martedì 31 luglio 2012

Fissata la misura degli interessi di mora per ritardato pagamento delle somme iscritte a ruolo

Con nota Prot. 2012/104609 del 17 luglio 2012 ,da parte dell'Agenzia delle Entrate, è stata fissata la misura degli interessi di mora per ritardato pagamento delle somme  iscritte a ruolo ai sensi dell’articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602.

Fissazione della misura degli interessi di mora per ritardato pagamento delle somme iscritte a ruolo ai sensi dell’articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602

IL DIRETTORE DELL’AGENZIA
In base alle attribuzioni conferitegli dalle norme riportate nel seguito del presente
provvedimento
DISPONE
1. Determinazione interessi di mora per ritardato pagamento delle somme iscritte a
ruolo.
1.1 A decorrere dal 1° ottobre 2012, gli interessi di mora per ritardato pagamento delle
somme iscritte a ruolo sono determinati nella misura del 4,5504% in ragione annuale.
1.2 Il presente provvedimento è pubblicato sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 1, comma 361, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.
Motivazioni
L’articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602
prevede che, decorsi sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, sulle somme
iscritte a ruolo, escluse le sanzioni pecuniarie tributarie e gli interessi, si applicano, a partire
dalla data della notifica della cartella e fino alla data del pagamento, gli interessi di mora al
tasso determinato annualmente con decreto del Ministero delle finanze con riguardo alla
media dei tassi bancari attivi.
In attuazione della richiamata disposizione, e dopo aver interpellato la Banca d’Italia,
con provvedimento del 22 giugno 2011, è stata fissata, con effetto dal 1°ottobre 2011, al
5,0243 per cento in ragione annuale, la misura del tasso di interesse da applicare nelle
ipotesi di ritardato pagamento delle somme iscritte a ruolo.
Considerato che, come detto, l’art. 30 prevede una determinazione annuale del tasso
di interesse in questione, è stata interessata la Banca d’Italia che, con nota del 12 Aprile
2012, ha stimato al 4,5504% la media dei tassi bancari attivi con riferimento al periodo
1.1.2011-31.12.2011.
Il presente provvedimento fissa, dunque, con effetto dal 1°ottobre 2012, al 4,5504 per
cento in ragione annuale, la misura del tasso di interesse da applicare nelle ipotesi di
ritardato pagamento delle somme iscritte a ruolo, di cui all’articolo 30 del d.P.R. 29
settembre 1973, n. 602.
Riferimenti normativi
a)Attribuzioni del Direttore dell’Agenzia delle Entrate
Decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (art. 67, comma 1, art. 68, comma 1)
Statuto dell’Agenzia delle Entrate (art. 5, comma 1)
b)Disciplina degli interessi di mora
Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (art. 30)
Provvedimento Direttoriale 22 giugno 2011
c)Disposizioni relative all’individuazione della competenza ad adottare gli atti della
pubblica amministrazione
Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (artt. 4, 14 e 16)
Roma, 17 luglio 2012
Attilio Befera

Ordinanza contingibile ed urgente per contrastare gravi pericoli per comportamenti connessi all'esercizio della prostituzione sulla pubblica via

Firmata dal Sindaco di Riccione l'Ordinanza n. 107 del 30 luglio 2012 contro la prostituzione.
Stranamente è stata prevista solo la sanzione massima di €uro 516,00, per cui il pagamento in misura ridotta è pari ad un terzo del massimo, come disposto dall'art. 16, primo comma, della L. 689/1981 e non invece € 258,00. cosi' come indicato nell'Ordinanza:
"Entro 60 gg. dalla contestazione o dalla notificazione dell’accertamento è ammesso il pagamento in misura ridotta determinato nella somma di € 258,00".
 Mario Serio
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Ordinanza contingibile ed urgente per contrastare gravi pericoli per comportamenti connessi all'esercizio della prostituzione sulla pubblica via

Il Sindaco

premesso che:
· il Sindaco, quale Ufficiale del Governo, adotta, secondo quanto previsto dall’art. 54, quarto comma, del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267 “con atto motivato provvedimenti contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”;
· il successivo comma 4-bis demandava ad un apposito decreto del Ministro dell’Interno l’ambito di applicazione delle disposizioni di cui ai commi 1 e 4 anche con riferimento alle definizioni relative alla incolumità pubblica e alla sicurezza urbana;
· il citato decreto ministeriale, emanato il 5 agosto 2008, all’art. 2 prevede che il Sindaco interviene per prevenire e contrastare, tra gli altri, (lett. e) “comportamenti che, come la prostituzione su strada, possono offendere la pubblica decenza anche per le modalità con cui si manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli spazi pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono difficoltoso o pericoloso l’accesso ad essi”;
· per le previsioni di cui al citato articolo 2 il Sindaco interviene (art. 1) per garantire la sicurezza urbana, vale a dire: un bene pubblico da tutelare attraverso attività posta a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e le coesione sociale;

rilevato che,
· la materia della sicurezza urbana – come sottolineato dalla giurisprudenza amministrativa – deve ritenersi del tutto coincidente con la materia della sicurezza pubblica, intesa quale prevenzione dei fenomeni criminosi che minacciano i beni fondamentali dei cittadini;
· tali determinazioni traggono riferimento dalle puntuali affermazioni della Suprema Corte (sentenza n. 196 dell’1° luglio 2009 e sentenza n. 226 del 2010) secondo cui il decreto ministeriale (e ovviamente anche per la parte concernente la sicurezza urbana), ha comunque ad oggetto esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati;
· in tale direzione, soggiunge sempre la Corte Costituzionale, “si sono valorizzati sia la titolazione del D.L. n. 92/2008 (che si riferisce appunto alla “sicurezza pubblica”), sia il richiamo, contenuto nelle premesse del Decreto Ministeriale del 5 agosto 2008 - come fondamento giuridico dello stesso - all’art. 117, secondo comma lett. h, della Costituzione, il quale - rileva ancora la Suprema Corte – attiene appunto alla prevenzione dei reati ed alla tutela dei primari interessi pubblici sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale” (sentenza n. 237 e n. 222 del 2006, n. 383 del 2005);
· la Corte Costituzionale (sentenza n. 226 del 2010) arriva a concludere che i poteri esercitabili dai Sindaci, tanto ai sensi del comma 1 che del comma 4 dell’art. 54 del D. Lgs. n. 267 del 2000, non possono che essere quelli finalizzati alla attività di prevenzione e repressione dei reati e alla tutela di essenziali interessi pubblici;
considerato che, la sentenza della Corte Costituzionale n. 115 del 4 aprile 2011, nel dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del D. Lgs. n. 267/2000, nella parte in cui comprende la locuzione “anche” prima delle parole “contingibili ed urgenti” ha altresì precisato che “la dizione letterale della norma implica che non è consentito alle (sole) ordinanze sindacali “ordinarie” – pur rivolte al fine di fronteggiare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana - di derogare a norme legislative vigenti, come invece è possibile nel caso di provvedimenti che si fondino sul presupposto dell’urgenza e a condizione della temporaneità degli effetti” e che pertanto le violazioni ai principi costituzionali richiamati nella cennata sentenza sono riferibili esclusivamente alle cosiddette ordinanze “ordinarie”;

rilevato che nella realtà riccionese, la prostituzione su strada, per l’assoluta estensione del fenomeno in alcune aree della città, desta - in particolar modo nel periodo estivo - vivissimi preoccupazione ed allarme nella collettività, pregiudicando oggettivamente e fortemente le condizioni di vivibilità dei cittadini e dei turisti per i quali costituisce elemento di grave turbativa ed insicurezza, come spesso testimoniato dai numerosi e reiterati fatti documentati, anche dalle cronache giudiziarie;

atteso che tale forma di occupazione della strada e dei marciapiedi è effettivamente imposta in modo prepotente alla collettività ed, in particolar modo ai residenti prossimi alle predette aree, che ne devono subire tutti gli aspetti negativi e deleteri per quanto attiene alle legittime aspettative di un quieto vivere (offerte di prestazioni sessuali ai cittadini nelle vicinanze; grida e schiamazzi, aggressioni verbali o fisiche tentati o consumati ai danni delle prostitute da parte di clienti e “protettori” delle stesse; rumori provocati da frenate e ripartenze delle automobili dei clienti, con le portiere d’auto chiuse con forza ed il conseguente, perdurante rumore durante la notte; sporcizia a terra a seguito della consumazione dei rapporti sessuali o del prolungato stazionamento in loco delle persone dedite al meretricio, che spesso espletano necessità fisiologiche, gettano rifiuti vari a terra o dentro a giardini di abitazioni private);

valutati – come risulta anche dai dati forniti dalle Forze di Polizia – i gravissimi effetti negativi dell’invadente fenomeno sulla sicurezza pubblica e sul senso di abbandono suscitati nei residenti in quanto l’attività in argomento e le modalità di esercizio della medesima limitano l’utilizzo degli spazi pubblici in aree anche residenziali, densamente popolate e frequentate anche da nuclei familiari con minori di età, generando in seno alla cittadinanza disagio ed allarme e la preannunciata intenzione organizzare forme spontanee ed autogestite di controllo del territorio;

preso atto che l’attività in argomento e le modalità di esercizio hanno determinato e continuano a determinare l’incremento di una serie di fenomeni, anche di rilevanza penale, e della commissione di reati correlati alla prostituzione (quali, a titolo esemplificativo, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione previste dall'art. 3 della L. n. 75/1958; circonvenzione di persone incapaci art. 643 C.p. adescamento art. 5 L. n. 75/1958; atti osceni art. 527 C.p.; rapina art. 628 C.p.; violenza sessuale artt. 609 e 609-bis C.p.; rissa art. 588 C.p.; violenza privata art. 610 C.p.; atti contrari alla pubblica decenza art. 726 C.p.; spaccio di sostanze stupefacenti art. 73 D.P.R. n. 309/1990 e s.m.i., invasione di terreni o edifici art. 633 C.p.; danneggiamento art. 635 C.p.; disturbo della quiete pubblica art. 659 C.p.; deturpamento o imbrattamento di cose altrui art. 639 C.p., ecc.);

considerato che il fenomeno ed i gravissimi effetti di allarme e turbativa per la sicurezza pubblica si sono manifestati con una specifica, particolare recrudescenza in Via Torino, Via Milano, V.le D’Annunzio, su tutta la ex S.S. 16 - compresa tra il confine con il Comune di Rimini e il Comune di Misano Adriatico, nonché nelle aree adiacenti alle suddette strade ed in prossimità delle aree di intersezione con le vie intersecantesi con le strade sopra elencate, aree connotate da forte presenza turistica o di popolazione residente, con episodi di grave intolleranza già manifestatisi con degenerazione in fatti violenti riportati dalle cronache giudiziarie, con pericolo concreto di adozione di modalità improprie di forme di autotutela;

ravvisata, quindi la necessità e urgenza di intervenire per impedire che il fenomeno possa ulteriormente aumentare e, quindi, determinare effetti estremamente pregiudizievoli per la sicurezza delle persone ed a tutela anche dell’interesse di questa comunità al regolare svolgimento dell’attività turistica;

atteso che, conformemente al disposto del citato art. 54, comma 4, del D. Lgs. n. 267/2000, del contenuto della presente ordinanza è stata data preventiva comunicazione al Prefetto di Rimini, il quale ha in proposito espresso parere favorevole;

visti:
· l’art. 726 C.p., che individua tra le contravvenzioni, il compimento di atti contrari alla pubblica decenza in luoghi pubblici o aperti al pubblico o esposti al pubblico;
· il D. Lgs. 30.4.1992 n. 285 (Codice della Strada) e s.m.i.;
· l’art, 5 L. 2.2.1958 n. 75, che individua come illecito amministrativo il comportamento delle persone che, in luogo pubblico o aperto al pubblico, invitano in modo scandaloso o molesto o che seguono per strada le persone invitandole con atti o parole al libertinaggio;
· l’art. 54 D. Lgs. 18.8.2000 n. 267, come modificato dall’art. 6 D.L. 23.5.2008 n. 92 convertito con modificazioni dalla L. 24.7.2008 n. 125 e con sentenza della Corte Costituzionale 7 aprile 2011 n. 115;
· il Decreto del Ministro dell’interno 5.8.2008, come mod. con sentenza della Corte Costituzionale 7 aprile 2011 n. 115;
· l’art. 2, comma 1, lett. a), b) ed e) del Decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008, che fissa criteri per l’attuazione dei poteri attribuiti ai Sindaci individuati ai sensi della L. n. 1257/2008 in tema di sicurezza urbana;
· Visto l’art.50 del DLGS n.267/2000;
· Visto lo Statuto Comunale del Comune di Riccione;

ordina

a decorrere dal 30.07.12 e fino al 31.10.2012, per esigenze di sicurezza pubblica finalizzate alla prevenzione della reiterazione di episodi di grave intolleranza già manifestatisi con degenerazione in fatti violenti, nelle aree di seguito meglio specificate:
· Via Torino, Via Milano, Via D’Annunzio;
· su tutta la ex S.S. 16- compresa tra il confine con il Comune di Rimini e il Comune di Misano Adriatico;
· nelle aree adiacenti alle suddette strade;
· in prossimità delle aree di intersezione con le vie intersecantesi con le strade sopra elencate
è fatto divieto a chiunque di:
· di porre in essere comportamenti diretti in modo non equivoco ad offrire prestazioni sessuali a pagamento, consistenti nell’assunzione di atteggiamenti di richiamo, di invito, di saluto allusivo ovvero nel mantenere abbigliamento indecoroso o indecente in relazione al luogo ovvero nel mostrare nudità, ingenerando la convinzione di esercitare la prostituzione.
La violazione si concretizza con lo stazionamento e/o l’appostamento della persona e/o l’ade-scamento di clienti e l’intrattenersi con essi, e/o con qualsiasi altro atteggiamento o modalità comportamentali, compreso l’abbigliamento, che possano ingenerare la convinzione che la stessa stia esercitando la prostituzione;
· di richiedere informazioni a soggetti che pongano in essere i comportamenti descritti al precedente punto 1) e di concordare con gli stessi l’acquisizione di prestazioni sessuali a pagamento;
· alla guida di veicoli, di eseguire manovre pericolose o di intralcio alla circolazione stradale al fine di porre in essere i comportamenti descritti al punto 2).

Ferma restando l’eventuale applicazione delle sanzioni penali ed amministrative previste dalle vigenti disposizioni legislative e regolamentari, la violazione della presente ordinanza è sanzionata con la sanzione amministrativa pecuniaria di € 516,00.

Entro 60 gg. dalla contestazione o dalla notificazione dell’accertamento è ammesso il pagamento in misura ridotta determinato nella somma di € 258,00.


Nei confronti delle persone che risulteranno recidive, a partire dalla II ^ violazione accertata in poi, la sanzione verrà sempre applicata nella misura massima di € 516,00.


Per le violazioni alle disposizioni della presente ordinanza si applicano i principi e le procedure previsti dalla L. 24.11.1981 n. 689 e s.m.i..

In alternativa all’assoggettamento alla sanzione stabilita nella presente ordinanza ed anche in coerenza con il dettato dell’art. 18 D. Lgs. 25.7.1998 n. 286, le persone dedite alla prostituzione, vittime di violenza o di grave sfruttamento ovvero in stato di particolare disagio, potranno essere avviate a programmi di sostegno e reinserimento psicologico e sociale attivi sul territorio comunale per il loro recupero.

L’inottemperanza all’ordine impartito di cessare immediatamente il comportamento illecito e di allontanarsi da tutte le vie, luoghi ed aree in cui vigono i divieti indicati nella presente ordinanza sarà perseguito ai sensi dell’art. 650 C.p., essendo il provvedimento – secondo quanto precisato nelle premesse con il richiamo alle determinazioni della Corte Costituzionale – ascrivibile a materia di sicurezza pubblica di cui al citato articolo 650 C.p..

Entro il 31.10.2012 saranno valutati gli effetti e l’efficacia della presente ordinanza;

dispone

che la presente ordinanza
· sia valida dal 30.07.12 al 31.10.2012;
· che sia resa pubblica mediante affissione all’Albo Pretorio
· sia trasmessa alla Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo di Rimini per la predisposizione delle misure ritenute necessarie per il concorso delle Forze di Polizia ai sensi dell’art. 54, comma 9, D. Lgs n. 267/2000 ed, ai fini della sua esecuzione, alla Questura di Rimini, al Comando Provinciale Carabinieri di Rimini, al Comando Provinciale Guardia di Finanza di Rimini, al Comando Compagnia Carabinieri di Riccione e al Comando Stazione Carabinieri di Riccione.
· La presente ordinanza sostituisce le precedenti n.97 del 09.07.2008 e n.22 del 15.02.2012.

Ai sensi dell’art. 3 L. 7.8.1990 n. 241 e s.m.i., avverso il presente provvedimento è ammesso ricorso giurisdizionale avanti il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia-Romagna o, in alternativa, ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, rispettivamente entro 60 giorni o 120 giorni dalla pubblicazione dello stesso nell’Albo Pretorio.

Il Sindaco
Massimo Pironi

"Sportello multe: le risposte ai vostri quesiti"

Pubblicate dal "Sole 24 ore" alcune risposte a dei quesiti posti dai lettori relativi alle "multe".
A qualcuno di questi non viene data una risposta esauriente, come nel caso di circolazione nelle rotatorie, ma molti altri sono abbastanza utili e ben articolati.

Mario Serio

Qui il link

Regione Sicilia:Disposizioni relative alla circolazione gratuita sui mezzi di trasporto pubblico locale degli appartenenti alle forze dell’ordine - Legge regionale 8 giugno 2005, n. 8.

Pubblicata sulla G.U.R.S.n. 28 del 13 luglio 2012  il DECRETO:"Disposizioni relative alla circolazione gratuita sui mezzi di trasporto pubblico locale degli appartenenti alle forze dell’ordine - Legge regionale 8 giugno 2005, n. 8" da parte dell' ASSESSORATO DELLE INFRASTRUTTURE E DELLA MOBILITÀ .
Clicca qui per vedere/scaricare

CASSAZIONE CIVILE:Legittima la notifica della multa anche se è spedita da una posta fuori dalla circoscrizione di appartenenza

Alla polizia municipale nessun limite di competenza territoriale per il procedimento notificatorio

A deciderlo è stata la Cassazione con la sentenza n. 13261 del 26 luglio 2012, con cui i giudici di legittimità hanno respinto il ricorso di una donna che chiedeva la nullità della notificazione del verbale di contestazione di violazione del codice della strada, contestando il fatto che l’ufficio di polizia municipale si fosse servito di un ufficio postale al di fuori della propria circoscrizione di appartenenza.
In tema di infrazioni al codice della strada, avvisano i giudici, alla notifica del verbale di accertamento eseguita da un appartenente alla polizia municipale, ai sensi dell’articolo 201 del codice della strada, non si applicano le prescrizioni previste dagli articoli 106 e 107 del DPR 1229/1959 che prevedono limiti di competenza territoriale, riferibili ai soli uffici giudiziari e non estensibili agli altri pubblici ufficiali che, volta per volta, la legge autorizza a eseguire notificazioni, perché la loro competenza è disciplinata dall’ordinamento che li riguarda o dalle norme che li abilitano alla notifica.
Quindi, l’attività degli appartenenti al corpo di polizia municipale non è soggetta ai limiti di competenza territoriale e, circa la rilevanza degli ‘aspetti materiali’ del processo di notificazione, il ricorso non coglie nel segno, trattandosi di decisioni non pertinenti
rispetto alla questione in esame, giacchè la prima ha riguardo al potere di accertamento delle violazioni attribuito alla polizia municipale, e non all’attività di notifica a mezzo posta dei verbali di accertamento, mentre la secondo attiene a elemento essenziale del procedimento di notificazione, come quello della data di consegna nella copia dell’atto notificato ex art. 148 del codice di procedura civile, e non già ad attività meramente materiali come quelle di predisposizione della relata di notifica, della stampa, dell’imbustamento e della spedizione del plico.
Fonte: http://www.diritto.it

Cassazione:Tosap piena per il chiosco commerciale senza tende, con struttura definita a terra da tutti i lati

Riduzione del 30 per cento solo se l’occupazione del suolo pubblico è integrata da elementi aggettanti o retrattili: decisivo il rapporto dei vigili urbani
www.cassazione.net

Il commento nei prossimi giorni.

lunedì 30 luglio 2012

Cattivo funzionamento del regolatore della bombola di gas:risarcimento dei danni

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
SENTENZA 26 luglio 2012, n. 13214
Svolgimento del processo
1. A.T e L.D. convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Firenze la s.p.a. Beyfin chiedendo il risarcimento dei danni da loro patiti a causa di un incendio avvenuto nella loro abitazione e asseritamente causate dal cattivo funzionamento del regolatore della bombola di gas (prodotta dalla società convenuta) utilizzata per una stufa.
Il Tribunale di Firenze rigettava la domanda.
2. Il T. e la D. proponevano appello avverso tale sentenza e la Corte l’appello di Firenze, con pronuncia in data 24 settembre 2007, rigettava l’appello, con condanna degli appellanti alle spese.
Osservava la Corte territoriale che le testimonianze assunte non avevano apportato utili elementi a sostegno della tesi degli appellanti secondo cui l’incendio si sarebbe sviluppato dalla bombola di gas della stufa. La c.t.u. aveva evidenziato che sussistevano elementi indizianti a favore degli appellanti (il fatto che il rivenditore locale delle bombole di quel tipo aveva ricevuto lamentele, che la guarnizione in questione era soggetta ad assottigliamenti cor l’uso, tanto che il produttore l’aveva successivamente sostituita con una diversa), ma tali elementi consentivano solo di ritenere che il difetto della guarnizione della bombola era «al primo posto, secondo un ordine di probabilità decrescente, di un elenco di ben quattro possibili cause dell’ incendio». Pertanto, secondo la Corte fiorentina, gli elementi indiziari assunti non potevo condurre a conclusioni univoche sulle origini dell’ incendio.
3. Avverso la sentenza d’appello propongono ricorso il T. e la D., con atto affidato a due motivi.
Resiste con controricorso la Beyfìn s.p.a.
I ricorrenti hanno presentato memoria.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo di ricorso si lamenta difetto ed erroneità della motivazione, sostenendo che i giudici di merito non avrebbero adeguatamente valutato il materiale probatorio esistente.
Rilevano in proposito i ricorrenti che le testimonianze assunte e i rilievi compiuti nel momento del fatto dai Carabinieri hanno evidenziato che le fiamme si erano sviluppate con una dinamica in tutto compatibile con l’esistenza di un difetto di funzionamento della guarnizione della bombola di gas della stufa; oltre a ciò, la relazione del c.t.u. aveva ritenuto di individuare nel suindicato difetto la causa “più probabile” dell’ incendio, sicché risultava evidente l’erroneità della motivazione della sentenza in ordine alle modalità di verificazione dell’evento.
2. Col secondo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., degli artt. 2043 e 2050 cod. civ., nonché degli artt. 1, 5, 6 e 8 del d.P.R. n. 224 del 1988 in ordine alla responsabilità per danno da prodotti difettosi.
Osservano i ricorrenti che, nell’ipotesi di responsabilità per danno da prodotti difettosi, «la prova assume un contenuto diverso in quanto il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno, ma ciò può avvenire per presunzioni e per valutazioni di probabilità in quanto il prodotto, di per sé, non deve causare danni». Nel corso del giudizio è stata adeguatamente provata l’esistenza di un difetto della bombola, perché «è circostanza pacificamente acquisita agli atti» il fatto che la bombola avesse una guarnizione di tipo composito che avrebbe potuto comportare un’accidentale fuoriuscita di gas.
3. I motivi di ricorso sonoro fondati.
Occorre innanzitutto rilevare che la giurisprudenza di questa Corte ha in numerose circostanze affermato che l’attività di raccolta e distribuzione del gas, anche in bombole, è attività pericolosa e che tale pericolosità non viene meno nel momento in cui la bombola passa nella disponibilità dell’utente consumatore finale (v., tra le altre, le sentenze 19 gennaio 1995, n. 567, 4 giugno 1998, n. 5484, 17 luglio 2002, n. 10382, 30 agosto 2004, n. 17369). Ne consegue che le regole probatorie sono quelle contenute nell’art. 2050 cod. civ., con la precisazione – più volte compiuta da questa Corte – che la presunzione di colpa di cui alla citata norma presuppone il previo accertamento dell’esistenza del nesso eziologico, la cui prova incombe al danneggiato, tra l’esercizio dell’ attività pericolosa e l’evento dannoso, rimanendo poi a carico del danneggiante l’onere di provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (Cass., 15 luglio 2008, n. 19449, e ord. 5 marzo 2012, n. 3424).
Per quanto concerne l’onere della prova riguardante il nesso di causalità – che, come si è detto, è a carico del danneggiato – la giurisprudenza di questa Corte ha insegnato che l’autonomia del processo civile rispetto a quello penale si riflette anche in ordine alle regole sulla prova; mentre nel processo penale, infatti, vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, ossia in termini che si avvicinano alla certezza, nel processo civile vige la diversa regola della preponderanza dell’evidenza, ovvero del “più probabile che non” (v., tra le altre, Cass., S.U., 11 gennaio 2008, n. 576, nonché Cass., 11 maggio 2009, n. 10741, 5 maggio 2009, n. 10285, e 21 luglio 2011, n. 15.991). A tali autorevoli precedenti questa pronuncia intende dare continuità.
4. La sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei menzionati criteri in tema di onere della prova del nesso di causalità.
Essa, infatti, in una prima parte ha evidenziato una serie di elementi indiziari a favore degli odierni ricorrenti, tratti dall’espletata c.t.u., senza peraltro farli oggetto di una valutazione propria; poi, sempre basandosi sulla c.t.u., ha osservato che l’eventualità che il danno oggetto di causa derivi della guarnizione della bombola è al primo posto secondo un ordine decrescente di quattro probabilità, una dei quali ritenuta poco probabile.
In tal modo, la sentenza impugnata ha chiaramente violato la menzionata reqola del “più probabile che non”, rigettando la domanda sulla base di un criterio di certezza oltre ogni ragionevole dubbio che è, come si è visto, del tutto estraneo al processo civile.
Sussiste, quindi, la violazione di legge di cui al secondo motivo di ricorso il quale, pertanto, deve essere accolto.
5. La sentenza impegnata è cassata e la causa rinviata alla medesima Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, la quale deciderà attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati; al giudice di rinvio è demandata anche le decisione sulle spese dal presente giudizio di legittimità.
Per questi motivi
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

domenica 29 luglio 2012

Modifiche al codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, in materia di veicoli, di accertamento della guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti, di pagamento delle sanzioni e di effetti della revoca della patente

E’ stato avviato in Commissione Trasporti della Camera dei Deputati - in sede referente - l’esame della proposta di legge C 5361 che contiene alcune modifiche puntuali e urgenti al Codice della Strada.
Clicca qui per vedere il relativo dossier  del 23 luglio 2012

E' abusivo il dissuasore di velocità modello "speed check".Parere MIT 3937 del 04.07.2012

Il Ministero dei Trasporti non si smentisce ed ancora una volta emette un nuovo parere fotocopia (sull'argomento "parere fotocopia" vedi post precedente). 
Questa volta  lo fa in materia di: Installazione dissuasori di velocità modello "speed check" e  sullo stesso argomento aveva già espresso parere identico  il 27 giugno dello scorso anno (che riporto sotto).
Trattandosi chiaramente di un manufatto non previsto dal C.d.S., il ministero non puo' fare altro che asserire, in parole povere,  che detto manufatto:

E' ABUSIVO!!!!
in quanto non riconducibile a nessun componente della segnaletica prevista.
Ogni altro commento, a parere dello scrivente, è pura accademia.

Mario Serio



Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
Dipartimento per i trasporti, la navigazione e i sistemi informativi e statistici
Direzione Generale per la Sicurezza stradale
Divisione II
27/6/2011
Prot. 3518
0ggetto: Installazione dissuasori di velocità modello "speed check". Quesito. Rif. prot. n. 88588 del 07.06.2011.

Con riferimento a quanto esposto nel quesito in oggetto, si comunica che i manufatti in oggetto non sono inquadrabili in alcuna delle categorie previste dal Nuovo Codice della Strada (DLs n. 285/1992) e dal connesso Regolamento di Esecuzione e di Attuazione (DPR n. 495/1992), e dunque per essi non risulta concessa alcuna approvazione, ai sensi dell'art. 45 c. 6 del Codice e dell'art. 192 c. 3 del Regolamento, da parte di questa Direzione Generale.
L'art. 60 della Legge 29 luglio 2010 , n. 120, "Disposizioni in materia di sicurezza stradale", rinvia ad apposito decreto ministeriale, non ancora emanato, la definizione delle caratteristiche degli impianti da impiegare per la regolazione della velocità.
Poiché i manufatti in questione non possono essere classificati come impianti, in quanto privi di qualsivoglia dispositivo deputato alla specifica funzione, essi probabilmente
non potranno neppure essere ricondotti alla futura nuova disciplina che sarà introdotta in attuazione del suddetto art. 60 L. 120/2010.
L'eventuale impiego come componenti della segnaletica non può essere autorizzato in quanto i manufatti non sono riconducibili ad alcuna delle fattispecie previste dal vigente Regolamento.
Allo stato attuale, a parere di questo Ufficio, l'unico impiego consentito è quello che prevede l'installazione al loro interno di misuratori di velocità di tipo approvato, ovvero quando è previsto, all'interno delle strategie di controllo delle infrazioni, adottate dagli organi di polizia stradale, un ricorso frequente all'utilizzo di box di contenimento per collocarvi un rilevatore mobile, considerato che anche una collocazione fissa non implica necessariamente un'attività di rilevamento continuativa; in tali casi si applicano le disposizioni vigenti in materia di controllo della velocità.
Si resta a disposizione per ogni eventuale ulteriore chiarimento.
IL DIRETTORE GENERALE
(Dott. Ing. Sergio DONDOLINI)


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Speed-check, il freno della prefettura di Bergamo

martedì 24 luglio 2012

Insanabile la notifica per posta delle cartelle esattoriali di Equitalia Dopo il gdp di Genova ora anche la Ctp di Campobasso limita i poteri dell’esattore

Nuovo colpo (giurisprudenziale) ai poteri di Equitalia dopo la nota sentenza del Gdp di Genova. Secondo la Commissione provinciale Tributaria di Campobasso non è sanabile la notifica per posta delle cartelle esattoriali

Un altro duro colpo ai poteri apparentemente illimitati di Equitalia in termini di esazione. Dopo la nota sentenza n. 4486/12 del giudice di pace di Genova interviene anche la Commissione provinciale Tributaria di Campobasso con la sentenza n. 113 del 12 giugno scorso a sottolineare l’ambito dei poteri di notifica da parte dell’agente per la riscossione stabilendo che non è nulla ma inesistente e quindi non sanabile, la notifica della cartella esattoriale effettuata da Equitalia a mezzo posta e non mediante l’ufficiale giudiziario o messi comunali.

Tale decisione che per Giovanni D’Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti” contribuisce a corroborare l’orientamento che limita i poteri dell’esattore in materia di notifica dei propri atti, non ha fatto altro che prendere atto che la normativa vigente non prevede che la società di riscossione sia un soggetto abilitato a notificare a mezzo posta.

In particolare sottolinea espressamente e chiaramente il giudice tributario che «per i provvedimenti conseguenti a procedimento amministrativo tributario, escluso l’unico caso previsto dalla legge di notifica diretta col mezzo della posta da parte dell’Ufficio impositore, per gli atti di competenza dell’agente della riscossione la previsione di notifica a mezzo racc. A/R di cui all’art. 26 DPR 602/73 va intesa unicamente come modalità esecutiva della notificazione, sempre affidata all’organo preposto dalla legge alla notificazione (messo notificatore nominato dal concessionario ex art. 45 DLgs. 112/99, messo comunale o agente della pulizia municipale), in sintonia con il disposto dell’art. 60 DPR 600/73 che espressamente richiamo gli artt. 137 e sgg del c.p.c. che disciplinano la notificazione come atto proprio ed esclusivo dell’ufficiale giudiziario, anche quando si avvale del servizio postale».
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COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI CAMPOBASSO – SENTENZA DEL 11 GIUGNO 2012, N. 133/3/12

Svolgimento del processo

(..) ha proposto ricorso avverso la cartella esattoriale indicata in epigrafe, recante l’importo complessivo di €. 5.645,00, deducendo la nullità della cartella per inesistenza della notificazione, facendo rilevare che, trattandosi di inesistenza, la stessa non è sanabile nemmeno con la costituzione di esso stesso ricorrente e che la inesistenza della notifica a mezzo posta deriva dalla falsa applicazione dell’art. 26 DPR 602/73.

Si costituisce Equitalia che eccepisce la infondatezza della eccezione di nullità della notifica, asserendo che secondo quanto ritenuto anche da questa stessa CTP in diverse sentenze, in base all’art. 26 del DPR 602/73 (nonché degli artt. 3 e 14 L. 890/82) la notifica della cartella esattoriale può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, e in tal caso la relata di notifica è sostituita dall’avviso di ricevimento fatto sottoscrivere dal postino (o dal messo notificatore), avviso che, ai sensi dell’art. 2699 c.p.c. fa piena prova fino a querela di falso.

Motivi della decisione

Nel caso che qui interessa la eccepita nullità della cartella esattoriale per inesistenza della notifica è fondata, deve quindi essere accolta.

E’ opportuno preliminarmente precisare che nella specie la questione che deve essere affrontata e risolta è quello non solo della mancanza della relata di notifica (che comporterebbe nullità verosimilmente sanabile), bensì quello del soggetto abilitato per legge, nel caso di notifica a mezzo posta, a consegnare all’agente postale l’atto da notificare.

A tal fine è anche preliminarmente indispensabile distinguere la tipologia del provvedimento da notificare poiché per gli atti del processo tributario è pacifica la possibilità della c.d. notifica diretta, ovvero notifica a mezzo posta direttamente ad opera della parte (S.U. Cass. 14294/2007), mentre per gli atti del procedimento amministrativo tributario, vale a dire per la cartella di pagamento come per tutti gli altri atti dell’agente della riscossione, la regola è che essi devono essere notificati nelle forme prescritte, tra le quali è ricompresa la notifica a mezzo della posta.

Gli effetti della omissione o comunque dei vizi della notificazioni sono diversi poiché, se riferiti agli atti processuali, questi sono suscettibili di sanatoria se hanno raggiunto lo scopo della conoscenza dell’atto da parte del destinatario (come nella costituzione del resistente). Per quanto concerne invece la cartella di pagamento, la notificazione, oltre allo scopo di far conoscere l’atto al destinatario, si pone come requisito di perfezionamento della efficacia giuridica dell’atto avente indiscutibilmente natura recettizia, con la conseguenza che il difetto di notifica non è sanabile per il raggiungimento dello scopo (avvenuta conoscenza dell’atto), non essendo sanabile un atto che sia carente di un elemento necessario per la efficacia dell’atto stesso.

Tanto premesso è necessario esaminare il problema della notifica degli atti a mezzo posta direttamente da parte del concessionario della riscossione.

Per la notifica degli atti del procedimento tributario, e in particolare per la notifica a mezzo della posta l’art. 14, L. 890/82 espressamente dispone: “La notificazione degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente deve avvenire con l’impiego di plico sigillato e può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari, nonché, ove ciò risulti impossibile, a cura degli ufficiali giudiziari, dei messi comunali ovvero dei messi speciali autorizzati dalla Amministrazione finanziaria, secondo le modalità previste dalla presente legge. Sono fatti salvi i disposti di cui all’art. 26, 45 e seguenti del DPR 29/9/73 n. 602 n. 600, nonché le altre modalità previste dalle singole leggi di imposta”.

L’art. 26 DPR 602/73 che, secondo il disposto dell’art. 14 citato, è l’unica fonte legislativa in materia di notificazione delle cartelle di pagamento, al primo comma dispone che: “La cartella è notificata dagli ufficiali della riscossione o dagli altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge ovvero, previa convenzione tra comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale. La notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento; in tal caso, la cartella è notificata in plico chiuso e la notifica si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da una delle persone previste dal secondo comma o dal portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda”.

Ebbene sembra evidente che la disposizione contenga, nella prima parte, la indicazione dei soggetti abilitati per legge ad eseguire la notifica, mentre la seconda parte, fermo restando il soggetto abilitato, dispone in ordine alle modalità con cui la notifica deve essere eseguita, chiarendo che essa può essere eseguita anche con il mezzo della posta, ma pur sempre ad opera dei soggetti abilitati.

A riprova del chiaro intento del legislatore si evidenzia che l’art. 26 citato, prima che subisse la modifica introdotta dall’art. 12, comma 1, DLgs. n. 46 del 26/02/99 dopo le parole “La notifica può essere eseguita anche mediante invio” seguivano le parole “da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento…”.

Con la eliminazione delle parole “da parte dell’esattore” appare evidente la volontà del legislatore di limitare la notifica a mezzo della posta solo ai soggetti espressamente abilitati alla notificazione dalla disposizione medesima, con esclusione della medesima possibilità da parte dell’Agente per la riscossione.

Del resto l’ultimo comma dell’art. 26 è tassativo nell’affermare che “Per quanto non regolato dal presente articolo si applicano le disposizioni dell’art. 60 del predetto decreto”, ossia dell’art. 60 DPR 600/73, che, rinviando agli artt. 137 e sgg c.p.c. richiama anche l’art. 149 c.p.c. che prevede che la notificazione a mezzo del servizio postale è fatta dall’ufficiale giudiziario oltre che dai messi, ma mai senza l’intermediazione di costoro.

In definitiva, e in sintesi, si può concludere affermando che per i provvedimenti conseguenti a procedimento amministrativo tributario, escluso l’unico caso previsto dalla legge di notifica diretta col mezzo della posta da parte dell’Ufficio impositore, per gli atti di competenza dell’agente della riscossione la previsione di notifica a mezzo racc. A/R di cui all’art. 26 DPR 602/73 va intesa unicamente come modalità esecutiva della notificazione, sempre affidata all’organo preposto dalla legge alla notificazione (messo notificatore nominato dal concessionario ex art. 45 DLgs. 112/99, messo comunale o agente della pulizia municipale), in sintonia con il disposto dell’art. 60 DPR 600/73 che espressamente richiamo gli artt. 137 e sgg del c.p.c. che disciplinano la notificazione come atto proprio ed esclusivo dell’ufficiale giudiziario, anche quando si avvale del servizio postale.

Il ricorso pertanto deve essere accolto.

Contrastanti sentenze di merito, di questa e altre CTP, giustificano la compensazione delle spese di giustizia tra le parti.

PQM

La Commissione accoglie il ricorso. Spese compensate.

Comunicazione all'autorità locale di pubblica sicurezza della "cessione di fabbricato" a seguito della registrazione di contratti, ai sensi dell'articolo 12 del decreto-legge 21 marzo 1978, n.59, convertito dalla legge 18 maggio 1978, n.191. Intervento legislativo

Comunicazione all'autorità locale di pubblica sicurezza della "cessione di fabbricato" a seguito della registrazione di contratti, ai sensi dell'articolo 12 del decreto-legge 21 marzo 1978, n.59, convertito dalla legge 18 maggio 1978, n.191. Intervento legislativo
Circolare Ministero dell'Interno n. 557/LEG/912.138 del 20 luglio 2012

lunedì 23 luglio 2012

Liberalizzazione nel commercio:Le regioni conservano la propria autonomia legislativa.Illegittimo l'articolo 3, comma 3, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011 perché, anziché favorire la tutela della concorrenza, finisce per ostacolarla, ingenerando grave incertezza fra i legislatori regionali e fra gli operatori economici.

Sentenza 200/2012
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore CARTABIA

Udienza Pubblica del 19/06/2012 Decisione del 17/07/2012
Deposito del 20/07/2012 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 3 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.
Massime:

Atti decisi: ric. 124, 133, 134, 144, 145, 147, 158 e 160/2011

SENTENZA N. 200
ANNO 2012



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 3 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, promossi con ricorsi delle Regioni Puglia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria, Calabria e della Regione autonoma Sardegna, notificati il 12 ottobre, il 14-18, il 14-16, il 15, il 17 e il 15 novembre 2011, depositati in cancelleria il 21 ottobre, il 17, il 18, il 23 ed il 24 novembre 2011 e rispettivamente iscritti ai nn. 124, 133, 134, 144, 145, 147, 158 e 160 del registro ricorsi 2011.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 19 giugno 2012 il Giudice relatore Marta Cartabia;

uditi gli avvocati Giandomenico Falcon e Franco Mastragostino per le Regioni Emilia-Romagna e Umbria, Massimo Luciani per la Regione autonoma Sardegna, Renato Marini per la Regione Lazio, Marcello Cecchetti per la Regione Toscana, Luigi Manzi per la Regione Veneto, Graziano Pungì per la Regione Calabria, Ugo Mattei ed Alberto Lucarelli per la Regione Puglia e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto

1. — Le Regioni Puglia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria e Calabria, e la Regione autonoma Sardegna hanno impugnato l’articolo 3, oltre ad altre disposizioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), come convertito dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, con ricorsi notificati rispettivamente il 12 ottobre, il 14-18, il 14-16, il 15, il 17 e il 15 novembre 2011, depositati in cancelleria il 21 ottobre, il 17, il 18, il 23 ed il 24 novembre 2011 e iscritti ai nn. 124, 133, 134, 144, 145, 147, 158 e 160 del registro ricorsi 2011.

2. — L’articolo 3 impugnato, come risultante dalla legge di conversione, al comma 1 stabilisce il «principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», imponendo allo Stato e all’intero sistema delle autonomie di adeguarvisi entro un termine prestabilito, inizialmente fissato in un anno dall’entrata in vigore della legge di conversione. Tale termine è stato successivamente individuato nel 30 settembre 2012, in base all’art. 1, comma 4-bis, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Dopo aver enunciato il principio summenzionato, il medesimo art. 3, comma 1, impugnato elenca una serie di principi, beni e ambiti che possono giustificare eccezioni al principio stesso: limitazioni all’iniziativa e all’attività economica possono essere giustificate per garantire il rispetto dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» e dei «principi fondamentali della Costituzione»; per assicurare che l’attività economica non arrechi «danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» e non si svolga in «contrasto con l’utilità sociale»; per garantire «la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale»; e dare applicazione alle «disposizioni relative alle attività di racconta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica».

Il comma 2, del medesimo art. 3, qualifica tale intervento quale «principio fondamentale per lo sviluppo economico» e attuazione della «piena tutela della concorrenza tra le imprese».

Il comma 3 prevede che siano «in ogni caso soppresse, alla scadenza del termine di cui al comma 1, le disposizioni normative statali incompatibili con quanto disposto nel medesimo comma, con conseguente diretta applicazione degli istituti della segnalazione di inizio di attività e dell’autocertificazione con controlli successivi», e consente al Governo, nelle more della decorrenza di detto termine, di adottare strumenti di semplificazione normativa attraverso norme di natura regolamentare. A questo scopo «Entro il 31 dicembre 2012 il Governo è autorizzato ad adottare uno o più regolamenti ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con i quali vengono individuate le disposizioni abrogate per effetto di quanto disposto nel presente comma ed è definita la disciplina regolamentare della materia ai fini dell’adeguamento al principio di cui al comma 1».

Il successivo comma 4 stabilisce che «L’adeguamento di Comuni, Province e Regioni all’obbligo di cui al comma 1 costituisce elemento di valutazione della virtuosità dei predetti enti ai sensi dell’art. 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111». Tale comma 4 è stato successivamente abrogato dall’articolo 30, comma 6, della legge 12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge di stabilità 2012), a decorrere dal 1° gennaio 2012.

I successivi commi dell’art. 3 implementano la liberalizzazione dell’esercizio delle professioni ed eliminano una serie di restrizioni all’accesso alle medesime.

I commi 10 e 11, infine, rispettivamente consentono la revoca di ulteriori restrizioni all’esercizio delle attività economiche e all’accesso alle medesime, attraverso norme regolamentari e permettono, invece, di mantenere le restrizioni per singole attività, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, in presenza di ragioni di interesse generale, rispetto alle quali le restrizioni costituiscono una misura indispensabile, proporzionata, idonea e non discriminatoria sotto il profilo della concorrenza. Più specificamente l’esclusione di un’attività economica dall’abrogazione delle restrizioni è giustificata qualora: «a) la limitazione sia funzionale a ragioni di interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla tutela della salute umana; b) la restrizione rappresenti un mezzo idoneo, indispensabile e, dal punto di vista del grado di interferenza nella libertà economica, ragionevolmente proporzionato all’interesse pubblico cui è destinata; c) la restrizione non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalità o, nel caso di società, sulla sede legale dell’impresa».

3. — La Regione Puglia, con il ricorso citato in epigrafe, ha impugnato l’intero art. 3 del decreto-legge sopra citato, per violazione degli articoli 41, 42, 43, 114, secondo comma, e 117 Cost.

La ricorrente ritiene che tale articolo – stabilendo che le Regioni e gli enti locali debbano adeguare i propri ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica private sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge, e apponendo un elenco tassativo di ipotesi in cui il legislatore, statale o regionale, può espressamente limitare l’esercizio dell’attività economica – contrasti con l’art. 41 della Costituzione. In base alla disposizione impugnata gli enti territoriali dovrebbero, dunque, adeguarsi ad una disciplina che sovvertirebbe il quadro costituzionale dell’iniziativa e dell’attività economica, introducendo «un assetto decisamente sbilanciato a favore dell’iniziativa privata».

Inoltre, l’obbligo diffuso di adeguamento all’art. 3 censurato, equiparando Regioni ed enti locali, rappresenterebbe una forzatura del disegno costituzionale, in quanto, a differenza degli enti locali, le Regioni detengono una potestà legislativa autonoma garantita ex art. 117 Cost., che dunque non potrebbe soffrire l’inserimento, per via di legge statale ordinaria, di un nuovo principio che ne limiti la “sovranità legislativa”.

4. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato atto di costituzione e memoria difensiva relativamente alle doglianze della Regione Puglia, il 21 novembre 2011.

Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che l’art. 3 del decreto-legge impugnato sia una norma finalizzata a ridurre gli oneri amministrativi e procedimentali a limitazione della libertà d’impresa e per favorire la ripresa economica. Per tale ragione, la disposizione sarebbe coerente con l’art. 41 Cost. e con il suo orientamento a favore della libera iniziativa economica, delimitata dal rispetto dei principi fondamentali. Essa sarebbe stata adottata dal legislatore con l’obiettivo di sviluppare la competitività delle imprese sul piano internazionale, in base alla competenza legislativa statale in materia di concorrenza.

5. — La Regione Puglia ha depositato, il 23 maggio 2012, memoria a sostegno delle proprie doglianze, tuttavia senza aggiungere ulteriori argomenti con riferimento all’art. 3 impugnato.

6. — La Regione Toscana, con ricorso citato in epigrafe, ha impugnato l’art. 3, comma 4, per violazione degli articoli 117, commi terzo e quarto, e 119 Cost. La ricorrente sostiene che la legislazione statale, stabilendo il principio secondo cui, in ambito economico, è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato e prevedendo che l’adeguamento a tale principio sia considerato elemento di valutazione della virtuosità delle Regioni ai fini del patto di stabilità, costituirebbe un intervento normativo «del tutto estraneo alle finalità di coordinamento della finanza pubblica», esorbitando dunque dai limiti che il legislatore statale incontra in tale materia. La virtuosità, criterio sorto nell’ambito del contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica, diverrebbe quindi uno strumento capace di coartare la «volontà delle Regioni» nella disciplina dell’attività economica, travalicando così le sue originarie finalità: tramite le disposizioni impugnate verrebbe, infatti, vincolata la potestà legislativa regionale per fini estranei all’obiettivo del contenimento della spesa.

7. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria avverso l’impugnazione della Regione Toscana il giorno 27 dicembre 2011, sostenendo che la doglianza sia stata superata a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 30, comma 6, della legge n. 183 del 2011, che ha abrogato il comma 4 dell’art. 3 del decreto-legge n. 138 del 2011, oggetto di censura. Pertanto, Il Presidente del Consiglio dei ministri ha richiesto che sia dichiarata la cessazione della materia del contendere.

8. — La Regione Toscana ha, con memoria depositata il 29 maggio 2012, evidenziato che la previsione abrogata sarebbe stata «integralmente riproposta» dall’art. 1, comma 4, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e ugualmente impugnato dalla Regione Toscana.

9. — La Regione Lazio, con ricorso citato in epigrafe, ha impugnato l’art. 3, comma 1, in combinato disposto con il comma 4 dello stesso articolo 3 del decreto-legge più volte richiamato.

La disposizione contenuta nel comma 1, secondo la ricorrente, interverrebbe in un ambito prevalentemente attinente alla disciplina del commercio e delle attività produttive, materie che la Corte avrebbe costantemente ritenuto riconducibili alla competenza residuale regionale, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. La legislazione impugnata, in violazione del riparto di competenze stabilito dall’art. 117 Cost. introdurrebbe una disciplina che impone alla Regione di regolare tali settori secondo i principi dettati dal legislatore statale, per di più prevedendo un meccanismo sanzionatorio in caso di mancato adeguamento, che penalizzerebbe la Regione in relazione al patto di stabilità interno.

A detta della ricorrente Regione Lazio, non sarebbe conferente la qualificazione dell’intervento normativo quale strumento di “tutela della concorrenza”, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e). Infatti, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, un intervento normativo regionale, che limitasse l’iniziativa economica privata per ragioni non coincidenti con quelle indicate dalla norma impugnata, efficaci erga omnes e fondate su presupposti ragionevoli, non confliggerebbe con la libera concorrenza, purché non privilegi alcun operatore economico, né alteri la competizione tra essi. La disposizione impugnata, dunque, introdurrebbe costrizioni al legislatore regionale non giustificate sulla base delle esigenze della tutela della concorrenza.

Infine, anche qualora si ritenesse di qualificare il comma 1 – e, per relationem, il comma 4 – quale misura a tutela della concorrenza, la disciplina statale, a detta della Regione Lazio, risulterebbe in ogni caso costituzionalmente illegittima e lesiva delle competenze regionali, in quanto non rispettosa del principio di leale collaborazione. Infatti, nelle disposizioni impugnate, i profili della tutela della concorrenza s’intreccerebbero inevitabilmente con altri aspetti riconducibili alle materie delle “attività produttive” e del “commercio”, di competenza regionale. Pertanto, si verificherebbe un’ipotesi di intreccio di competenze statali e regionali, che esige il ricorso a forme di leale collaborazione, coinvolgendo le Regioni nella produzione della legislazione statale – forme che tuttavia la legislazione statale censurata non prevede.

10. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato, il 27 dicembre 2012, atto di costituzione e memoria.

Con riferimento alla censura relativa all’art. 3, comma 1, la difesa erariale sostiene che la disposizione si ponga all’interno della competenza esclusiva statale in tema di tutela della concorrenza, poiché le limitazioni diverse da quelle consentite dal comma impugnato comprimerebbero il carattere concorrenziale dei mercati.

Viceversa, gli interventi legislativi regionali in materia di commercio e attività produttive sarebbero in ogni caso possibili a seguito dell’introduzione della legislazione impugnata, con l’ovvio limite del principio di proporzionalità ex art. 3 Cost.

11. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria, con i ricorsi indicati in epigrafe, hanno impugnato per identiche ragioni, anche nelle enunciazioni, l’art. 3, commi 2, 3, 4, 10 e 11.

11.1. — Entrambe le Regioni muovono dal presupposto che il comma 1 dell’articolo 3 stabilisce un «ovvio principio di libertà», imponendo eccezioni dai caratteri ampi e determinati, evocativi di un principio di ragionevolezza, per cui si potrebbe «affermare senza paura di sbagliare che tutti i divieti oggi esistenti potrebbero giustificarsi in base ad una o più delle categorie enunciate». Tuttavia, proprio per questa ragione, quell’enunciazione di principio non sarebbe né in grado di fungere da norma parametro per l’abrogazione di regimi amministrativi eventualmente incompatibili, né di indicare quali percorsi normativi si possano attivare per il suo recepimento.

11.2. — In particolare, l’art. 3, comma 2, qualificando il comma 1 quale principio fondamentale per lo sviluppo economico e la tutela della concorrenza, violerebbe la competenza legislativa regionale, considerato che lo sviluppo economico rientrerebbe tra le materie residuali regionali. Del resto, a detta delle ricorrenti, il medesimo comma 1 sembrerebbe escludere l’invasione delle competenze regionali, poiché, dal momento che impone loro di adeguarsi al principio enunciato, ne riconosce le competenze in tale ambito.

11.3. — Il nucleo centrale dell’impugnazione, per espressa affermazione delle ricorrenti, si individuerebbe nell’art. 3, comma 3, il quale stabilisce che, alla scadenza del termine di un anno, le disposizioni di normative statali incompatibili sono «soppresse», con conseguente diretta applicazione degli istituti di segnalazione d’inizio di attività e autocertificazione, con le eccezioni a protezione dei principi fondamentali stabiliti all’art. 3, comma 1. Tale previsione risulterebbe generica e inapplicabile e pertanto irragionevole, in base all’art. 3 Cost., oltre che contraria al buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., e infine in conflitto con il principio di certezza del diritto, a causa dell’incertezza sulla disciplina vigente che ne deriverebbe.

Il secondo e terzo periodo del medesimo art. 3, comma 3, prevedono che, nelle more della decorrenza del termine annuale, l’adeguamento al principio di liberalizzazione possa avvenire anche attraverso la semplificazione normativa e che il Governo, entro il 31 gennaio 2012, possa adottare uno o più regolamenti con i quali individuare le disposizioni abrogate e definire la disciplina regolamentare applicabile. Secondo le ricorrenti, questi strumenti rappresenterebbero la chiave di volta del sistema, dal momento che l’abrogazione implicita imposta dal primo periodo dell’art. 3, comma 3, sarebbe di impossibile applicazione per la vaghezza dei principi invocati. Tuttavia, la previsione di strumenti di delegificazione e semplificazione sarebbe costituzionalmente illegittima, secondo le due ricorrenti, innanzitutto per violazione del principio di legalità sostanziale. Infatti, i regolamenti di delegificazione interverrebbero in mancanza di una “cornice legislativa” all’interno della quale dovrebbero esplicarsi. Pertanto, la disciplina regolamentare finirebbe per essere «meramente potestativa da parte del potere esecutivo». In secondo luogo, l’assenza di qualunque delimitazione di materia estenderebbe il potere regolamentare del Governo anche alle materie di competenza legislativa regionale, sia concorrente che residuale, e pertanto sarebbe in violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost. Infine, qualora, a detta delle ricorrenti, l’intervento statale fosse inquadrabile in termini di sussidiarietà, e dovesse ammettersi l’attribuzione della potestà regolamentare in capo allo Stato, la disciplina permarrebbe illegittima per mancata previsione di un’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni per i profili di competenza regionale.

11.4. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria censurano inoltre l’art. 3, comma 4, ritenendolo illegittimo per due ordini di ragioni. In primo luogo, esso esprimerebbe un dovere di adeguamento indefinito e generico da parte delle Regioni nei confronti della disposizione di principio statale, mancando di individuare i parametri di giudizio attraverso i quali accertare l’adeguamento. Ciò configurerebbe complessivamente un tratto d’incertezza e di irrazionalità della disciplina, sottoponendo la potestà legislativa regionale a limiti diversi da quelli costituzionalmente previsti.

Inoltre, anche qualora i criteri ai quali adeguarsi fossero definiti, non sussisterebbe un nesso razionale tra il principio di liberalizzazione e gli effetti sulla finanza regionale che il comma censurato ricollega al suo inadempimento, sicché sarebbe incongruo penalizzare finanziariamente le Regioni per «presunti mancati adeguamenti ai principi statali».

11.5. — L’art. 3, comma 10, viene impugnato dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria poiché la previsione che un regolamento dell’esecutivo possa eliminare eventuali restrizioni all’esercizio delle attività economiche violerebbe ugualmente il principio di legalità sostanziale, per assenza di qualunque criterio idoneo a circoscrivere l’esercizio del potere regolamentare. La medesima disposizione confliggerebbe inoltre con l’art. 117, sesto comma, Cost., ove si ritenesse che il regolamento ivi previsto può estendersi ad oggetti ed ambiti di competenza regionale. Infine, essa sarebbe illegittima per violazione del principio di leale collaborazione, poiché non prevede la conclusione di un’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, laddove i regolamenti governativi dovessero interferire con materie di competenza regionale.

11.6. — L’art. 3, comma 11, dispone che singole attività economiche possano essere escluse dall’abrogazione delle restrizioni con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, attraverso una procedura che deve coinvolgere il ministro competente per materia, il Ministro dell’economia e delle finanze e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, entro quattro mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge, purché a) si sia in presenza di ragioni di interesse pubblico, in particolare di quelle legate alla salute umana, b) tale limitazione alla libertà economica sia indispensabile, idonea e proporzionata, c) e tale restrizione non generi una discriminazione diretta o indiretta.

Tale disposizione, secondo l’impugnativa delle Regioni Emilia-Romagna e Umbria, sarebbe illegittima, in quanto consentirebbe soltanto allo Stato e non alle Regioni di far valere ragioni di interesse pubblico per consentire limitazioni alle attività economiche. Inoltre, anche qualora ragioni di uniformità e sussidiarietà consentissero l’attrazione di tali competenze in capo allo Stato, gli interessi regionali dovrebbero trovare spazio attraverso il modello dell’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, che la disposizione non prevede. Per tale ragione, verrebbe pertanto violato anche il canone della leale collaborazione.

12. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato il 27 dicembre 2011 due distinti atti d’intervento e memoria d’identico contenuto, nei confronti delle doglianze delle Regioni Emilia-Romagna e Umbria, chiarendo, con riferimento all’art. 3, comma 1, che si tratta di una «disposizione programmatica», come tale inidonea a recare lesione alle competenze legislative regionali e che il medesimo art. 3, commi 3, 10 e 11, si riferisce alle sole disposizioni statali; quindi tali commi, così interpretati, sono insuscettibili di impingere nelle competenze regionali. In ogni caso, il legislatore statale avrebbe agito in base all’art. 41 Cost., che gli attribuirebbe, in tesi, il potere di attuare gli interventi opportuni per il coordinamento dell’attività economica; il suo intervento si situerebbe, inoltre, nel quadro della sua competenza esclusiva statale a tutela della concorrenza. Conseguentemente, la normativa non sarebbe neppure viziata d’irragionevolezza.

13. — La Regione Emilia-Romagna e la Regione Umbria, con memorie distinte, ma di identico contenuto, depositate entrambe il 29 maggio 2012, hanno evidenziato, da un lato, che l’abrogazione dell’art. 3, comma 4, effettuata dall’art. 30, comma 6, della legge n. 183 del 2011, ha determinato la cessazione della materia del contendere, in quanto l’effetto abrogativo si sarebbe realizzato prima dello scadere del termine previsto per l’adeguamento regionale; dall’altro, che i commi 3, 10 e 11, invece, non recano contenuti meramente programmatici, ma potrebbero incidere su competenze legislative regionali. Inoltre, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa erariale ad esclusione della illegittimità della normativa censurata, l’art. 41 Cost. non attribuirebbe una competenza esclusiva allo Stato nel campo della regolazione delle attività economiche, sicché gli interventi normativi di attuazione di tale principio costituzionale si distribuirebbero invece tra Stato e Regioni, sulla base dell’ordine delle competenze determinate dall’art. 117 Cost.

14. — La Regione Veneto, con il ricorso citato in epigrafe, ha impugnato l’art. 3, comma 4, del decreto-legge n. 138 del 2011, con riferimento agli articoli 5, 117 e 120 Cost., e al principio di leale collaborazione.

14.1. — La ricorrente muove anzitutto dalla ricostruzione della materia “sviluppo economico”, che dovrebbe rientrare tra le competenze esclusive regionali o, comunque, strutturarsi quale “materia trasversale” e pertanto investire tutti gli ambiti, anche di competenza regionale. La Corte, con sentenza n. 165 del 2007, avrebbe già precisato i limiti delle attribuzioni statali in tema di sviluppo economico, anche con riferimento alle pressanti esigenze di natura finanziaria, riconoscendo che tali attribuzioni interferiscono con quelle regionali.

Tuttavia, la Corte medesima, con sentenza n. 64 del 2007, avrebbe già riconosciuto la competenza del legislatore regionale a fissare limiti alla libera concorrenza e all’accesso al mercato, purché non irragionevoli e giustificati al fine di ridurre gli effetti negativi che si possano produrre nel tessuto economico preesistente.

14.2. — L’obbligo di adeguamento, imposto in modo indifferenziato e corredato di sanzione ai sensi dell’art. 3, comma 4, interferirebbe, dunque, con ambiti di attribuzione regionale, vulnerando il riparto di competenze ex art. 117 Cost. Inoltre, anche a voler ammettere la necessità di rispondere a preminenti esigenze di solidarietà nazionale, tali da giustificare l’esercizio unitario di una funzione statale in materia di liberalizzazione delle attività economiche in deroga al normale riparto sancito dall’art. 117 Cost., risulterebbe comunque necessario rispettare il principio di leale collaborazione.

La sanzione prevista dall’art. 3, comma 4, infine, risulterebbe sproporzionata in relazione alla condotta eventualmente difforme dal precetto. Il sistema individuato dal legislatore nel decreto-legge n. 138 del 2011, all’art. 3, richiamerebbe per alcuni aspetti quanto previsto dalla legge 10 febbraio 1953, n. 62 (Costituzione e funzionamento degli organi regionali), all’art. 10, primo comma, il quale stabiliva che i principi della legislazione statale innovativi abrogassero le norme regionali con essi contrastanti, ma, a differenza dalle disposizioni oggi in discussione, mantenevano intatta la facoltà delle Regioni di continuare ad esercitare le proprie competenze legislative, adeguandosi alle nuove normative statali di principio. Del resto, un’ulteriore alternativa ad uno strumento tanto pervasivo quale un principio generale corredato di una sanzione di natura finanziaria si ritroverebbe nell’art. 117, quinto comma, Cost., già attuato dall’art. 84 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno), che disciplina la cedevolezza delle normative incompatibili, prevedendo che le disposizioni del medesimo decreto si applichino anche in materie legislative regionali sino all’entrata in vigore delle disposizioni regionali attuative della normativa.

Per tali ragioni, il comma 4 dell’articolo impugnato prevedrebbe, conclusivamente, uno strumento sanzionatorio eccessivo e lesivo delle prerogative di autonomia garantite all’art. 5 Cost.

15. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato atto di costituzione il 27 dicembre 2012, sostenendo che la doglianza relativa all’art. 3, comma 4, risulta inammissibile per sopravvenuta carenza d’interesse, a seguito dell’abrogazione intervenuta con la legge n. 183 del 2011 (art. 30, comma 6).

16. — La Regione Calabria, con il ricorso citato in epigrafe, ha impugnato l’art. 3, commi 1, 2 e 4, del decreto-legge n. 138 del 2011, più volte menzionato, in riferimento alle competenze regionali in tema di tutela della salute.

L’attuazione di tali disposizioni del decreto-legge in discussione, secondo la ricorrente, determinerebbe una significativa innovazione nel sistema sanitario. Infatti, in base a giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, le prestazioni mediche rientrerebbero nell’ambito di applicazione delle disposizioni relative alla libera prestazione dei servizi e pertanto sarebbero interessate dall’intervento normativo. La ricorrente evidenzia l’impatto della normativa sul sistema sanitario calabrese, alla luce del fatto che, con legge regionale 18 luglio del 2008, n. 24 (Norme in materia di autorizzazione, accreditamento, accordi contrattuali e controlli delle strutture sanitarie e socio-sanitarie pubbliche e private), la Regione Calabria ha disciplinato il sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie, prevedendo l’autorizzazione sanitaria, quale provvedimento con cui si consente l’esercizio dell’attività sanitaria o socio-sanitaria, da parte di strutture pubbliche, private o di professionisti (art. 3, comma 1), mentre ha consentito alle strutture pubbliche e private ed ai professionisti già autorizzati di erogare prestazioni sanitarie o socio-sanitarie per conto del sistema sanitario nazionale tramite accreditamento (art. 11, comma 1), stabilendo altresì che quest’ultimo possa essere concesso in relazione alle necessità della Regione, evidenziate nel Piano Sanitario Regionale (art. 11, comma 4). Questa sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie seguiva del resto gli articoli 8-ter e 8-quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).

La Regione Calabria, oggetto di commissariamento per deficit sanitario (delibera del Consiglio dei ministri del 30 luglio 2010), ha adottato un apposito piano di rientro (delibera della Giunta regionale n. 845/09), approvato con accordo Stato-Regione stipulato il 17 dicembre 2009 e a sua volta oggetto di delibera regionale n. 908 del 2009. Tale piano di rientro prevede, tramite un cronoprogramma, di riorganizzare la rete di ospedali e strutture pubbliche e private, mediante analisi della domanda e dell’offerta. Il sistema sanitario regionale, così sommamente delineato, troverebbe un supporto nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, e in particolare nella sentenza 10 marzo 2009, in causa C-169/07, Hartlauer, che ha ritenuto non incompatibili con il diritto comunitario le restrizioni allo svolgimento di attività, giustificate da ragioni di sanità pubblica, purché non discriminino gli operatori in base alla nazionalità e, qualora la limitazione sia volta alla realizzazione di un livello elevato di tutela della salute, contemperando tale obiettivo con la necessità di prevenire il rischio di una grave alterazione dell’equilibrio finanziario.

Le norme impugnate, secondo la ricorrente, violerebbero pertanto gli articoli 41, terzo comma, e 97 Cost., invadendo inoltre la competenza concorrente regionale in materia di tutela della salute, prevista dall’art. 117 Cost., dal momento che la normativa sembrerebbe imporre di accogliere «senza alcun filtro tutte le istanze di autorizzazione ed accreditamento», in contrasto con il sistema introdotto dalla Regione.

Inoltre, l’art. 3, commi 1 e 2, violerebbe gli artt. 41, terzo comma, e 97 Cost., anche con riferimento ad altri tipi di attività (ad esempio, vendita al pubblico dei farmaci da banco o di automedicazione, aperture di strutture di grande e media distribuzione), pregiudicando l’ordinato funzionamento dell’ordinamento regionale. Esso, inoltre, invaderebbe la competenza concorrente ex art. 117 Cost. in materia di governo del territorio, di tutela della salute, di commercio, vietando sostanzialmente – ad esempio – «di subordinare il rilascio delle autorizzazioni alla determinazione di requisiti quali la superficie minima che deve avere l’apposito reparto destinato allo svolgimento della riferita attività», o alla «idonea pianificazione territoriale degli insediamenti delle attività commerciali», o di condizionare «l’apertura di grandi strutture di vendita in base alla dimensione demografica del territorio comunale di insediamento».

L’art. 3, commi 1, 2 e 4, porrebbe la Regione Calabria nell’alternativa di ottemperare a tali norme liberalizzanti, in violazione del piano di rientro, oppure di mantenere il proprio ordinamento, rischiando di non essere valutata come ente virtuoso, ex art. 3, comma 4. Tali commi sarebbero pertanto complessivamente viziati da illegittimità costituzionale, per violazione del principio di ragionevolezza, ex art. 3 Cost., e del principio di leale collaborazione.

È anche dedotta – pur senza specifica motivazione – la violazione degli artt. 70 e 77 Cost. in riferimento all’intero art. 3 del menzionato decreto-legge.

17. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato atto di costituzione il 27 dicembre 2012, sviluppando argomentazioni identiche a quelle svolte nei confronti delle Regioni Emilia-Romagna e Umbria, di cui al punto 12, alle quali pertanto si rinvia.

18. — La Regione Calabria ha depositato ulteriore memoria il 23 maggio 2012, ribadendo le conclusioni avanzate nel ricorso.

19. — La Regione autonoma Sardegna, con il ricorso citato in epigrafe, ha impugnato l’art. 3, comma 4, del decreto-legge n. 138 del 2011, con riferimento agli articoli 3, 4 e 7 dello statuto di autonomia (Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3) e agli articoli 3, 117 e 119 della Costituzione.

19.1. — L’art. 3, comma 4, del decreto impugnato trasformerebbe, secondo la ricorrente, in vincoli di finanza pubblica degli adempimenti di carattere sostanziale privi di rilevanza finanziaria. Ci si troverebbe dunque di fronte ad «un caso paradigmatico di eccesso di potere legislativo e, comunque, di violazione del principio di ragionevolezza», in contrasto con l’art. 3 Cost., in combinato disposto con gli articoli 117 e 119 Cost., che, del resto, non contemplerebbero una tale competenza statale.

19.2. — Più precisamente, l’art. 3, comma 4, attribuendo allo Stato il potere di valutare il livello di attuazione regionale a fini di determinazioni di carattere finanziario, gli consentirebbe di condizionare le scelte del legislatore regionale al di fuori del riparto di competenze stabilito dall’art. 117, secondo e terzo comma, Cost. In particolare, con tale disposizione lo Stato vincolerebbe nei fatti le Regioni nelle materie di competenza legislativa concorrente pur senza dettarne i principi fondamentali ex art. 117, comma terzo, Cost.

19.3. — L’articolo 3, comma 4, viene inoltre impugnato dalla Regione autonoma Sardegna per contrasto con gli artt. 3, 4 e 7 dello statuto di autonomia, in quanto la disposizione limita indebitamente l’autonomia regionale sia nelle materie di competenza esclusiva che in quelle di competenza concorrente, sia, infine, in materia di bilancio. Infatti, la regolamentazione dell’iniziativa economica privata interessa, oltre ad ambiti materiali indicati all’art. 117, terzo comma, Cost., anche quelli elencati agli articoli 3 e 4 dello statuto, ed in particolare all’art. 3, primo comma, lettere d) (agricoltura e foreste) f) (edilizia e urbanistica), g) (trasporti su linee automobilistiche e tramviarie), o) (artigianato), p) (turismo, industria alberghiera) e all’art. 4, primo comma, lettere a) (industria, commercio ed esercizio industriale delle miniere, cave e saline), b) (istituzione ed ordinamento degli enti di credito fondiario ed agrario, delle casse di risparmio), e) (produzione e distribuzione dell’energia elettrica), f) (linee marittime ed aeree di cabotaggio fra i porti e gli scali della Regione), m) (pubblici spettacoli), che allocano diverse competenze alla Regione. L’art. 7 dello statuto, infine, sarebbe violato in quanto assegna alla Regione un’ampia autonomia finanziaria.

20. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato atto di costituzione il 23 dicembre 2011, sostenendo che le doglianze relative all’art. 3, comma 4, siano state superate dall’abrogazione della norma impugnata dalla Regione autonoma Sardegna, effettuata con l’art. 30, comma 6, della legge n. 183 del 2011

21. — Con ulteriore memoria depositata il 29 maggio 2012, la Regione autonoma Sardegna riconosce che l’abrogazione dell’art. 3, comma 4, determina l’inutilizzabilità del criterio dell’adeguamento regionale al principio della liberalizzazione delle attività economiche al fine di valutare la virtuosità dell’ente, rimettendosi alle conseguenze processuali che riterrà la Corte.

22. — Con memoria depositata il 29 maggio 2012, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ulteriormente replicato in riferimento alle diverse doglianze presentate dalle Regioni ricorrenti avverso l’art. 3 del decreto-legge n. 138 del 2011.

22.1. — A detta della parte resistente, le Regioni concentrano l’impugnazione sostanzialmente sul principio di liberalizzazione, che, eccedendo dal limite della competenza statale esclusiva in tema di tutela della concorrenza, interferirebbe con le competenze regionali a disciplinare il commercio e le attività produttive.

Tuttavia, secondo il resistente, la tesi non sarebbe correttamente impostata. Si tratterebbe invece di individuare i presupposti costituzionali sostanziali della legislazione regionale in materia economica, stabiliti dall’art. 41 Cost., il quale enuncerebbe la libertà d’iniziativa economica innanzitutto come libertà “negativa”, «opponibile a qualsiasi intervento autoritativo».

L’art. 3 impugnato, secondo la parte resistente, si limiterebbe a ribadire il principio di libertà d’iniziativa economica di cui all’art. 41, primo comma, Cost., precisando le situazioni nelle quali a questa libertà si possano apporre limiti. Questa interpretazione dell’articolo 3 si evincerebbe dalla lettura dei casi d’eccezione alla libertà di esercizio delle attività economiche – lettere da a) ad e) del comma 1 dell’art. 3 del decreto-legge n. 138 del 2011 – che ricalcano in gran parte le limitazioni già previste dall’art. 41, secondo e terzo comma, Cost. ampliandole e precisandole. Pertanto, il legislatore regionale non subirebbe alcuna limitazione delle sue prerogative in forza dell’art. 3 del decreto-legge impugnato.

22.2. — Così inquadrato, dell’intervento del legislatore statale andrebbe valutato lo scopo normativo di “tutela della concorrenza”, esplicitamente statuito dall’art. 3, comma 2, del decreto-legge impugnato. Secondo la sentenza di questa Corte n. 430 del 2007, che ha puntualizzato i criteri per identificare un legittimo intervento normativo statale in tale ambito, l’art. 3 avrebbe i caratteri richiesti, poiché, come previsto dalla sentenza citata, perseguirebbe fini promozionali della concorrenza, attraverso l’eliminazione di vincoli all’esercizio dell’attività economica.

L’art. 3, comma 3, del decreto-legge impugnato, prevedendo l’abrogazione implicita delle disposizioni di normative statali che contengono restrizioni alla libera iniziativa economica non giustificate dai principi elencati all’art. 3, comma 1, costituirebbe pertanto una declinazione del principio pro-concorrenziale di liberalizzazione. La disposizione impugnata si risolverebbe nel pretendere che le limitazioni all’attività economica si conformino ai principi della tutela della concorrenza, secondo l’impostazione data dall’Unione europea, e rispettino i canoni di proporzionalità ed effettiva necessità. Pertanto, l’eventuale incidenza della legislazione statale sugli ambiti di competenza regionale risulterebbe, conclusivamente, legittima.


Considerato in diritto

1. — Le Regioni Puglia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria e Calabria, e la Regione autonoma Sardegna, con i ricorsi indicati in epigrafe, hanno impugnato numerose disposizioni del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), come convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.

2. — Riservate a separate decisioni le questioni sulle altre disposizioni del decreto-legge n. 138 del 2011, la Corte delimita l’oggetto del presente giudizio alle censure relative all’articolo 3 del decreto-legge citato, come risultante dalla legge di conversione, che detta principi in tema di regolazione delle attività economiche.

I giudizi, così separati e delimitati, in considerazione della loro connessione oggettiva, devono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

3. — L’art. 3 impugnato, nel testo modificato dalla legge di conversione, al comma 1 stabilisce il «principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», imponendo allo Stato e all’intero sistema delle autonomie di adeguarvisi entro un termine prestabilito, inizialmente fissato in un anno dall’entrata in vigore della legge di conversione. Tale termine è stato successivamente procrastinato fino al 30 settembre 2012, in base all’art. 1, comma 4-bis, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Dopo aver enunciato il principio summenzionato, il medesimo art. 3, comma 1, elenca una serie di principi, beni e ambiti che possono giustificare eccezioni al principio stesso: ai sensi di tali proposizioni, limiti all’iniziativa e all’attività economica possono essere giustificati per garantire il rispetto dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» e dei «principi fondamentali della Costituzione»; per assicurare che l’attività economica non arrechi «danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» e non si svolga in «contrasto con l’utilità sociale»; per garantire «la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale»; e dare applicazione alle «disposizioni relative alle attività di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica».

Il successivo comma 2 del medesimo art. 3 qualifica le precedenti disposizioni come «principio fondamentale per lo sviluppo economico» e attuazione della «piena tutela della concorrenza tra le imprese».

L’art. 3, comma 3, prevede che siano «in ogni caso soppresse, alla scadenza del termine di cui al comma 1, le disposizioni normative statali incompatibili con quanto disposto nel medesimo comma, con conseguente diretta applicazione degli istituti della segnalazione di inizio di attività e dell’autocertificazione con controlli successivi», e consente al Governo, nelle more della decorrenza di detto termine, di adottare strumenti di semplificazione normativa attraverso provvedimenti di natura regolamentare. A questo scopo «Entro il 31 dicembre 2012 il Governo è autorizzato ad adottare uno o più regolamenti ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con i quali vengono individuate le disposizioni abrogate per effetto di quanto disposto nel presente comma ed è definita la disciplina regolamentare della materia ai fini dell’adeguamento al principio di cui al comma 1».

Il comma 4 dell’articolo impugnato stabilisce che «L’adeguamento di Comuni, Province e Regioni all’obbligo di cui al comma 1 costituisce elemento di valutazione della virtuosità dei predetti enti ai sensi dell’art. 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111». Tale comma 4 è stato poi successivamente abrogato dall’articolo 30, comma 6, della legge 12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge di stabilità 2012), a decorrere dal 1° gennaio 2012.

I successivi commi dell’art. 3 implementano la liberalizzazione dell’esercizio delle professioni ed eliminano una serie di restrizioni all’accesso alle medesime.

I commi 10 e 11, infine, rispettivamente consentono la revoca di ulteriori restrizioni all’esercizio delle attività economiche e all’accesso alle medesime attraverso norme regolamentari e permettono, invece, di mantenere le restrizioni per singole attività, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, in presenza di ragioni di interesse generale, rispetto alle quali le restrizioni costituiscono una misura indispensabile, proporzionata, idonea e non discriminatoria sotto il profilo della concorrenza. Più specificamente, l’esclusione di un’attività economica dall’abrogazione delle restrizioni è giustificata qualora: «a) la limitazione sia funzionale a ragioni di interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla tutela della salute umana; b) la restrizione rappresenti un mezzo idoneo, indispensabile e, dal punto di vista del grado di interferenza nella libertà economica, ragionevolmente proporzionato all’interesse pubblico cui è destinata; c) la restrizione non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalità o, nel caso di società, sulla sede legale dell’impresa».

4. — Occorre preliminarmente esaminare le numerose questioni relative all’art. 3, comma 4, del decreto-legge n. 138 del 2011, in quanto l’Avvocatura dello Stato chiede che sia dichiarata cessata la materia del contendere, alla luce della sopravvenuta abrogazione della norma impugnata, in seguito all’entrata in vigore dell’art. 30, comma 6, della legge n. 183 del 2011.

4.1. — In effetti, tutte le Regioni ricorrenti – con l’eccezione della Regione Puglia che, come si dirà tra breve, ha rivolto le proprie doglianze all’intero art. 3, complessivamente inteso e senza ulteriori precisazioni – hanno evidenziato specifici profili di illegittimità costituzionale del comma 4, in quanto esso ricollega conseguenze di ordine finanziario al tempestivo adeguamento, da parte delle Regioni e degli enti locali, al principio della liberalizzazione delle attività economiche, opportunamente bilanciato con le altre esigenze enunciate al precedente comma 1: l’ottemperanza di tali principi, ai sensi della disposizione qui in esame, «costituisce elemento di valutazione della virtuosità dei predetti enti», ai fini del riparto delle risorse finanziarie determinate annualmente con il Patto di stabilità interno, ai sensi dell’art. 20, comma 3, del decreto- legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111). In altri termini, la disposizione impugnata, piuttosto che sanzionare le Regioni e gli enti locali inadempienti, prevede forme di incentivazione finanziaria per gli enti virtuosi, che modifichino la propria legislazione, in osservanza ai principi stabiliti dal legislatore statale e nei termini previsti.

La disposizione contenuta nell’art. 3, comma 4, è stata censurata in relazione agli artt. 3, 5, 117, 119 e 120 Cost., al principio di leale collaborazione e, da parte della Regione autonoma Sardegna, agli artt. 3, primo comma, lettere d), f), g), o) e p), 4, primo comma, lettere a), b), e), f) ed m), e 7 dello statuto di autonomia (Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3).

4.2. — In ordine all’art. 3, comma 4, del decreto-legge impugnato deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere.

In effetti, come è stato sottolineato dall’Avvocatura dello Stato e da alcune Regioni ricorrenti, la norma in esame è stata abrogata dall’articolo 30, comma 6, della legge n. 183 del 2011, a decorrere dal 1° gennaio 2012. L’abrogazione è, dunque, intervenuta prima che scadesse il termine di adeguamento al principio imposto alle Regioni, individuato nel 30 settembre 2012, e prima che la disposizione medesima potesse esplicare effetti, previsti a partire dall’anno 2012. Ne consegue che la norma non ha potuto ricevere alcuna applicazione durante il periodo in cui è rimasta in vigore.

5. — Venendo alle singole questioni residue portate all’esame della Corte, va considerata una prima ragione di doglianza, mossa dalla Regione Calabria, che riguarda l’intero articolo 3.

5.1. — Sono evocati a parametro gli articoli 70 e 77 Cost., in quanto il contenuto normativo della disposizione impugnata non presenterebbe i caratteri di straordinaria necessità e urgenza prescritti dalla Costituzione affinché il Governo possa legittimamente adottare decreti-legge. Pertanto, secondo la ricorrente, la legge di conversione sarebbe viziata, sia per violazione dei requisiti costituzionalmente previsti per la decretazione d’urgenza, sia perché il Governo avrebbe indebitamente usurpato il potere legislativo al Parlamento, attraverso il ricorso allo strumento del decreto-legge.

5.2. — Tale censura è inammissibile, per difetto di motivazione.

Infatti, a parte una mera evocazione degli articoli 70 e 77 Cost., né l’atto introduttivo del giudizio, né la successiva memoria offrono alcun argomento a suffragio della censura, che documenti l’asserita mancanza di presupposti per la decretazione d’urgenza. Inoltre, deve richiamarsi il consolidato orientamento di questa Corte, in base al quale le Regioni possono invocare, nel giudizio di costituzionalità in via principale, parametri diversi da quelli contenuti nel Titolo V della Parte II della Costituzione a condizione che la lamentata violazione ridondi sul riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni (sentenze n. 33 del 2011, n. 156, n. 52 e n. 40 del 2010, n. 341 del 2009). Nel caso di specie la ricorrente non spiega in che modo l’asserita violazione degli artt. 70 e 77 Cost. determini una compressione delle competenze costituzionali delle Regioni.

6. — Una seconda ragione di doglianza, avanzata dalla Regione Puglia ed avente parimenti ad oggetto l’art. 3 nella sua interezza, evoca, quali parametri del giudizio, gli articoli 41, 42, 43, 114, secondo comma, e 117 Cost.

6.1. — Ad avviso della ricorrente, la disposizione impugnata, stabilendo che le Regioni e gli enti locali debbano adeguare i propri ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica private sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge, e ponendo un elenco tassativo di ipotesi in cui il legislatore, statale o regionale, può espressamente limitare l’esercizio dell’attività economica, contrasta con l’art. 41 della Costituzione e con gli altri principi costituzionali in materia economica. In base alla disposizione impugnata, gli enti territoriali dovrebbero, dunque, adeguarsi ad una disciplina che sovvertirebbe il quadro costituzionale dell’iniziativa e dell’attività economica, introducendo «un assetto decisamente sbilanciato a favore dell’iniziativa privata». Inoltre, l’obbligo diffuso di adeguamento all’art. 3 censurato, equiparando Regioni ed enti locali, rappresenterebbe una forzatura del quadro costituzionale, in quanto, a differenza degli enti locali, le Regioni detengono una potestà legislativa autonoma garantita ex art. 117 Cost., che dunque non potrebbe soffrire l’inserimento, per via di legge statale ordinaria, di un nuovo principio che ne limiti la «sovranità legislativa».

6.2. — Anche tali censure risultano inammissibili, in quanto generiche e indeterminate.

Infatti, in primo luogo, la censura si appunta sull’intero art. 3, senza puntualizzare ulteriormente quali disposizioni di esso intenda investire, sebbene l’art. 3 abbia un contenuto complesso. Inoltre, il richiamo ai parametri di cui agli artt. 41, 42 e 43 Cost. risulta generico e indeterminato. Si asserisce, senza argomentare, la sussistenza di un conflitto tra tali previsioni costituzionali e il principio di liberalizzazione delle attività economiche statuito nella disposizione impugnata, principio che tra l’altro non è affermato in termini assoluti, ma deve essere modulato al fine di soddisfare una serie di esigenze, alcune delle quali riproducono anche testualmente i contenuti dell’art. 41 Cost., e ne annoverano di ulteriori; né viene spiegato per quali ragioni le previsioni costituzionali e quella legislativa, mirata alla liberalizzazione, non sarebbero armonizzabili.

Per la medesima ragione attinente alla genericità e alla insufficiente motivazione del ricorso, risultano inammissibili anche le censure basate sugli artt. 114, terzo comma, e 117 Cost., parametri che sono evocati genericamente, senza neppure specificare quali aspetti delle disposizioni costituzionali richiamate, che hanno un contenuto particolarmente complesso e articolato, dovrebbero rilevare nel presente giudizio.

7. — Proseguendo l’esame delle questioni portate all’esame della Corte in relazione ai singoli commi dell’art. 3 del decreto-legge n. 138 del 2011, vengono anzitutto in rilievo le censure rivolte all’art. 3, comma 1, e al principio ivi statuito per cui nell’ambito delle attività economiche «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», principio che, come si è già ricordato più volte, subisce limitazioni a tutela di altre esigenze indicate dalla medesima disposizione oggetto di esame.

7.1. — La Regione Lazio e la Regione Calabria contestano la legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto-legge impugnato, per violazione del riparto di competenze stabilito all’art. 117 Cost., perché esso interferirebbe con ambiti di pertinenza della legislazione regionale.

In particolare, la Regione Lazio sottolinea l’incidenza della normativa impugnata nelle materie del commercio e attività produttive, che sarebbero riservate alle Regioni a titolo di competenza legislativa residuale. Inoltre, secondo la Regione, anche a voler concedere che l’intervento del legislatore statale possa essere giustificato in ragione delle competenze ad esso riconosciute nell’ambito della tutela della concorrenza, non si potrebbe comunque superare il vizio della legge sotto il profilo del mancato rispetto del principio di leale collaborazione, considerato il fitto intersecarsi di competenze statali e regionali sul terreno delle attività economiche.

Per quanto riguarda la Regione Calabria, le censure si appuntano piuttosto sulla violazione delle competenze regionali in materia di tutela della salute, commercio, governo del territorio, oltre che sul mancato rispetto del principio di leale collaborazione, richiamando, quali parametri del giudizio, gli artt. 41, 97 e 117 Cost. La ricorrente teme che, per conformarsi al principio di liberalizzazione introdotto dal legislatore statale, l’organizzazione del sistema sanitario regionale debba essere radicalmente modificata, dal momento che, nell’interpretazione della ricorrente, il suddetto principio imporrebbe di accogliere «senza alcun filtro tutte le istanze di autorizzazione e accreditamento» presentate dagli operatori sanitari. Inoltre, sotto l’impatto della liberalizzazione voluta dal legislatore statale, la Regione non potrebbe continuare a regolare la vendita al pubblico di farmaci da banco o automedicazione, o l’apertura di strutture di media o grande distribuzione, valutando l’insediamento di tali attività in base alla distribuzione demografica o imponendo dei requisiti per il loro svolgimento.

7.2. — L’asserita invasione delle competenze regionali da parte del legislatore statale si evidenzierebbe più chiaramente alla luce del comma 2 del medesimo art. 3, che qualifica il precedente comma 1 come «principio fondamentale per lo sviluppo economico», rivolto all’attuazione della «piena tutela della concorrenza».

Le Regioni Calabria, Emilia-Romagna e Umbria, infatti, rilevano che il legislatore statale, evocando le esigenze della «piena tutela della concorrenza», intenderebbe giustificare l’imposizione da parte dello Stato del principio della liberalizzazione anche in ambiti di competenza regionale; d’altra parte, la qualifica del medesimo principio come attinente allo «sviluppo economico» appaleserebbe l’invasione delle competenze regionali, in quanto la materia “sviluppo economico” apparterrebbe ai titoli di competenza residuale regionale.

7.3. — Le questioni relative all’art. 3, commi 1 e 2, non sono fondate.

Con la normativa censurata, il legislatore ha inteso stabilire alcuni principi in materia economica orientati allo sviluppo della concorrenza, mantenendosi all’interno della cornice delineata dai principi costituzionali. Così, dopo l’affermazione di principio secondo cui in ambito economico «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», segue l’indicazione che il legislatore statale o regionale può e deve mantenere forme di regolazione dell’attività economica volte a garantire, tra l’altro – oltre che il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari e la piena osservanza dei principi costituzionali legati alla tutela della salute, dell’ambiente, del patrimonio culturale e della finanza pubblica – in particolare la tutela della sicurezza, della libertà, della dignità umana, a presidio dell’utilità sociale di ogni attività economica, come l’art. 41 Cost. richiede. La disposizione impugnata afferma il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli ulteriori interessi che il legislatore statale ha elencato all’art. 3, comma 1. Complessivamente considerata, essa non rivela elementi di incoerenza con il quadro costituzionale, in quanto il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009 e n. 388 del 1992).

7.4. — Rispetto alla pretesa invasione delle competenze regionali in materia di commercio, attività produttive e tutela della salute, ex art. 117 Cost., occorre anzitutto osservare che il legislatore statale ha agito nell’ambito, ad esso spettante, della tutela della concorrenza, come correttamente specificato dall’art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 138 del 2011.

Infatti, per quanto l’autoqualificazione offerta dal legislatore non sia mai di per sé risolutiva (ex multis, sentenze n. 164 del 2012, n. 182 del 2011 e n. 247 del 2010), in questo caso appare corretto inquadrare il principio della liberalizzazione delle attività economiche nell’ambito della competenza statale in tema di «tutela della concorrenza». Quest’ultimo concetto, la concorrenza, ha un contenuto complesso in quanto ricomprende non solo l’insieme delle misure antitrust, ma anche azioni di liberalizzazione, che mirano ad assicurare e a promuovere la concorrenza “nel mercato” e “per il mercato”, secondo gli sviluppi ormai consolidati nell’ordinamento europeo e internazionale e più volte ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte (ex multis, sentenze n. 45 e n. 270 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007). Pertanto, la liberalizzazione, intesa come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale.

7.5. — Inquadrato, dunque, l’intervento statale censurato nel campo delle competenze statali di portata trasversale relative alla tutela della concorrenza, occorre ancora osservare il particolare tenore normativo della disposizione impugnata: in questo caso il legislatore statale non si è sovrapposto ai legislatori regionali dettando una propria compiuta disciplina delle attività economiche, destinata a sostituirsi alle leggi regionali in vigore. L’atto impugnato, infatti, non stabilisce regole, ma piuttosto introduce disposizioni di principio, le quali, per ottenere piena applicazione, richiedono ulteriori sviluppi normativi, da parte sia del legislatore statale, sia di quello regionale, ciascuno nel proprio ambito di competenza. In virtù della tecnica normativa utilizzata, basata su principi e non su regole, il legislatore nazionale non ha occupato gli spazi riservati a quello regionale, ma ha agito presupponendo invece che le singole Regioni continuino ad esercitare le loro competenze, conformandosi tuttavia ai principi stabiliti a livello statale. L’intervento del legislatore, statale e regionale, di attuazione del principio della liberalizzazione è tanto più necessario alla luce della considerazione che tale principio non è stato affermato in termini assoluti, né avrebbe potuto esserlo in virtù dei vincoli costituzionali, ma richiede di essere modulato per perseguire gli altri principi indicati dallo stesso legislatore, in attuazione delle previsioni costituzionali. Di conseguenza, per rispondere ad alcune precise osservazioni delle ricorrenti, le discipline della vendita al pubblico di farmaci da banco o automedicazione, dell’apertura di strutture di media e grande distribuzione, o dell’organizzazione sanitaria, non vengono assorbite nella competenza legislativa dello Stato relativa alla concorrenza, ma richiedono di essere regolate dal legislatore regionale, tenendo conto dei principi indicati nel censurato art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011.

8. — Sono invece fondate le questioni aventi ad oggetto l’art. 3, comma 3, del decreto-legge n. 138 del 2011.

8.1. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria hanno censurato l’art. 3, comma 3, il quale, al primo periodo, dispone che siano «soppresse», alla scadenza del termine di un anno dall’entrata in vigore della legge di conversione – termine poi prorogato al 30 settembre 2012 –, le «normative statali incompatibili» con i principi disposti al comma 1 del medesimo art. 3, con conseguente applicazione diretta degli istituti di segnalazione di inizio attività e dell’autocertificazione. Al secondo periodo, il comma 3 dispone che, fino alla scadenza del termine, l’adeguamento al principio di cui al comma 1 possa avvenire anche attraverso strumenti di semplificazione normativa; infine, al terzo periodo, il comma 3 autorizza, a tal fine, il Governo ad adottare uno o più regolamenti ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge n. 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), individuando le disposizioni abrogate e definendo la disciplina regolamentare ai fini dell’adeguamento al principio di cui al comma 1.

Le ragioni di doglianza, con riferimento all’art. 3, comma 3, primo periodo, evocano a parametro gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto l’automatica soppressione delle normative statali incompatibili con la disposizione di principio di cui al comma 1 genererebbe una situazione di grave incertezza normativa e sarebbe, perciò, irragionevole e contraria al buon andamento della pubblica amministrazione. Con riferimento al terzo periodo, si lamenta anzitutto la violazione del principio di legalità sostanziale, dal momento che i regolamenti di delegificazione verrebbero introdotti in assenza di una necessaria cornice legislativa; inoltre, la medesima disposizione sarebbe in contrasto anche con l’art. 117, sesto comma, Cost., in quanto l’esercizio del potere regolamentare sarebbe autorizzato senza delimitazioni di materia, potendo esplicarsi anche nell’ambito di competenze concorrenti e residuali regionali, rispetto alle quali la potestà regolamentare è attribuita alla Regione; infine, anche qualora si ritenesse che si sia in presenza di una ipotesi di attrazione in sussidiarietà della potestà regolamentare regionale, con riferimento alle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., la legislazione statale sarebbe egualmente costituzionalmente illegittima, in quanto non avrebbe previsto alcuna forma d’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, che attui il principio di leale collaborazione con riferimento alle materie concorrenti e residuali regionali.

8.2. — L’art. 3, comma 3, è costituzionalmente illegittimo, in quanto dispone, allo scadere di un termine prestabilito, l’automatica «soppressione», secondo la terminologia usata dal legislatore, di tutte le normative statali incompatibili con il principio della liberalizzazione delle attività economiche, stabilito al comma 1.

Alla luce delle precedenti considerazioni relative al tenore normativo dell’art. 3, comma 1, che contiene disposizioni di principio, e non prescrizioni di carattere specifico e puntuale, la soppressione generalizzata delle normative statali con esso incompatibili appare indeterminata e potenzialmente invasiva delle competenze legislative regionali. Infatti, sebbene la disposizione abbia ad oggetto le sole normative statali, la «soppressione» di queste per incompatibilità con principi così ampi e generali come quelli enunciati all’art. 3, comma 1, e che richiedono una delicata opera di bilanciamento e ponderazione reciproca, a parte ogni considerazione sulla sua praticabilità in concreto, non appare suscettibile di esplicare effetti confinati ai soli ambiti di competenza statale. Altro è prevedere l’abrogazione di normative statali, altro è asserire che gli effetti dell’abrogazione di tali normative restino circoscritti ad ambiti di competenza statale. Vi sono normative statali che interessano direttamente o indirettamente materie di competenza regionale, come accade nel caso delle leggi dello Stato relative a materie di competenza concorrente, o di competenza statale di carattere trasversale, che di necessità s’intrecciano con le competenze legislative regionali. L’effetto della soppressione automatica e generalizzata delle normative statali contrarie ai principi di cui all’art. 3, comma 1, oltre ad avere una portata incerta e indefinibile, potrebbe riguardare un novero imprecisato di atti normativi statali, con possibili ricadute sul legislatore regionale, nel caso che tali atti riguardino ambiti di competenza concorrente o trasversali, naturalmente correlati a competenze regionali.

Inoltre, l’automaticità dell’abrogazione, unita all’indeterminatezza della sua portata, rende impraticabile l’interpretazione conforme a Costituzione, di talché risulta impossibile circoscrivere sul piano interpretativo gli effetti della disposizione impugnata ai soli ambiti di competenza statale.

Infine, poiché la previsione censurata dispone la soppressione per incompatibilità, senza individuare puntualmente quali normative risultino abrogate, essa pone le Regioni in una condizione di obiettiva incertezza, nella misura in cui queste debbano adeguare le loro normative ai mutamenti dell’ordinamento statale. Infatti, le singole Regioni, stando alla norma censurata, dovrebbero ricostruire se le singole disposizioni statali, che presentano profili per esse rilevanti, risultino ancora in vigore a seguito degli effetti dell’art. 3, comma 3, primo periodo. La valutazione sulla perdurante vigenza di normative statali incidenti su ambiti di competenza regionale spetterebbe a ciascun legislatore regionale, e potrebbe dare esiti disomogenei, se non addirittura divergenti. Una tale prospettiva determinerebbe ambiguità, incoerenza e opacità su quale sia la regolazione vigente per le varie attività economiche, che potrebbe inoltre variare da Regione a Regione, con ricadute dannose anche per gli operatori economici.

Di conseguenza, l’art. 3, comma 3, appare viziato sotto il profilo della ragionevolezza, determinando una violazione che si ripercuote sull’autonomia legislativa regionale garantita dall’art. 117 Cost., perché, anziché favorire la tutela della concorrenza, finisce per ostacolarla, ingenerando grave incertezza fra i legislatori regionali e fra gli operatori economici.

8.3. — Per le medesime ragioni, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale del primo periodo dell’art. 3, comma 3, coinvolge anche i periodi successivi della disposizione in esame, dato che l’ambito di intervento degli strumenti di semplificazione, previsti dal secondo periodo, nonché quello dei regolamenti di delegificazione di cui al terzo periodo, è determinato per relationem al primo periodo. La stessa indeterminatezza che vizia la prima proposizione si riverbera anche sui successivi contenuti dell’art. 3, comma 3, che deve, dunque, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.

9. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria hanno poi impugnato l’art. 3, comma 10. Questo si colloca a seguito di una serie di disposizioni abrogative di restrizioni all’esercizio di attività economiche. Il comma 10 consente l’eliminazione di ulteriori restrizioni, attraverso «regolamento da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, emanato su proposta del Ministro competente entro quattro mesi dall’entrata in vigore» del decreto oggetto di censura.

9.1. — A detta delle ricorrenti, tale comma sarebbe viziato sotto vari profili: anzitutto non risponderebbe al principio di legalità sostanziale, in quanto l’esercizio della potestà regolamentare da parte del Governo, sarebbe autorizzato senza specificazioni e in assenza di criteri capaci di circoscriverlo; inoltre, contrasterebbe con l’art. 117 sesto comma, Cost., nella misura in cui la potestà regolamentare cui il comma fa riferimento venga esercitata in ambiti di competenza regionale; infine, ed in subordine, nelle ipotesi in cui vengano in rilievo materie di competenza regionale e si ritenga che queste siano state attratte in sussidiarietà alla competenza statale, sarebbe del tutto assente la previsione di strumenti applicativi del principio di leale collaborazione.

9.2. — Le questioni aventi ad oggetto l’art. 3, comma 10, non sono fondate.

A prescindere da ogni considerazione circa la conformità della disposizione impugnata al modello di delegificazione delineato all’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, per quanto riguarda la violazione delle competenze regionali occorre osservare che, a differenza dell’art. 3, comma 3, precedentemente esaminato, il comma 10 ha un ambito di applicazione circoscrivibile alle sole materie di competenza statale e pertanto legittimamente consente al Governo di esercitare la potestà regolamentare per eliminare ulteriori – rispetto a quelle stabilite dai commi precedenti – restrizioni al libero esercizio delle attività economiche. Questa lettura della disposizione censurata è l’unica compatibile sia con il testo costituzionale, che vieta l’esercizio della potestà regolamentare da parte del Governo al di fuori delle competenze esclusive statali, sia con il contesto normativo in cui la disposizione in esame si colloca.

10. — Anche l’art. 3, comma 11, è impugnato dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria. Tale comma prevede che eccezioni all’abrogazione delle restrizioni all’esercizio delle attività economiche possano essere concesse «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore» della legge di conversione del decreto-legge impugnato, e in ipotesi indicate espressamente.

10.1. — Le ricorrenti lamentano che tale disposizione, da un lato, violerebbe l’art. 117 Cost., in quanto consentirebbe soltanto allo Stato, e non anche alle Regioni, di mantenere delle limitazioni alle libertà economiche, per ragioni di pubblico interesse. In subordine, anche qualora si ritenesse necessario, per ragioni di uniformità e sussidiarietà, consentire l’attrazione di tale potere regolatorio in capo allo Stato, mancherebbe la previsione di un’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, con conseguente violazione del principio di leale collaborazione.

10.2. — Anche le censure relative all’art. 3, comma 11, non sono fondate.

La disposizione qui censurata, al pari del precedente art. 3, comma 10, deve essere intesa come dotata di un ambito di applicazione delimitato alle sole materie di competenza statale. Consentendo di mantenere alcune eccezioni alla liberalizzazione e pertanto giustificando alcune restrizioni all’iniziativa economica, da individuarsi con decreto del Presidente della Repubblica, l’art. 3, comma 11, si rivolge alle sole normative statali e, tra queste, soltanto a quelle che non interferiscono con le competenze regionali. La disposizione censurata, non riguardando materie di competenza legislativa regionale, è pertanto inidonea a vulnerare gli interessi regionali.


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce la decisione sulle altre disposizioni impugnate su ricorso delle Regioni Puglia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria e Calabria e della Regione autonoma della Sardegna, con ricorsi indicati in epigrafe,

riuniti i giudizi,

1) dichiara la cessazione della materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 4, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, proposte, complessivamente, dalle Regioni Calabria, Emilia-Romagna, Lazio, Sardegna, Toscana, Umbria e Veneto, in riferimento agli articoli 3, 5, 117, 119 e 120 della Costituzione, nonché in riferimento al principio di leale collaborazione e – dalla Regione autonoma Sardegna – in riferimento agli articoli 3, primo comma, lettere d), f), g), o) e p), 4, primo comma, lettere a), b), e), f) ed m), e 7 dello statuto di autonomia (Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3);

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 3, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3 del medesimo decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta dalla Regione Calabria in riferimento agli articoli 70 e 77 Cost.;

4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3 del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta dalla Regione Puglia in riferimento agli articoli 41, 42, 43, 114, secondo comma, 117 Cost.;

5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta dalla Regione Lazio in riferimento all’articolo 117 della Costituzione e al principio di leale collaborazione;

6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, commi 1 e 2, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta dalla Regione Calabria in riferimento agli articoli 41, 97 e 117 Cost. e al principio di leale collaborazione;

7) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 2, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta dalle Regioni Emilia-Romagna ed Umbria in riferimento all’articolo 117 Cost.;

8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 10, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria in riferimento al principio di legalità sostanziale, all’art. 117 Cost. e al principio di leale collaborazione;

9) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 11, del decreto-legge n. 138 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria in riferimento all’art. 117 Cost. e al principio di leale collaborazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 luglio 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Marta CARTABIA, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 luglio 2012.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI