, in base alle verifiche ed agli elementi emersi nel corso dell’istruttoria, tenendo presenti i concetti che abbiamo cercato di chiarire per delineare le due diverse situazioni.

https://www.publika.it

Anche le aree di sosta su suolo pubblico devono pagare la Tarsu

Le superfici di suolo pubblico occupate da aree di sosta sono soggette alla Tarsu. Lo ha stabilito l’Ordinanza n. 20768, 1 agosto 2019, della Corte di Cassazione, sezione V.

Nella fattispecie, la Società gestore delle aree destinate a parcheggio a pagamento di un Comune lombardo aveva impugnato l’avviso di accertamento avente ad oggetto il pagamento della Tassa.

La Corte ha osservato che “il D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 1, stabilisce che la tassa è dovuta per l'occupazione o la detenzione di locali e aree scoperte, a qualsiasi uso adibite, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie ad abitazioni. Tale previsione ha carattere generale e subisce solo le deroghe indicate nel comma secondo dello stesso articolo le quali non operano automaticamente al verificarsi delle situazioni previste, ma devono essere di volta in volta dedotte ed accertate con un procedimento amministrativo, la cui conclusione deve essere basata su elementi obiettivi direttamente rilevabili o su idonea documentazione. Presupposto della Tarsu è, dunque, la produzione di rifiuti che può derivare anche dall'occupazione di suolo pubblico per effetto di convenzione con il Comune, produzione alla cui raccolta e smaltimento sono tenuti a contribuire tutti coloro che occupano aree scoperte, come appunto stabilisce il D.Lgs. n. 507 cit., art. 62, comma 1”.

strategieamministrative.it

Nel canale telegram la sentenza (per chi c'è :) )

Il comandante della polizia locale può fare anche il responsabile anticorruzione e trasparenza in Comune

Delibera numero 333 del 20 giugno 2019

Oggetto: orientamento in ordine alla possibilità di attribuire le funzioni di Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) al comandante della polizia locale.
Delibera numero 333 del 27 febbraio 2019
 
Oggetto: orientamento in ordine alla possibilità di attribuire le funzioni di Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) al comandante della polizia locale.
Il Consiglio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione


Vista la legge 6 novembre 2012, n. 190 «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione».
Visto il decreto legislativo n. 33/2013 “Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni” e s.m.i.
Visto il decreto legislativo n. 39/2013 “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190” e s.m.i.
Valutata le legge speciale n.  65 del 1986 «Legge quadro sull'ordinamento della Polizia Locale» e i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa.
Valutata la legge 28 dicembre 2015, n. 208 «Legge di stabilità 2016».
Ritenuto che ad ANAC non spetta l’interpretazione del requisito di esclusività della funzione di Comandante della Polizia locale ma piuttosto la valutazione circa l’attribuzione dell’incarico di RPCT al Comandante del corpo di Polizia locale, tenendo conto delle criticità che il cumulo di funzioni, in capo alla predetta figura, potrebbe creare.
Considerato che il ruolo di RPCT comporta necessariamente rapporti costanti e diretti con l’organo di vertice e con tutte le strutture dell’amministrazione e che tra i compiti del RPCT alcuni presentano profili di natura gestionale.
Ritenuto che non vi sia alcuna incompatibilità prevista dall’ordinamento tra lo svolgimento del ruolo di RPCT e quello di Comandante del corpo di Polizia locale.
Considerato che con recente pronuncia il Consiglio di Stato (sent. n. 2147/2019) ha sancito il superamento del principio di specialità delle funzioni di polizia municipale, introdotto dalla legge di stabilità 2016 in funzione alle esigenze di riordino delle competenze degli uffici dirigenziali, garantendo la maggior flessibilità della figura dirigenziale, nonché alle esigenze del contenimento della spesa per il personale, estensibile anche ai Comuni di più ridotte dimensioni.
Visto l’Aggiornamento 2015 al Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) adottato con Delibera dell’Autorità n. 12 del 28 ottobre 2015; il PNA 2016 adottato con Delibera n. 831 del 3 agosto 2016; l’Aggiornamento 2017 al PNA adottato con Delibera n. 1208 del 22 novembre 2017; l’Aggiornamento 2018 al PNA adottato con Delibera n. 1074 del 21 novembre 2018.
Vista la Delibera ANAC n. 840 del 2 ottobre 2018 recante «Richieste di parere all’ANAC sulla corretta interpretazione dei compiti del Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT)» e la Delibera ANAC n.  841 del 2 ottobre 2018 recante «Attribuzione dell'incarico di Responsabile per la Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza al Direttore del Dipartimento Legale dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Adriatico Meridionale (AdSP), Dirigente, Avvocato iscritto all’albo speciale di cui all’art. 23 della Legge 31 dicembre 2012, n. 247».
Valutata l’istruttoria predisposta dall’Ufficio PNAe Regolazione Anticorruzione e Trasparenza.


Considerato in fatto


La questione trae origine da un procedimento di vigilanza avviato dall’Autorità in data 9 luglio 2018 (Fascicolo n. 3674/2018) circa la sussistenza del requisito della condotta integerrima in capo al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) anche comandante della Polizia locale di un Comune.
A conclusione dell’istruttoria, il Consiglio dell’Autorità, nell’adunanza del 30 ottobre 2018 ha ritenuto, per la fattispecie segnalata, di archiviare il procedimento di vigilanza, non rilevando ulteriori profili di intervento. Nel corso della medesima adunanza, il Consiglio ha ritenuto, invece, necessario un approfondimento di carattere generale sull’opportunità di attribuire l’incarico di RPCT al Comandante dirigente del corpo di Polizia locale. Su tale questione l’Autorità non ha ancora avuto modo di pronunciarsi.


Ritenuto in diritto


Per procedere all’esame della questione occorre, da una parte, tenere in considerazione i criteri di scelta del RPCT previsti nella Legge 6 novembre 2012, n. 190 e le indicazioni fornite dall’Autorità nei PNA e nei relativi aggiornamenti, nonché in apposite Delibere. Dall’altra, valutare il quadro normativo e giurisprudenziale relativo ai dirigenti del Corpo di polizia locale ai sensi della normativa vigente, tra cui la legge 7 marzo 1986, n. 65 «Legge-quadro sull'ordinamento della polizia locale».
Per quanto riguarda i criteri di scelta del RPCT, la legge 6 novembre 2012, n. 190, all’art. 1 co. 7 stabilisce che «l'organo di indirizzo individua, di norma tra i dirigenti di ruolo in servizio, il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, disponendo le eventuali modifiche organizzative necessarie per assicurare funzioni e poteri idonei per lo svolgimento dell'incarico con piena autonomia ed effettività. Negli enti locali, il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza è individuato, di norma, nel segretario o nel dirigente apicale, salva diversa e motivata determinazione».
L’Autorità ha, finora, indicato, nei PNA, nei relativi aggiornamenti e da ultimo, nella Delibera n. 840/2018 recante «Richieste di parere all’ANAC sulla corretta interpretazione dei compiti del Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT)», che l’attribuzione delle funzioni di RPCT è preferibile ricada su dirigenti o funzionari che si trovino in una posizione di stabilità nell’amministrazione al fine di garantire un’adeguata conoscenza del funzionamento della stessa; che non provengano direttamente da uffici di diretta collaborazione con l’organo di indirizzo per la particolarità del vincolo fiduciario che li lega all’Autorità di indirizzo politico; che non si trovino in una posizione che presenti profili di conflitto di interessi. Dovrebbero, quindi, compatibilmente con la struttura organizzativa dell’ente, essere esclusi dalla designazione i dirigenti incaricati di quei settori che sono considerati più esposti al rischio della corruzione, come, ad esempio, l’Ufficio gestione del patrimonio, l’Ufficio contratti, e in generale gli uffici che svolgono attività di gestione e di amministrazione attiva (PNA 2016 (§ 5.2). La scelta che spetta all’organo di indirizzo è comunque espressione dell’autonomia organizzativa di ogni ente.
Al riguardo occorre anche richiamare la recente Delibera ANAC n. 841 del 2 ottobre 2018 «Sull’attribuzione dell'incarico di RPCT al Direttore del Dipartimento Legale dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Adriatico Meridionale (AdSP), Dirigente, Avvocato iscritto all’albo speciale di cui all’art. 23 della Legge 31 dicembre 2012, n. 247». In tale precedente, l’Autorità ha esaminato i compiti e le funzioni del RPCT e ha ritenuto che il ruolo di RPCT comporta numerose attribuzioni alcune delle quali possono presentare profili di natura gestionale e sanzionatoria (Delibera 841/2018).
Quanto alla normativa sul corpo della polizia locale, occorre, in primo luogo, considerare la legge speciale n.  65 del 1986 «Legge quadro sull'ordinamento della Polizia locale» ove si delinea l’organizzazione del servizio nonché compiti e funzioni degli appartenenti allo stesso.
Ai sensi della richiamata legge i comuni svolgono le funzioni di polizia locale. A tal fine, possono organizzare un servizio di polizia locale che gestiscono nelle forme associative previste dalla legge dello Stato (art.1).
Il personale che svolge servizio di polizia locale (e, quindi, ivi incluso il Comandante della polizia locale) può esercitare funzioni di polizia locale, di polizia giudiziaria, di polizia stradale, funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza (art. 5).
Nel rispetto della disciplina statale, la legge regionale provvede a dettare le norme per l’istituzione del servizio di polizia locale tenendo conto della classe alla quale sono assegnati i Comuni (art. 6).
I Comuni possono definire, con proprio regolamento, l'ordinamento e l'organizzazione del servizio di polizia locale. Solo laddove il servizio di polizia locale sia svolto da almeno sette addetti, si può istituire il Corpo di polizia locale, disciplinando lo stato giuridico del personale con apposito regolamento, in conformità ai principi contenuti nella legge 29 marzo 1983, n. 93 (art. 7, commi 1, 2 e 3). Nelle ipotesi in cui non si raggiunga il numero minimo di personale indicato dalla legge, il servizio di polizia locale non può essere eretto in “Corpo” ma piuttosto deve essere organizzato in “servizio” (art. 1).
La legge precisa poi che l'ordinamento del Corpo si articola di regola in: responsabile del Corpo (comandante), addetti al coordinamento e al controllo, operatori (vigili) (art. 7, co.3).
Quanto ai rapporti tra Sindaco e comandante del Corpo di polizia locale, l’art. 9 stabilisce che quest’ultimo è responsabile verso il Sindaco dell'addestramento, della disciplina e dell'impiego tecnico-operativo degli appartenenti al Corpo. Il Sindaco, a sua volta, è l'organo titolare delle funzioni di polizia locale che competono al Comune (artt. 1 e 2).
L’Autorità si è già espressa sulla figura del comandante della polizia locale, con particolare riferimento a situazioni di conflitto di interessi, affermando che «sussiste un’ipotesi di conflitto di interesse, anche potenziale, nel caso in cui al Comandante/Responsabile della Polizia locale,indipendentemente dalla configurazione organizzativa della medesima, sia affidata laresponsabilità di uffici con competenze gestionali, in relazione alle quali compie anche attivitàdi vigilanza e controllo» (orientamento n. 57 del 3 luglio 2014, come modificato dall’orientamento n. 19 del 10 giugno 2015). Il fine era quello di fornire indicazioni volte ad evitare che il cumulo di incarichi potesse compromettere il regolare svolgimento dei procedimenti amministrativi in relazione alle previsioni di cui alla l. 190/2012.
Nel contesto sopra delineato si è inserita la l. 28 dicembre 2015, n. 208 «legge di stabilità 2016» il cui art. 1, comma 221 stabilisce che «Le regioni e gli enti locali provvedono alla ricognizione delle proprie dotazioni organiche dirigenziali secondo i rispettivi ordinamenti, nonché al riordino delle competenze degli uffici dirigenziali, eliminando eventuali duplicazioni. Allo scopo di garantire la maggior flessibilità della figura dirigenziale nonché il corretto funzionamento degli uffici, il conferimento degli incarichi dirigenziali può essere attribuito senza alcun vincolo di esclusività anche ai dirigenti dell'avvocatura civica e della polizia locale.  Per la medesima finalità, non   trovano applicazione le disposizioni adottate ai sensi dell'articolo 1, comma 5, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ove la dimensione dell'ente risulti incompatibile con la rotazione dell'incarico dirigenziale».
La richiamata norma ha reso possibile il conferimento di incarichi dirigenziali senza alcun vincolo di esclusività anche ai dirigenti dell’avvocatura civica e della polizia municipale.
La giurisprudenza amministrativa ha fissato alcuni principi che riguardano il ruolo del Corpo di Polizia locale nonché quello del Comandante e della sua autonomia.
In merito alla posizione del Corpo rispetto alle altre strutture amministrative comunali, il Consiglio di Stato ha rilevato che solo una volta eretto in Corpo, ovvero nei comuni nei quali il servizio di polizia municipale sia espletato da almeno sette addetti (art. 7, l. n. 65/1986), esso rappresenta un'entità organizzativa unitaria ed autonoma rispetto alle altre strutture organizzative del Comune, la quale non può essere considerata una struttura intermedia (come Sezione) inserita in una struttura burocratica più ampia (in un Settore amministrativo) né può essere posta alle dipendenze del dirigente amministrativo che dirige tale più ampia struttura (Cons. St.,  Sez. V, 27agosto 2012, n. 4605; Cons. St., sez. V, 14 maggio 2013, n.2607).
Il Corpo di polizia   è costituito dall'aggregazione di tutti i dipendenti comunali che esplicano, a vari livelli, i servizi di polizia locale e al cui vertice è posto un comandante, anche egli vigile urbano, che ha la responsabilità del Corpo e ne risponde direttamente al Sindaco. Tale posizione non è affidabile ad un dirigente amministrativo che non abbia lo status di un appartenente al Corpo di polizia locale (Cons. St., sez. V, 14 maggio 2013, n.2607).
Nel caso in cui il servizio di Polizia locale non sia eretto in Corpo - ove non si raggiunga il numero minimo di personale indicato dalla legge - il servizio di polizia locale deve essere organizzato in “servizio” e viene incardinato in una struttura più ampia al cui vertice è posto altro dirigente. (Cons. St., sez. V, 14 maggio 2013, n.2607).
Il giudice amministrativo ha evidenziato (questo però ai sensi della legge regionale) «… l’incompatibilità delle funzioni di comandante con altri incarichi, per evitare eventuali conflitti di interesse… » e per « … l’evidente pericolo che il ruolo di controllore e controllato finiscano per sommarsi in un’unica figura… » (Cons. St.,  sez. V, 14 maggio 2013, n. 2607).
Sulla questione, come anticipato, vi è stato poi l’intervento del legislatore (co. 221, l. n. 208 del 2015 «legge di stabilità 2016») che ha sancito il «superamento del principio di specialità delle funzioni di polizia municipale» per cui non vi sarebbero ostacoli all’attribuzione di ulteriori incarichi dirigenziali al Comandante della Polizia locale.
Recentemente, in considerazione delle novità introdotte dalla legge di stabilità 2016 il Consiglio di Stato (Cons. St., sez. V, 24 febbraio 2019, n. 2147) ha evidenziato che il conferimento di ulteriori incarichi può essere attribuito anche ai dirigenti della polizia municipale nonché ai responsabili degli uffici o dei servizi nei comuni di più ridotte dimensioni che di figure dirigenziali siano privi. Anche nei confronti di questi ultimi si pongono infatti le esigenze di riordino delle competenze introdotte dal comma 221 della legge 208 del 2015 («legge di stabilità 2016»).
In applicazione dei delineati principi, il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima la modifica apportata da un Comune al regolamento sull’organizzazione degli uffici e dei servizi, consistita nell’accorpamento di funzioni presso il settore polizia locale e nell’attribuzione al funzionario responsabile del medesimo settore di una serie di compiti ulteriori. Nello specifico, ci si riferisce in particolare: «ai procedimenti in materia di segnaletica stradale, ivi compresi quelli attinenti allo svolgimento delle procedure per l’acquisto ed eventuale posa in opera della segnaletica stradale verticale e orizzontale»; a quelli «di rilascio dei contrassegni per auto per soggetti disabili, passi carrabili, tesserini per l’esercizio della caccia e per la raccolta dei funghi»; ed ancora ai procedimenti «di gestione dei servizi cimiteriali, inclusa la procedura di individuazione del gestore del servizio; concessione loculi comunali»; quindi alla «notifica degli atti giudiziari e non giudiziari»; ed ancora ai «procedimenti di autorizzazione all’occupazione di suolo pubblico» e alla materia del «commercio e pubblici esercizi», che l’originario ricorrente aveva ritenuto non di competenza del settore al quale era preposto.
Il Consiglio di Stato ha evidenziato che le materie relative alle nuove attribuzioni contestate non possono ritenersi estranee alle funzioni di polizia municipale. Ciò in quanto «ai sensi della legge speciale sull’ordinamento della Polizia locale (co. 2, art. 5, l. n. 65/1986) il personale del corpo esercita anche funzioni di polizia giudiziaria; servizio di polizia stradale e  funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza (art. 5), nel cui ambito si collocano anche le attività di prevenzione e vigilanza sull’osservanza di norma e di regolamento nei settori di competenza comunale; di accertamento e di contestazione delle eventuali infrazioni; di adozione di provvedimenti sanzionatori». Inoltre, «(…) nel loro complesso – precisa il giudice - tali funzioni si riferiscono ad ambiti materiali nei quali possono essere ricondotte anche le funzioni di amministrazione attiva oggetto della modifica regolamentare contestata dall’originario ricorrente, che nel perseguimento delle finalità di razionalizzazione delle strutture organizzative espresse dalla legge di stabilità per il 2016 il Comune di (….) ha attratto al settore polizia municipale»
Il giudice pertanto ha stabilito che l’attribuzione al settore della polizia locale di compiti ulteriori rispetto a quelli in origine svolti, anche se di carattere gestionale e di amministrazione attiva - correlate alle tipiche funzioni di polizia amministrativa e giudiziaria e di pubblica sicurezza previste dalla legge quadro n. 65 del 1986 - sono coerenti con il disegno di razionalizzazione e di accorpamento delle strutture perseguito dalla legge di stabilità per il 2016.
Tanto premesso, fermo restando che la valutazione sul requisito di esclusività della funzione di dirigente Comandante del corpo di Polizia locale non spetta all’ANAC, l’Autorità, invece, ritiene di potersi esprimere, in via generale, sull’attribuzione a tale soggetto anche dell’incarico e delle funzioni di RPCT.
A proposito, giova, innanzitutto, rilevare che nell’ordinamento non sussiste alcuna incompatibilità tra lo svolgimento del ruolo di RPCT e quello di Comandante del corpo di Polizia locale.
La questione, dunque, può essere affrontata in termini di opportunità o meno dello svolgimento contemporaneo delle due funzioni, tenuto conto che anche il RPCT svolge funzioni gestionali.
Si fa riferimento ad un precedente dell’Autorità rilevante nel caso di specie (Delibera n. 841/2018, richiamata in premessa) ove, con riguardo alle funzioni del RPCT è stato osservato che, sebbene quest’ultimo non svolga prettamente funzioni di amministrazione attiva, nel modo tradizionalmente inteso (adozione di atti e di provvedimenti amministrativi connessi al raggiungimento dei fini istituzionali della p.a.), esso svolge, tuttavia, importanti compiti quali la predisposizione del Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione (PTPC) e la verifica dell’attuazione delle misure di prevenzione ivi contenute. Tali attività lo inducono a rapportarsi costantemente con le varie strutture dell’amministrazione, con l’organo di indirizzo politico e con tutti i dirigenti dell’ente. Inoltre, al RPCT spetta anche l’importante compito di vigilare sul rispetto delle disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità degli incarichi, ai sensi dall’art. 15 del d.lgs. n. 39/2013, con capacità proprie di intervento, anche sanzionatorio.
Ciò detto, occorre considerare che  la giurisprudenza - che ha sempre imposto prudenza circa l’affidamento di incarichi gestionali al Comandante della polizia locale per via delle situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi che potrebbe crearsi - dopo l’intervento della legge di stabilità 2016, ha ritenuto legittimi negli enti locali assetti organizzativi in cui si affidano ai comandanti della Polizia locale compiti ulteriori - sebbene correlati alle tipiche funzioni previste dalla legge quadro n. 65 del 1986 - di carattere gestionale e di amministrazione attiva (C.d.S. n. 2147/2019).
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, ad avviso dell’Autorità, in coerenza l’obiettivo perseguito dalla legge di stabilità per il 2016, nonché in coerenza con la recente pronuncia del giudice amministrativo (C.d.S. sent. n. 2147 2019) può essere attribuito al Comandante della Polizia anche l’incarico di RPCT, con le necessarie cautele.
Particolare attenzione deve essere posta circa l’attribuzione dell’incarico di RPCT nel caso in cui al Comandante della Polizia sia già assegnata la titolarità di altri uffici con funzioni di gestione e amministrazione attiva ai sensi del comma 221 della legge 208 del 2015 («Legge di stabilità 2016»). La scelta rimane nell’autonomia di ogni singolo ente che avrà cura di svolgere un’attenta valutazione e di motivare adeguatamente al fine di evitare la presenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto d’interessi tra le diverse attività svolte.
Alla luce di quanto sopra premesso:
Il Consiglio delibera
Nulla osta a che al Comandante della Polizia locale sia attribuito anche l’incarico di RPCT.
L’Amministrazione presterà, tuttavia, le dovute cautele nell’effettuare tale nomina, specie nel caso in cui a tale soggetto sia già assegnata la titolarità di altri uffici con funzioni di gestione e amministrazione attiva ai sensi del comma 221 della legge 208 del 2015 («Legge di stabilità 2016»). In tal caso, l’organo di indirizzo dell’amministrazione cui è attribuito il compito di nominare il RPCT avrà l’onere di valutare, di volta in volta, se l’eventuale commistione e cumulo tra le funzioni di vigilanza e di controllo tipiche della polizia locale e le funzioni amministrative e gestionali proprie di altri incarichi dirigenziali in capo alla figura dirigenziale del Comandante Capo della polizia locale, possano essere confliggenti con le funzioni tipiche del RPCT. Su tali ipotesi sarà cura dell’organo cui spetta la nomina, evitare che si configurino situazioni, anche potenziali, di conflitto d’interessi, tra le diverse attività svolte.
Ogni soluzione adottata dall’organo di indirizzo sulla scelta del RPCT va, comunque, opportunamente motivata.
Il presente provvedimento è pubblicato sul sito istituzionale dell’Autorità.
Raffaele Cantone
Depositato presso la Segreteria del Consiglio il 19 giugno 2019
Il Segretario Maria Esposito

😥 Non spetta, la maggiorazione di cui all’art. 24, comma 2, CCNL in caso di prestazione lavorativa resa in turno, nel normale orario di lavoro, seppur coincidente con una giornata festiva (ricadente nel turno), non potendosi fondatamente cumulare due benefici previsti per finalità e situazioni diverse

😥
Cassazione civile sez. lav., 14/08/2019, (ud. 16/04/2019, dep. 14/08/2019), n.21412
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE  SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:


Dott. TORRICE Amelia – Presidente –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11434/2014 proposto da:
COMUNE DI RHO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 91, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO LUCISANO, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIANO SPAGNUOLO VIGORITA;

– ricorrente –

contro

I.G., G.G., D.I.F.,
R.S., I.D., D.L.D., C.R., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA STIMIGLIANO 5, presso lo studio dell’avvocato FABIO CODOGNOTTO, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

A.N., B.P., GA.EL., g.f., ga.gi., M.M., O.R., P.A., RA.CA., RE.GI., RE.VA., RI.NU., S.A., SO.GI., T.I.,

tutti elettivamente domiciliati in ROMA VIALE CARSO 23 presso lo studio dell’Avvocato ARTURO SALERNI, rappresentati e difesi dall’Avvocato ANTONIO FRANCESCO DELLA SCIUCCA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1102/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 01/10/2013 R.G.N. 2357/2010.

Fatto

RITENUTO

Che:

1. Con sentenza n. 1102 depositata in data 28.1.2014 la Corte d’appello di Milano, accogliendo il gravame proposto dai litisconsorti indicati in epigrafe, agenti o istruttori di Polizia municipale turnisti, ha condannato il Comune di Rho al pagamento del compenso aggiuntivo previsto dall’art. 24, comma 2, CCNL comparto Regioni Autonomie locali 14.9.2000, rivendicato dai lavoratori per l’attività prestata nelle giornate festive infrasettimanali in cumulo con la maggiorazione già percepita per il lavoro prestato in turno nei giorni festivi ai sensi dell’art. 22, comma 5, dello stesso contratto;


2. avverso tale decisione il Comune di Rho propone ricorso per cassazione fondato su due motivi e i litisconsorti resistono con distinti controricorsi; tutte le parti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo si denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 22 e 24 CCNL comparto Regioni Autonomie locali 14.9.2000, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, avendo, la Corte distrettuale, erroneamente ritenuto prestazione eccedente il normale orario di lavoro l’attività resa dal personale turnista nelle festività infrasettimanali contrariamente al chiaro tenore letterale delle due clausole contrattuali, alla loro ricostruzione logico-sistematica, all’orientamento già consolidato della Corte di Cassazione;

2. con il secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 260 del 1949, art. 5,L. n. 90 del 1954, artt. 2, 3, 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, avendo, la Corte distrettuale, trascurato che la disciplina del personale turnista dettata dal CCNL citato contiene un trattamento economico più favorevole per l’ipotesi del lavoro prestato in giornata festiva infrasettimanale come consentito dalla normativa vigente che configura il diritto ad astenersi al lavoro in tali giornate quale diritto disponibile;

3. Il ricorso è fondato intendendo, il Collegio, dare continuità ai principi già affermati da questa Corte in tema di prestazioni lavorative svolte secondo turni nell’ambito del normale orario di lavoro da dipendenti della polizia municipale (Cass. n. 5727 del 2017, Cass. 7726 del 2014, Cass. nn. 20344, 21524, 21609, 21610, 21611, 22799, 22800, 22801, 2888 del 2012, Cass. n. 8458 del 2010), condividendone le ragioni esposte, da intendersi qui richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c.;

4. questa Corte ha già più volte affermato che, ove la prestazione cada in giornata festiva infrasettimanale (come in quella domenicale) si applica l’art. 22, comma 5, del CCNL 14.9.2000 comparto Autonomie locali – che compensa il disagio con la maggiorazione del 30% della retribuzione -, mentre il disposto dell’art. 24 – che ha ad oggetto l’attività prestata dai lavoratori dipendenti in giorni festivi infrasettimanali, oltre l’orario contrattuale di lavoro – trova applicazione soltanto quando i predetti lavoratori siano chiamati a svolgere la propria attività, in via eccezionale od occasionale, nelle giornate di riposo settimanale che competono loro in base ai turni, ovvero in giornate festive infrasettimanali al di là dell’orario di lavoro;

5. il tenore testuale dell’art. 22, comma 5, rende palese la volontà delle parti collettive di attribuire al dipendente che presti attività in giorno festivo ricadente nel turno un’indennità con funzione interamente compensativa del disagio derivante dalla particolare articolazione dell’orario di lavoro, mentre i primi tre commi dell’art. 24 prendono in considerazione situazioni accomunate dal fatto che l’attività lavorativa viene prestata in giorni non lavorativi, ossia l’ipotesi di eccedenza, in forza del lavoro prestato in giorno non lavorativo, rispetto al normale orario di lavoro; essi non individuano situazioni relative al lavoro prestato entro il limite del normale orario, quale deve ritenersi quello reso – di regola e in via ordinaria – dai lavoratori turnisti, per i quali è stata dettata la speciale disciplina di cui all’art. 22; ne costituisce riscontro la clausola contenuta nell’art. 24, comma 5, che, riferendosi al caso del dipendente che, fuori delle ipotesi di turnazione, ordinariamente, in base al suo orario di lavoro, è tenuto ad effettuare prestazioni lavorative di notte o in giorno festivo settimanale, assicura al lavoratore una maggiorazione di retribuzione compensativa del disagio;

6. pertanto, in relazione al lavoro prestato in giorni festivi, il lavoratore turnista ha diritto alla maggiorazione di cui all’art. 24, comma 1 CCNL. quando ciò avvenga in coincidenza con il giorno destinato al riposo settimanale (in tal caso, la maggiorazione spetta in aggiunta al riposo compensativo); ha diritto alla corresponsione del compenso di cui all’art. 24, comma 2 (in alternativa al riposo compensativo) quando la prestazione sia resa in giorno festivo oltre il normale orario di lavoro; ha diritto al solo compenso di cui all’art. 22, comma 5, per la prestazione resa in giorno festivo in regime di turnazione ed entro il normale orario di lavoro;

7. non spetta, pertanto, la maggiorazione di cui all’art. 24, comma 2, CCNL in caso di prestazione lavorativa resa in turno, nel normale orario di lavoro, seppur coincidente con una giornata festiva (ricadente nel turno), non potendosi fondatamente cumulare due benefici previsti per finalità e situazioni diverse;
8. in conclusione, il ricorso va accolto, la sentenza va cassata e, non essendo necessario ulteriore accertamento di merito, la causa può essere decisa con rigetto della domanda introduttiva del giudizio. Le spese del giudizio di merito sono compensate tra le parti e le spese del presente giudizio di legittimità sono regolate secondo soccombenza e liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.


La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda introduttiva del giudizio. Compensa tra le parti le spese del giudizio di primo e secondo grado. Condanna i controricorrenti al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 16 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2019

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