Attività di tintolavanderia. Vendita di prodotti connessi

Parere 27 aprile 2016 (Prot. 116663) - A

Il parere risponde a quesito del SUAP di Cremona in ordine alla questione «se l’autorizzazione a svolgere l’attività di tintolavanderia dia la facoltà di vendere prodotti connessi all’attività, in analogia a quanto previsto dalla legge sulle estetiste».

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Determinazione dei diritti da corrispondere per l'ammissione agli esami per il conseguimento delle patenti nautiche

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
DECRETO 16 febbraio 2016
Determinazione dei diritti da corrispondere per l'ammissione agli esami per il conseguimento delle patenti nautiche. (16A03250) (GU Serie Generale n.99 del 29-4-2016)

Produttori agricoli: Comunicazione o SCIA?


QUESITO:
Il produttore agricolo è obbligato ad inviare una S.C.I.A. o basta una semplice comunicazione secondo quanto previsto dalla 228/2001? Come ci si deve comportare  nel caso il produttore agricolo presenti al comune una comunicazione cartacea?

RISPOSTA:
La vendita dei prodotti agricoli, sia che avvenga su aree pubbliche in forma itinerante che su posteggio (sulla scorta dei criteri stabiliti da ogni comune), ai sensi dell'art. 4 della 228/01, deve avvenire con SCIA se il comune si è adoperato a mettere in funzione il SUAP, per come dice la legge (ma non mi pare che i comuni abbiano avuto altre alternative se non quella di uniformarsi alla legge).
 QUASI TUTTI I SUAP D'ITALIA  SI SONO UNIFORMATI DA TEMPO.

 Del resto nè è passato di tempo dalla 228/01. Oggi anche questa tipo di vendita ha subito il processo di semplificazione e di liberalizzazione (241/90, CAD, DPR 160/10, DECRETO-LEGGE 9 febbraio 2012, n. 5 e quan'altro), perciò, l'attività di vendita viene iniziata da subito, al pari di tutte le altre attività, dalla data d'invio della SCIA (che deve essere completa in ogni sua parte - per es. per la vendita in forma itinerante  occorre anche la SCIA SANITARIA del veicolo utilizzato), e se  l’invio di una pratica avviene in forma cartacea, la medesima è da considerarsi irricevibile (v. Risoluzione  n. 228515 del 10 novembre 2015)

Mario Serio
Riproduzione Riservata

Vedi apposita sezione:  Produttori agricoli
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SEQUESTRO PREVENTIVO – IN GENERE – SEQUESTRO PREVENTIVO D’URGENZA D’INIZIATIVA DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA – OBBLIGO DELL’AVVISO EX ART. 114 DISP. ATT. COD. PROC. PEN. – APPLICABILITÀ – ESCLUSIONE.

Sentenza n. 15453 ud. 29/01/2016 - deposito del 13/04/2016   Misure cautelari

Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno stabilito che, in caso di sequestro preventivo disposto di iniziativa della polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 321 bis cod. proc. pen., non sussiste obbligo di dare avviso all’indagato presente al compimento dell’atto della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen.

Presidente: G. Canzio

Relatore: S. Amoresano

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SEZIONI UNITE: Sentenza n. 13682 ud. 25/02/2016 - deposito del 06/04/2016 - CIRCOLAZIONE STRADALE (NUOVO CODICE) - NORME DI COMPORTAMENTO - CIRCOLAZIONE RIFIUTO DI SOTTOPORSI ALL’ACCERTAMENTO ALCOOLIMETRICO - NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO – APPLICABILITÀ.


Con sentenza depositata il 6 aprile 2016, le Sezioni Unite Penali della Corte di cassazione hanno affermato che la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., è compatibile con il reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento alcoolimetrico, previsto dall’art. 186, comma 7, cod. strada.

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La mancata indicazione, sul retro del segnale verticale di prescrizione, degli estremi della ordinanza non determina la illegittimità del segnale

 Confermato il principio già ribadito dalla Cassazione precedentemente

"L'eventuale mancata apposizione sul retro della segnaletica stradale della indicazione della relativo provvedimento amministrativo  regolante la circolazione stradale non determina di per sé  l'illegittimità del segnale.
Infatti "in tema di segnaletica stradale, la mancata indicazione,  sul retro del segnale verticale di prescrizione, degli estremi della  ordinanza di apposizione - come invece imposto dall'art. 77,  comma 7, del Regolamento di esecuzione del codice della strada (d.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495 e successive modificazioni) -  non determina la illegittimità del segnale e, quindi, non esime  l'utente della strada dall'obbligo di rispettarne la prescrizione, con  l'ulteriore conseguenza che detta omissione non comporta  l'illegittimità del verbale di contestazione dell'infrazione alla  condotta da osservare ( Cass. civ., Sez. Seconda, sent. 20 maggio 2010,n. 12431)."
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 5 febbraio – 19 aprile 2016, n. 7709
Presidente Petitti – Relatore Oricchio



Considerato in diritto

Con ricorso depositato in data 24.11.2009, A.A. proponeva opposizione innanzi al Giudice di Pace di Cagliari avverso l’ordinanza-ingiunzione emessa dal Prefetto di Cagliari in data 3.11.2009, con cui era stata rigettata la procedura amministrativa avviata davanti al Prefetto in ordine alla contestazione del verbale di accertamento di infrazione al codice della strada per avere lasciato la propria autovettura in area in cui sussisteva divieto di sosta (infrazione n. 107112009, irrogata dalla Polizia municipale di Selargius). In specie, il ricorrente deduceva i seguenti vizi di nullità dell’ordinanza-ingiunzione opposta: per carenza di potere, per violazione dei termini di cui all’art. 204, primo comma CdS, per assenza del provvedimento amministrativo di divieto, per difetto dell’elemento psicologico. La Prefettura di Cagliari presentava memoria, con la quale eccepiva l’inammissibilità dell’opposizione, poiché era stato presentato ricorso al Prefetto. E in ogni caso osservava che la proposizione del ricorso al Prefetto impediva di muovere censure avverso il verbale di contestazione. Nel merito, deduceva il rispetto dei termini
per l’emissione dell’ordinanza-ingiunzione e la sufficienza della firma del rappresentante delegato del Prefetto, quale responsabile dell’area – sistema sanzionatorio amministrativo.
Il Giudice di Pace adito, con sentenza n. 1301 del 21.09.2010 respingeva l’opposizione.
Avverso la sentenza del Giudice di Pace era interposto gravame davanti al Tribunale di Cagliari, con cui venivano reiterati i motivi di opposizione già sollevati davanti al giudice di prime cure, cui resisteva la Prefettura di Cagliari. Quindi, il Tribunale adito in appello, con sentenza depositata il 25.05.2012, rigettava l’impugnazione e confermava la sentenza impugnata.
Avverso la indicata sentenza del Tribunale di Cagliari ha proposto ricorso per cassazione A.A., articolato su due motivi. Non ha proposto controricorso la Prefettura di Cagliari.
Il ricorrente, in prossimità della pubblica udienza, ha depositato memoria illustrativa.

Ritenuto in fatto

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 5 e ss. codice della strada, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per avere il Tribunale adito erroneamente ritenuto che fosse precluso al g.o. l’esame dei provvedimento amministrativo che istituisce il divieto di sosta. Tanto, in particolare, conriferimento al punto della decisione gravata con cui (citando Cass. n. 12431/2010) si considerano parallelamente il motivo di ricorso col quale si sia “voluto contestare la validità del segnale” e quello con cui, invece, “si ponga in dubbio la stessa esistenza del provvedimento amministrativo”. Evidenziando che, in effetti, nella fattispecie si contestava la sola validità dell’ apposto segnale (per mancata indicazione sul retro del cartello del richiamo all’ordinanza amministrativa), senza fare questione della sua pacifica materiale esistenza, va rilevato quanto segue.
Il motivo è infondato.
L’eventuale mancata apposizione sul retro della segnaletica stradale della indicazione della relativo provvedimento amministrativo regolante la circolazione stradale non determina di per sé l’illegittimità del segnale.
Infatti “in tema di segnaletica stradale, la mancata indicazione,
sul retro del segnale verticale di prescrizione, degli estremi della ordinanza di apposizione – come invece imposto dall’art. 77, comma 7, del Regolamento di esecuzione del codice della strada (d.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495 e successive modificazioni) – non determina la illegittimità del segnale e, quindi, non esime l’utente della strada dall’obbligo di rispettarne la prescrizione, conl’ulteriore conseguenza che detta omissione non comporta l’illegittimità del verbale di contestazione dell’infrazione alla condotta da osservare (Cass. civ., Sez. Seconda, sent. 20 maggio 2010, n. 12431).
In ogni caso, inoltre, la detta mancata indicazione degli estremi non ha investito il profilo della legittimità dell’atto amministrativo del divieto, pur sempre sindacabile dal G.O.
“al fine della sua eventuale disapplicazione ” ( Cass. civ., Sez. Seconda, Sent. 30 ottobre 2007, n. 22894).
Il motivo in esame, in quanto infondato, va dunque respinto.
2.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3 1. n. 689/1981, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, per avere il Tribunale ritenuto infondata l’eccezione in ordine all’affidamento incolpevole del trasgressore determinato dalle caratteristiche del cartello di divieto. Il motivo è inammissibile.
E ciò perché attraverso” l’esposta censura si chiede, in sostanza, al Giudice di legittimità di effettuare una valutazione di merito in ordine alla percepibilità in fatto del divieto di sosta sull’area in cui l’autovettura è stata posteggiata.
Tanto a fronte della coerente esposizionecontenuta, sul punto, nella sentenza impugnata, che non può qui essere contestata per carenza motivazionale, attesa la correttezza della decisione fondata su congrue argomentazioni immuni da vizi censurabili in questa sede.
Tale sindacato è precluso in sede di legittimità. Il motivo è, pertanto, inammissibile.
3.- Alla stregua di quanto innanzi esposto, affermato e ritenuto il ricorso va rigettato.
4.- Le spese seguono la soccombenza e, per l’effetto, si determinano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della parte conto ricorrente delle spese dei giudizio, determinate in E 500,00, oltre spese prenotate a debito. 
Così deciso nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione il 5 febbraio 2016 

Cause sotto i mille euro gratis in tutti i gradi

Regime fiscale delle spese nelle cause di competenza del Giudice di Pace di valore inferiore ad euro 1.033,00 trattate in gradi di appello dinanzi al Tribunale.^^^^^^^^^
di Marina Crisafi - Stop alle imposte di registro e di bollo in tutte le cause di modesto valore, anche nei gradi successivi al giudice di pace. Lo ha confermato il ministero della giustizia con la circolare n. 4128/2016 (qui sotto allegata), inviata ai presidenti della corte di Cassazione, delle corti d'appello e dei tribunali ordinari, sul "regime fiscale delle spese nelle cause di competenza del giudice di pace di valore inferiore ad euro 1.033 trattate in grado di appello dinanzi al tribunale". Allineandosi alla più recente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 16310/2014) e al fisco (risoluzione Agenzia delle entrate n. 97/E/2014), via Arenula ha affermato che è coerente un'esenzione generalizzata per le cause di minore valore indipendentemente dal giudice adito.
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Dipendente addetto stampa

RAL_1834_Orientamenti Applicativi

05/04/2016
Nel caso di un dipendente assunto a tempo determinato e a tempo pieno con il profilo professionale di addetto stampa, lo stesso, per la formazione professionale obbligatoria prevista dal proprio ordine, può avvalersi di giornate di permesso?

Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene di dover formulare alcune osservazioni generali e preliminari, in considerazione della specificità della questione in esame.

Si rileva, innanzitutto, che, attualmente, non sembrano sussistere norme di legge o contrattuali che prevedono particolari o specifici permessi o altre forme di assenza per giustificare la partecipazione ai corsi rientranti nella formazione continua degli iscritti ad albi o ordini professionali.

In proposito, infatti, non può non rilevarsi che il D.P.R. n.137 del 2012 (che giova osservare si rivolge sia al mondo del lavoro privato che a quello pubblico), nel prevedere un obbligo “di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale”, in capo ai predetti destinatari, non contiene alcuna previsione né in merito al titolo giustificativo dell’assenza, né con riguardo all’esistenza di un obbligo per l’amministrazione di garantire l’organizzazione e di assumersi l’onere per l’espletamento dei relativi corsi di formazione.

In sostanza, tale normativa non sembra riconoscere uno specifico diritto al professionista cui corrisponde un preciso obbligo del datore di lavoro, privato o pubblico, di giustificare, in modo automatico e per il fatto stesso della partecipazione ai corsi, la assenza del professionista finalizzata all’aggiornamento, assumendosi, conseguentemente, i relativi oneri sia diretti che indiretti.

La stessa previsione della sanzione disciplinare si colloca in via esclusiva all’interno del rapporto diretto tra il professionista e l’albo di iscrizione dello stesso.

Conseguentemente, proprio per la mancanza nella legge di una qualsiasi ipotesi di specifica giustificazione delle assenze riconducibili all’aggiornamento di cui si tratta ed in considerazione della prevalente finalizzazione dello stesso al soddisfacimento di un preciso interesse individuale del professionista, si ritiene che quest’ultimo possa certamente avvalersi, per tale finalità, dell’istituto del congedo per la formazione, di cui all’art.16 del CCNL del 14.9.2000 ed all’art. 5 della Legge n.53/2000.

Tale congedo, infatti, sia nella legge che nel CCNL è specificamente finalizzato anche alla partecipazione ad attività formative, di interesse precipuo del lavoratore, diverse da quelle poste in essere o finanziate dal datore di lavoro.

Tale indicazione, tuttavia, non esclude una possibile eventuale e diversa soluzione della problematica prospettata.

Esclusa, alla luce di quanto sopra detto, ogni forma di automatica e diretta giustificazione del assenze per l’aggiornamento obbligatorio del D.P.R. n.137/2012, l’ente, sulla base di una propria ed autonoma valutazione della effettiva e necessaria connessione di tale tipologia di aggiornamento dei professionisti iscritti ad albi (di tutte le diverse tipologie presenti nell’ente) con le proprie attività e con i propri obiettivi istituzionali e in presenza delle necessarie risorse finanziarie, ai sensi della vigente normativa legale e contrattuale, potrebbe decidere di inserire lo stesso nei vari programmi individuati in sede di adozione del piano annuale della formazione.

Sulla base di tale preventivo adempimento, pertanto, venendo in considerazione un’attività formativa o di aggiornamento che deve, comunque, ritenersi organizzata e finanziata dal datore di lavoro pubblico, troverà applicazione la regola generale per cui il dipendente che partecipa alle suddette attività deve essere considerato in servizio a tutti gli effetti, per tutta la durata delle stesse.

Ove anche tale soluzione non risultasse praticabile nel caso concreto, si ritiene che i lavoratori interessati, sulla base di una propria ed autonoma valutazione, non potrebbero che avvalersi delle altre tipologie di assenza attualmente previste dalla contrattazione collettiva nazionale: periodi di aspettativa per motivi personali o familiari, permessi per motivi personali o familiari; permessi a recupero, ecc.

Nel caso di una scelta nel senso della riconduzione dell’aggiornamento obbligatorio di cui si tratta nei programmi annuali delle attività di formazione dell’ente, data la specifica finalizzazione di queste, si ritiene che possano essere ammessi a fruirne solo i dipendenti in possesso del profilo professionale corrispondente alla professione per cui si è iscritti al relativo albo.

Come devono essere retribuite le giornate di ferie maturate e non godute...

RAL_1824_Orientamenti Applicativi

03/03/2016
Come devono essere retribuite le giornate di ferie maturate e non godute in un determinato anno da un lavoratore titolare di posizione organizzativa ove ne fruisca nell’anno successivo e l’importo della retribuzione di posizione, per il nuovo anno, sia inferiore a quello precedentemente attribuito per effetto di una nuova pesatura della stessa, conseguente ad un processo di riorganizzazione dell’ente?



Relativamente alla particolare problematica esposta, l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che, durante il periodo di ferie, il dipendente ha diritto a percepire la medesima retribuzione che avrebbe percepito in caso di ordinaria presenza al lavoro.

Si tratta di una regola che trova il suo preciso fondamento negli articoli sia della Costituzione (art. 36, comma 3) che del Codice civile (art. 2109) i quali, nel riconoscere al dipendente il diritto alle ferie, stabiliscono che queste devono essere retribuite.

Il CCNL del 6 luglio 1995, all'art. 18, comma 1, nel ribadire tale principio, fornisce anche ulteriori specificazioni per l'esatta definizione della retribuzione da corrispondere al dipendente che fruisce delle ferie.

Infatti, tale clausola prevede che al lavoratore, durante il periodo di ferie, debba essere corrisposta la normale retribuzione, escluse le indennità per prestazioni di lavoro straordinario e quelle che non sono corrisposte per dodici mensilità (art. 18, comma 1, del CCNL del 6.7.1995).

Proprio in considerazione della espressa previsione contrattuale (“durante tale periodo”), ad avviso della scrivente Agenzia, la retribuzione da riconoscere al dipendente sia quella allo stesso spettante durante il periodo di fruizione delle ferie stesse.

Conseguentemente, si esclude che si possa tenere conto, a tal fine, del maggiore importo della retribuzione di posizione della posizione organizzativa di cui era precedentemente titolare.

Guida in stato d'ebrezza:applicazione sanzione accessoria

Sez. QUARTA PENALE, Sentenza n.16638 / 2016 del 11/02/2016 Presidente ROMIS VINCENZO Relatore BELLINI UGO
... SENTENZA Sul ricorso proposto da Procuratore Generale della Repubblica presso Corte di Appello di Venezia Avverso la sentenza n.1973/14 resa in data 22.9.2014 dal Tribunale di Verona visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazio ...

Sent. Sez. 4 Num. 16638 Anno 2016 depositata il 21 aprile 2016

SENTENZA
Sul ricorso proposto da
Procuratore Generale della Repubblica presso Corte di Appello di Venezia
Avverso la sentenza n.1973/14 resa in data 22.9.2014 dal Tribunale di Verona
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott.Ugo Bellini;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore
generale dott.Pasquale Fimiani il quale ha chiesto annullarsi senza rinvio la
sentenza impugnata limitatamente alla sospensione della patente di guida,
disponendo la revoca della stessa.
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Verona con sentenza 22.9.2014 con motivazione
contestuale aveva accolto la richiesta di Favaloro Giuseppe, cui aveva espresso il
consenso il PM, di applicazione nei suoi confronti della pena di mesi quattro di
arresto e di C 2.000 di ammenda in relazione al reato contravvenzionale

contestato di cui all'art.186 II co. Lett.c) e 2 bis C.d.S. Disponeva altresì la
sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per la
durata di due anni.

2. Avverso detta ultima statuizione insorgeva la Procura Generale presso la
Corte di Appello di Verona deducendo violazione di legge assumendo che il
comma II bis dell'art.186 C.d.S. prevedeva, in caso di superamento della soglia
di 1,5 g/I, la sanzione amministrativa della revoca della patente di guida e
pertanto chiedeva che la sentenza venisse annullata in relazione a tale profilo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso deve essere accolto. L'art.186 co. 2 bis C.d.S. al secondo
capoverso prevede che in caso di accertato superamento di un determinato
livello di concentrazione di alcol nel sangue pari a 1,5 g/I la patente è sempre
revocata.
Nel caso in specie tale soglia era stata superata di oltre 1 g/I.
2. Nè nel caso in specie può avere rilievo esimente la clausola di salvezza in
ordine all'applicazione dell'art.222 C.d.S., la quale non costituisce disposizione
derogatoria all'obbligo di revoca del titolo abilitativo alla guida in caso di guida in
stato di ebbrezza cui derivi un incidente stradale, ma disciplina diverse ipotesi di
applicazione di sanzioni amministrative accessorie in ipotesi di violazione alle
disposizioni di legge che disciplinano la circolazione stradale. Detta norma,
intitolata sanzioni amministrative accessorie all'accertamento del reato al comma

II così recita: Quando dal fatto derivi una lesione personale colposa la
sospensione della patente di guida è da quindici giorni a tre mesi. Quando dal
fatto derivi una lesione personale colposa grave o gravissima la sospensione
della patente di guida è fino a due anni. Nel caso di omicidio colposo la
sospensione è fino a quattro anni. Se il fatto di cui al secondo e al terzo periodo
è commesso da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'art.186 comma
2 lett.c), ovvero da soggetto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope,
il giudice applica la sanzione amministrativa accessoria della revoca della
patente.
Le due disposizioni mantengono una propria autonomia sistematica e
precettiva, atteso che l'art.222 disciplina il novero di sanzioni amministrative
accessorie all'accertamento di reati, ha portata generale e attribuisce rilevanza
sanzionatoria crescente alla gravità delle lesioni personali che siano derivate da
reati colposi commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale,
laddove la condizione di ebbrezza alcolica del reo con parametri superiori ad una
soglia determinata rappresenta ulteriore ragione di aggravamento (sanzionata
con la revoca della patente di guida) di una condotta colposa di danno

autonomamente sanzionata in via amministrativa mediante la sospensione della
patente di guida; nella ipotesi di cui all'art.186 comma 2 bis invece il reato di
riferimento è proprio la guida in stato di ebbrezza e cioè una ipotesi
contravvenzionale di pericolo e non di danno, che determina la revoca della
patente di guida, quale sanzione amministrativa accessoria, non contemplata
dall'art.222, qualora il conducente in stato di ebbrezza alcolica provochi un
incidente stradale, a prescindere da profili di danno a cose o a persone che
possano essere derivati dal sinistro. Ne consegue pertanto che sussiste assoluta
autonomia e diversità ontologica tra le ipotesi sanzionatorie di cui all'art.222

C.d.S. di portata generale e riferibile alla commissione di un reato colposo di
danno con violazione delle norme sulla circolazione stradale e la guida in stato di
ebbrezza, aggravata dal fatto di avere provocato un incidente stradale con
conseguente turbativa alla sicurezza della circolazione; entrambe tali ipotesi
determinano l'applicazione della revoca della patente di guida in ragione del
diverso, ma ugualmente penetrante profilo di danno alla persona, e di pericolo
di pregiudizio alla circolazione che rispettivamente determinano, laddove il
richiamo operato all'art.222 C.d.S. dalla disposizione normativa dell'art.186
comma II bis, lungi da significare la necessità di una interpretazione congiunta
delle due disposizioni, stà al contrario ad attestare la rispettiva autonomia e il
differente ambito di applicazione delle due norme (vedi sez.IV 8.1.2015 n.4640).

3. Sotto diverso profilo neppure la omessa applicazione della sanzione
accessoria della revoca della patente di guida può essere ricondotta, nel caso in
specie, agli effetti del giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti
generiche con la circostanza aggravante (comma 2 bis dell'art.186) di avere
provocato un incidente in quanto il giudizio di valenza eventualmente svolto dal
giudice tra circostanze di segno contrario, seppure rilevante dal punto di vista
sanzionatorio e normativo, non elimina comunque la ricorrenza dei presupposti
di grave allarme sociale nella circolazione dei veicoli determinata dalla condizione
di ebbrezza alcolica di grado elevato da parte di un conducente che determini
altresì un incidente, laddove la funzione inibitoria e preventiva della sanzione si
esplica a prescindere da una valutazione giuridica in punto a circostanze di segno
opposto da effettuare per adeguare la sanzione al fatto e ai suoi elementi
circostanziali (sez.IV, 6.2.2015 n.7821, PG in proc.Luongo).
Il ricorso deve pertanto essere accolto.
P.Q.M
Annulla la sentenza impugnata in ordine alla disposta sospensione della patente
di guida di Favaloro Giuseppe per la durata di anni due, sanzione amministrativa
accessoria che elimina; annulla altresì la sentenza stessa in ordine alla omessa
revoca della patente di guida del Favaloro Giuseppe, sanzione amministrativa
accessoria che applica.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 11.2.2016.

Permessi per l'assistenza ex 104 anche in caso di ricovero

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi per l'assistenza ex 104 anche in caso di ricovero. Ma è necessario che i medici ne certifichino la necessità.
Domanda
Usufruisco della legge 104/1992 in quanto mio fratello è disabile e i nostri genitori sono deceduti. Mio fratello ha dovuto subire un ricovero ospedaliero e a scuola mi hanno detto che se è ricoverato non posso più usufruire dei tre giorni di permesso mensili. Il che mi rende ancora più difficile assisterlo.
Risposta
Quanto le hanno detto a scuola (spero non sia stato il dirigente scolastico o il direttore dei servizi generali e amministrativi) non è supportato da alcuna disposizione di legge o di contratto.
Le norme in vigore in materia di permessi per assistere un parente disabile sono principalmente l'articolo 33, comma 3, della legge 104/1992, l'articolo 15, comma 6, del CCNL scuola 2007, oltre ad alcune circolari Inps quale ad esempio la n. 90 del 23.05.2007.
Dall'esame delle predette norme si ricava chiaramente che il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito per assistere un parente disabile in stato di gravità viene meno solo se la persona handicappata sia ricoverata a tempo pieno in una struttura sia pubblica che privata (non rientra in tale fattispecie un semplice ricovero ospedaliero anche se di non breve durata).
Stando inoltre a quanto si legge nella citata circolare Inps n. 90/2007, il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile permane anche in caso di ricovero a tempo pieno qualora i sanitari della struttura attestino il bisogno di assistenza da parte di un parente che ne abbia titolo (articolo ItaliaOggi del 05.04.2016).
 http://www.ptpl.altervista.org/

Nel caso di risorse che sono disponibili solo a consuntivo e sono erogate al personale in funzione del grado di effettivo raggiungimento degli obiettivi di performance organizzativa, ai quali l’incremento è stato correlato, cosa accade alle stesse se non sono raggiunti gli obiettivi di performance? Sono economie o possono essere rinviate all’esercizio successivo?

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Nel caso di risorse che sono disponibili solo a consuntivo e sono erogate al personale in funzione del grado di effettivo raggiungimento degli obiettivi di performance organizzativa, ai quali l’incremento è stato correlato, cosa accade alle stesse se non sono raggiunti gli obiettivi di performance? Sono economie o possono essere rinviate all’esercizio successivo?


In ordine a tale problematica, si rende necessario comprendere a che tipologia di risorse si fa riferimento.

Ove le risorse di cui si tratta siano quelle variabili derivanti dall’applicazione dell’art.15, comma 5, o del 15, comma 2, del CCNL dell’1.4.1999 (come sembrerebbe emergere dal formulazione del quesito che fa riferimento a “risorse che sono disponibili solo a consuntivo e sono erogate al personale in funzione del grado di effettivo conseguimento degli obiettivi…”), esse , in caso di ridotto o mancato raggiungimento degli obiettivi di performance, sulla base della relazione della performance, che ne hanno giustificato l’apposizione, costituiscono economie e, quindi, non possono essere trasportate sull’esercizio successivo

E’ possibile, ai sensi dell’art.17, comma 5, del CCNL dell’1.4.1999, fare confluire nelle risorse decentrate di un determinato anno le economie derivanti dalla mancata erogazione nell’anno precedente di parte delle risorse stabili?

RAL_1830_Orientamenti Applicativi   del 03.03.2016

E’ possibile, ai sensi dell’art.17, comma 5, del CCNL dell’1.4.1999, fare confluire nelle risorse decentrate di un determinato anno le economie derivanti dalla mancata erogazione nell’anno precedente di parte delle risorse stabili?

Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene opportuno precisare quanto segue.

L’art.17, comma 5, del CCNL dell’1.4.1999 espressamente dispone: “Le somme non utilizzate o non attribuite con riferimento alle finalità del corrispondente esercizio finanziario sono portate in aumento delle risorse dell’anno successivo”.

Questa clausola contrattuale, quindi, consente di incrementare le risorse destinate al finanziamento della contrattazione integrativa di un determinato anno solo con quelle che, pure destinate alla medesima finalità nell’anno precedente, non sono state utilizzate in tale esercizio finanziario.

Pertanto, nell’ambito di applicazione del citato art.17, comma 5, del CCNL dell’1.4.1999, rientrano gli importi delle risorse comunque definitivamente non attribuite o non utilizzate con riferimento alle finalità del corrispondente esercizio finanziario, come certificati dall’organo di controllo (non possono considerarsi tali le risorse per le quali, per qualunque ragione, anche di possibile contenzioso l’ente non abbia la certezza giuridica del definitivo mancato utilizzo).

Spetta al singolo ente, nella sua autonomia gestionale, verificare, sulla base delle previsioni del contratto integrativo già stipulato e con riferimento alle risorse dei vari istituti disciplinati, se effettivamente sussistano le condizioni per la concreta attuazione della disciplina dell’art.17, comma 5, del CCNL dell’1.4.1999.

Si coglie l’occasione anche per ricordare che:

a) l’incremento consentito dall’art.17, comma 5, del CCNL dell’1.4.1999, ha natura di incremento “una tantum”, consentito cioè solo nell’anno successivo a quello in cui le risorse disponibili non sono state utilizzate, e, comunque si traduce in una implementazione delle sole risorse variabili, che, come tali, non possono essere confermate o comunque stabilizzate negli anni successivi;

b) per effetto della loro particolare natura solo risorse stabili non utilizzate né più utilizzabili in relazione agli anni di riferimento, possono incrementare le risorse destinate al finanziamento della contrattazione integrativa dell’anno successivo, come risorse variabili;

c) relativamente alle risorse variabili, si deve ricordare che esse sono quelle che gli enti possono prevedere e quantificare, in relazione ad un determinato anno, previa valutazione della propria effettiva capacità di bilancio (nonché dei vincoli del rispetto del patto di stabilità interno e dell’obbligo di riduzione della spesa, per gli enti che vi sono tenuti). Le fonti di alimentazione di tale tipologia di risorse sono espressamente indicate nell’art.31, comma 3, del CCNL del 22.1.2004, che le finalizzano a specifici obiettivi a tal fine individuati (v. ad esempio, art.15, commi 1 e 2, del CCNL dell’1.4.1999; risorse destinate alla progettazione; ecc.). Sulla base delle fonti legittimanti, ogni determinazione in materia, comunque, è demandata alle autonome valutazioni dei singoli Enti, sia nell’ “an” che nel “quantum”. Conseguentemente, in virtù della specifica finalizzazione annuale e della loro natura variabile (sia il loro stanziamento che l’entità delle stesse possono variare da un anno all’altro), le risorse di cui si tratta non possono né essere utilizzate per altri scopi, diversi da quelli prefissati, né, a maggior ragione essere trasportate sull’esercizio successivo in caso di non utilizzo nell’anno di riferimento. Diversamente ritenendo, esse finirebbero sostanzialmente per “stabilizzarsi” nel tempo, in contrasto con la ratio della previsione del CCNL e con la specifica finalizzazione delle risorse stesse, che è alla base del loro stanziamento annuale;

d) le risorse variabili, derivanti dal mancato utilizzo nell’anno di riferimento di risorse stabili, avendo caratteristiche diverse da quelle richiamate nella lett.c), ove effettivamente non utilizzate nell’anno seguente, possono esserlo, eventualmente, di fatto, anche in anni successivi o a distanza di tempo rispetto a quello in cui si è determinato il mancato utilizzo che le ha determinate;

e) poiché trattasi di risorse variabili, una tantum, che, come sopra detti, non possono essere confermate o stabilizzate, l’avvenuti impiego delle stesse né esaurisce ogni ulteriore utilizzabilità;

f) pertanto, alla luce di quanto detto, si ritiene che le risorse variabili derivanti da risorse stabili comunque, non utilizzate nel corso del 2014, valutate e computate secondo quanto sopra detto, possano essere riportate ed utilizzate anche per il finanziamento della contrattazione integrativa anche nel 2015.

Si ricorda, comunque, che non possono essere ricomprese bell’ambito applicativo dell’art.17, comma 5, del CCNL dell’1.4.1999, le risorse che espressamente la vigente legislazione vieta di destinare al finanziamento della contrattazione integrativa (ad es. i risparmi derivanti dall’applicazione della decurtazione del salario accessorio per i primi 10 giorni di malattia del lavoratore, ai sensi dell’art.71 della legge n.133/2008; i risparmi derivanti dall’applicazione dell’art.9 del D.L.n.78/2010, come la mancata valorizzazione economica delle progressioni economiche, utili solo a fini giuridici e previdenziali; ecc.).

Infine, poiché le risorse variabili di cui si tratta hanno carattere di variabilità e non possono essere consolidate, le stesse non possono essere utilizzate per il finanziamento di istituti del trattamento economico accessorio che richiedono solo risorse stabili (progressioni economiche; posizioni organizzative; ecc.).

Esposizione cartello del cantiere

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizi-urbanistici, la violazione dell’obbligo di esporre il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo, qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo medesimo, vale anche in caso di cantiere inattivo, ed è tuttora punita dall’art. 44, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001 se commessa dal titolare del permesso a costruire, dal committente, dal costruttore o dal direttore dei lavori.
Trattasi di fattispecie già sanzionata sotto la vigenza dell’ormai abrogata l. n. 47/1985, e tuttora in essere, in ragione del rapporto di continuità normativa intercorrente tra le diverse disposizioni.
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Secondo il costante orientamento di questa Corte, i destinatari dell'obbligo in esame vanno individuati nel titolare del permesso di costruire, nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori sulla base di quanto espressamente previsto dalla L. n. 47 del 1985, art. 6 e, oggi, dall'art. 29, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001.
Quanto al fondamento della responsabilità del direttore dei lavori, va richiamato il principio affermato da questa Corte di legittimità secondo cui è configurabile la responsabilità del direttore dei lavori per le contravvenzioni in materia di edilizia ed urbanistica, indipendentemente dalla sua concreta presenza in cantiere, in quanto sussiste a carico del medesimo un onere di vigilanza costante sulla corretta esecuzione dei lavori, collegato al dovere di contestazione delle irregolarità riscontrate e, se del caso, di rinunzia all'incarico.
La responsabilità del costruttore, quale esecutore materiale e diretto responsabile dell'opera, trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo, imposto dalla legge, di osservare le norme in materia urbanistico-edilizia.
Il chiaro disposto dell'ad art. 29, comma 1, D.P.R. n. 380 del 2001 non consente, infine, di differenziare le responsabilità del costruttore e del direttore dei lavori dei lavori da quella del committente, tanto meno sotto il profilo temporale dell'adempimento dell'obbligo di esposizione del cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo.
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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 08.07.2014, il Tribunale di Lucca, a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, pronunciando nei confronti di Ch.Ma., Mo.Mo. e Ca.Ra., imputati del reato di cui all'art. 44, lett. a), dpr n. 380/1990, per avere, nella qualità rispettiva di committente dei lavori, direttore dei lavori ed esecutori degli stessi, in violazione dell'art. 4 p.6 della scheda L.6-normativa di dettaglio del Reg. Edilizio del Comune di Viareggio, omesso di esporre la prescritta tabella indicante gli estremi dell'atto autorizzativo e dell'intervento edilizio, dichiarava i predetti responsabili del reato loro ascritto e li condannava ciascuno alla pena di euro 3.000 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Mo.Mo. e Ca.Ra., tramite il difensore di fiducia, articolando entrambi il motivo, fondato su inosservanza o falsa applicazione della legge penale, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
I ricorrenti, premettendo che la norma incriminatrice, costituita dall'art. 44, lett. a), e dall'art. 29, comma 1, Dpr n. 380/2001, è una norma penale cd in bianco, in quanto rinvia ai regolamenti edilizi, deducono che l'art. 4 p.6 della scheda L6 del regolamento edilizio del Comune di Viareggio, norma di rango amministrativo, deve essere correttamente interpretata nel senso che il riferimento al cantiere deve intendersi quale riferimento ad un cantiere effettivamente attivo.
Argomentano che, quindi, poiché, nella specie, al momento del sopralluogo da parte della polizia municipale i lavori al cantiere erano sospesi, il Giudice territoriale erroneamente dava rilievo alla semplice apertura formale del cantiere per ritenere configurato il reato contestato.
Aggiungono, poi, sotto altro profilo, che l'obbligo di apposizione del cartello deve ritenersi esistente a carico del direttore dei lavori e della ditta esecutrice solo al momento dell'apertura del cantiere e non per tutta la durata dei lavori, dovendosi, in caso contrario, ritenere sussistente un inaccettabile e diabolico obbligo di custodia a carico dei predetti.
Chiedono, quindi, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non è previsto come reato dalla legge o con la formula ritenuta di giustizia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili perché basati su motivo manifestamente infondato.
2. Va premesso che il reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), ha natura residuale rispetto alle altre violazioni menzionate dal medesimo articolo e sanziona, con la sola pena dell'ammenda, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal titolo 4 del menzionato D.P.R. n. 380 del 2001, in quanto applicabili, l'inosservanza delle disposizioni dei regolamenti edilizi, l'inosservanza di prescrizioni contemplate dagli strumenti urbanistici e l'inosservanza delle prescrizioni fissate dal permesso di costruire (Sez. 3, Sentenza n. 29730 del 04/06/2013 Rv. 255836).
Questa Corte, vigente la L. n. 47 del 1985, ha avuto modo di rilevare l'estrema genericità della disposizione, allora contenuta nella previgente, omologa disposizione di cui all'art. 20, lett. a) e la possibilità di una pluralità indiscriminata di utilizzazioni, con conseguente insufficienza della interpretazione letterale, se non altro perché in contrasto con il principio della tassatività delle fattispecie legali penali ed ha posto in evidenza la necessità di delimitarne l'ambito applicativo tenendo conto della sua collocazione in un contesto normativo volto a disciplinare l'attività edilizia, affermando, conseguentemente, che "le norme, prescrizioni e modalità esecutive" di cui all'art. 20, lett. a), dovevano intendersi riferite soltanto a quelle regole di condotta che sono direttamente afferenti all'attività edilizia (Sez. 3 n. 8965, 21.06.1990).
Parimenti è stata rilevata la sua natura di norma penale in bianco poiché, mentre la sanzione è determinata, il precetto di carattere generico rinvia ad un dato esterno quale il titolo abilitativo, il regolamento edilizio, ecc. (SS.UU. n. 7978, 14.07.1992; v. anche SS.UU. n. 11635, 21.12.1993).
Si è, altresì, evidenziato (Sez. 3 n. 21780, 31.05.2011), come il riferimento contenuto nella norma attualmente vigente alle disposizioni di legge "previste nel presente titolo" (del D.P.R. n. 380 del 2001, titolo 4, Parte prima comprendente gli artt. da 27 a 51) sia certamente riduttivo rispetto alla previgente fattispecie di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. a), la quale, punendo "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dalle presente legge, dalla L. 17.08.1942, n. 1150, e successive modificazioni e integrazioni", si riteneva effettuasse un rinvio aperto a tutta la legislazione urbanistico-edilizia, addirittura comprensiva, secondo parte della giurisprudenza, anche delle leggi regionali integrative. Ciò non di meno, pur in presenza di un ambito di operatività più contenuto, si è comunque ritenuto che la mancata apposizione del cartello di cantiere continui ad essere assoggettata alla sanzione penale prevista dalla richiamata disposizione.
Deve, inoltre, rimarcarsi quanto già rilevato da questa Corte sull'argomento (Sez. 3 n. 16037, 11.05.2006) ricordando come il contenuto della L. n. 47 del 1985, art. 4, comma 4, prevedesse, per coloro che eseguivano interventi edilizi, il duplice obbligo di esibizione della concessione edilizia e dell'esposizione del cartello di cantiere -a condizione che lo stesso fosse espressamente previsto dai regolamenti edilizi o dalla concessione- la cui violazione era penalmente sanzionata dall'art. 20, lett. a), più volte menzionato (a tale proposito si richiamava quanto stabilito dalle precedenti decisioni: SS.UU. 7978/92, cit.; Sez. 3^ n. 10435, 05.10.1994).
Veniva, altresì, dato atto dell'intervenuta abrogazione della L. n. 47 del 1985, art. 4, rilevando, tuttavia, la riproduzione del suo contenuto nel D.P.R. n. 380 del 2001, art. 27, comma 4, laddove si impone agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria l'obbligo di comunicazione immediata all'autorità giudiziaria nel caso in cui accertino che nei luoghi in cui vengono realizzate opere edilizie non sia esibito il permesso di costruire ovvero non sia apposto il prescritto cartello.
Contestualmente si individuavano i destinatari dell'obbligo in quelli già indicati dalla L. n. 47 del 1985, art. 6, comma 1, e, segnatamente, nel titolare della concessione, nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori. Anche tale ultima affermazione è pienamente condivisibile: infatti il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29, comma 1, riproduce attualmente il medesimo contenuto della disposizione previgente, con l'unica differenza del riferimento al titolo abilitativo, che non è più la concessione ma il permesso di costruire.
Conseguentemente è stato affermato il principio di diritto, in base al quale la violazione dell'obbligo di esporre il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo, qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo medesimo, già sanzionata sotto la vigenza dell'ormai abrogata L. n. 47 del 1985, è tuttora punita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), in ragione del rapporto di continuità normativa intercorrente tra le diverse disposizioni (sez. 3, 04/06/2013, n. 29730 Rv. 255836; Cassazione penale, sez. 3, 10/12/2014, n. 537; sez. 3 16/01/2015, n. 10713).
3. Ciò posto, è manifestamente infondato il primo profilo di doglianza.
La sentenza impugnata, infatti, correttamente applicando i suesposti principi, ha rilevato che l'art. 4.6 della scheda L.6 del Regolamento edilizio del Comune di Viareggio -richiamato nel capo di imputazione- prevede specificamente l'obbligo che ogni cantiere sia provvisto di cartello indicante gli estremi dell'atto autorizzativo e, pacifica l'assenza del cartello all'epoca del sopralluogo, ha ritenuto configurabile la fattispecie criminosa contestata.
La doglianza dei ricorrenti, che deducono che il permanere dell'obbligo di esposizione sussisterebbe solo in caso di cantiere effettivamente attivo, è manifestamente infondata.
Il Tribunale ha correttamente considerato irrilevante l'assunto difensivo circa una momentanea inattività del cantiere dovuta al ritardo nei pagamenti da parte del committente.
Tale valutazione è conforme ai principi espressi da questa Corte in subíecta materia.
La circostanza che il cartello fosse presente all'inizio dei lavori, infatti, non esclude la configurabilità del reato, in quanto ciò che rileva è che lo stesso non fosse esposto al momento del controllo da parte del personale di vigilanza, in quanto funzione del cartello è proprio quella di rendere edotti gli organi di vigilanza dell'esistenza in loco di interventi edilizi, al fine di consentire l'espletamento di tutte quelle attività di verifica dell'osservanza della normativa edilizia e di corrispondenza dell'assentito al realizzato (Sez. 3 30/04/2014, n. 28123). Inoltre, la finalità cui assolve l'obbligo di apposizione del cartello, deve ritenersi che sia anche quella di indicare i soggetti responsabili, nel caso in cui durante lo svolgimento delle attività di cantiere derivino danni a terzi (Sez. 3, 22/05/2012, n. 40118).
Tale funzione comporta che l'esposizione del cartello indicante il titolo abilitativo e i nominativi dei responsabili deve non solo essere effettuata all'inizio dei lavori ma protrarsi in maniera continuativa durante tutta la fase di esecuzione degli stessi, ivi compresi i periodi in cui i lavori siano momentaneamente sospesi, risultando irrilevante la causa della sospensione, nella specie addebitabile a fatto volontario del committente.
4. Anche la doglianza dei ricorrenti, che deducono che l'obbligo di esposizione a carico del direttore dei lavori e del costruttore sussisterebbe solo al momento di apertura del cantiere, è manifestamente infondata.
Correttamente il Tribunale ha ritenuto la penale responsabilità, oltre che del committente, anche degli attuali ricorrenti Mo.Mo. e Ca.Ra., nelle rispettive qualità di direttore dei lavori ed esecutori degli stessi.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, infatti, i destinatari dell'obbligo in esame vanno individuati nel titolare del permesso di costruire, nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori sulla base di quanto espressamente previsto dalla L. n. 47 del 1985, art. 6 e, oggi, dall'art. 29, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013, Rv.255836, Sez. 3 n. 38380 del 15.07.2015; sez. III, 16/01/2015, n. 10713; Sez. III, 10/12/2014, n. 537).
Quanto al fondamento della responsabilità del direttore dei lavori, va richiamato il principio affermato da questa Corte di legittimità, che il Collegio condivide e che va qui riaffermato, secondo cui è configurabile la responsabilità del direttore dei lavori per le contravvenzioni in materia di edilizia ed urbanistica, indipendentemente dalla sua concreta presenza in cantiere, in quanto sussiste a carico del medesimo un onere di vigilanza costante sulla corretta esecuzione dei lavori, collegato al dovere di contestazione delle irregolarità riscontrate e, se del caso, di rinunzia all'incarico (sez. 3, n. 34602 del 17.6.2010, Ponzio, rv. 248328, nella cui motivazione questa Corte, nel confermare la sentenza di condanna che aveva ritenuto sussistere l'obbligo del direttore dei lavori di recarsi quotidianamente sul cantiere al fine di vigilare le attività eseguite, ha precisato che questi, oltre ad essere il referente del committente per gli aspetti di carattere tecnico, assume anche la funzione di garante nei confronti del Comune dell'osservanza e del rispetto dei contenuti dei titoli abilitativi all'esecuzione dei lavori; sez. 3 15/01/2015, n. 7406; sez. 3, 11/05/2005, n. 22867).
La responsabilità del costruttore, quale esecutore materiale e diretto responsabile dell'opera, trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo, imposto dalla legge, di osservare le norme in materia urbanistico-edilizia (sez. 3, 25/11/2004, n. 860).
Il chiaro disposto dell'ad art. 29, comma 1, D.P.R. n. 380 del 2001 non consente, infine, di differenziare le responsabilità del costruttore e del direttore dei lavori dei lavori da quella del committente, tanto meno sotto il profilo temporale dell'adempimento dell'obbligo di esposizione del cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.04.2016 n. 13963).

Nelle strade extraurbane autovelox col sì prefettizio

ENTI LOCALI - VARI: Nelle strade extraurbane autovelox col sì prefettizio.
Spetta al rappresentante governativo autorizzare l'installazione di un misuratore di velocità in sede fissa fuori centro abitato. E in questo caso non occorre fare riferimento alle dimensioni della strada ma solo all'ubicazione esatta dell'autovelox.
Lo ha chiarito il TAR Piemonte, Sez. I, con la sentenza 04.12.2015 n. 1691.
Un automobilista incorso nei rigori dei limiti di velocità ha presentato un esposto alla prefettura denunciando l'illegittimità del provvedimento che ammette la collocazione di un misuratore elettronico su una strada comunale extraurbana di modeste dimensioni. A seguito del mancato accoglimento dell'istanza l'interessato ha proposto ricorso ai giudici amministrativi contro il rinnovato decreto prefettizio che ha confermato la precedente determinazione. Ma senza successo.
A parere del collegio infatti l'elemento fondamentale da valutare attiene alla natura della strada comunale scelta dalla prefettura per l'installazione dell'autovelox fisso. Ovvero se la stessa risulta essere una strada extraurbana o meno. L'art. 4 della legge 168/2002 permette il controllo automatico dell'eccesso di velocità, infatti, solo su certi tipi di strade, previa autorizzazione del prefetto. Ovvero le strade extraurbane secondarie e quelle locali di scorrimento. Si definiscono strade extraurbane secondarie tutte le strade che non interessano i centri abitati senza riferimento alle dimensioni del manufatto.
A differenza delle strade extraurbane principali, munite di spartitraffico, quelle secondarie devono solamente disporre di una corsia per senso di marcia e delle banchine. Il decreto ministeriale 6792/2004 sulle dimensioni delle strade, prosegue la sentenza, interessa solo le modalità di costruzione dei nuovi manufatti. Per l'attività di classificazione delle strade occorre fare riferimento all'art. 2 del codice stradale.
La strada in esame, conclude il Tar, è fuori dal centro abitato, e quindi correttamente classificata come extraurbana, dotata di due corsie, priva di uno spartitraffico locale, ma le banchine sono esistenti, essendovi su entrambi i lati una spazio tra la linea di margine e il ciglio erboso (articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2016).
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MASSIMA
La questione centrale attiene alla natura della strada, cioè se sia stata correttamente classificata come strada extraurbana secondaria, ovvero se si tratti di una strada extraurbana locale, per cui il Prefetto non aveva alcun potere di autorizzare l’attività di rilevamento a distanza di cui all’art. 4 L. 168/2002, che prevede la possibilità di installare dispositivi o mezzi tecnici di controllo del traffico sulle strade di cui all'articolo 2, comma 2, lettere C e D, del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, (cioè rispettivamente C - Strade extraurbane secondarie e D - Strade urbane di scorrimento).
Secondo la tesi di parte ricorrente la strada non può classificarsi come strada extraurbana neppure secondaria, poiché il Codice della Strada richiede per le strade extraurbane secondarie che siano “ad unica carreggiata con almeno una corsia per senso di marcia e banchine”.
La strada de qua invece è priva di corsie e di banchine e non presenta le dimensioni richieste dal D.M. Infrastrutture e Trasporti 05.11.2001 n. 6792 che impone quanto meno come larghezza di una corsia mt. 3,50.
La tesi del ricorrente non può essere condivisa.
La qualificazione della strada come extraurbana è stata effettuata sulla base dell’art. 2 del Codice della Strada, che distingue le strade all’interno dei centri abitati e le strade che si sviluppano fuori da questi. Tra questi vengono distinte le autostrade, le strade secondarie urbane ed extraurbane secondarie (lett. C), cioè quelle “ad unica carreggiata con almeno una corsia per senso di marcia e banchine”.
La classificazione che viene effettuata in base al Codice la strada fa riferimento non tanto alle dimensioni, ma alla ubicazione della strada (urbana ed extra urbana, se all’interno del centro abitato o all’esterno), alla effettiva destinazione e alla conformazione: tra le strade extra urbane, in quanto esterne al centro abitato, si distinguono quelle principali (che devono avere uno spartitraffico centrale di separazione dei flussi di circolazione), da quelle secondarie, per le quali la disposizione si limita a richiedere una unica carreggiata, con una corsia per senso e le banchine, senza tuttavia porre delle precise dimensioni.
Al contrario il DM citato 6792/2004 attiene solo alle modalità di costruzione di nuove strade, mentre per l’attività di classificazione delle strade già esistenti i criteri sono contenuti nel Codice della strada.
La strada in esame è fuori dal centro abitato, e quindi correttamente classificata come extraurbana, dotata di due corsie, priva di uno spartitraffico centrale, ma le banchine sono esistenti, essendovi su entrambi i lati uno spazio tra la linea di margine e il ciglio erboso.
Pertanto, essendo corretta la qualificazione della strada come extraurbana secondaria, non può essere censurata la scelta dell’Amministrazione di posizionare il sistema di controllo di velocità anche su detto tratto di strada.
 http://www.ptpl.altervista.org/

Il dipendente si paga da solo le spese legali

PUBBLICO IMPIEGO: Il dipendente si paga da solo le spese legali. Tar della Calabria.
Innocente sì, ma più povero. Dopo l'assoluzione dall'imputazione di peculato il dipendente del Comune chiede all'ente datore di coprirlo sulle spese legali sostenute nel procedimento il reato ipotizzato, inerente motivi di servizio. Ma dovrà rassegnarsi a pagarle da solo perché a suo tempo non ha coinvolto l'amministrazione, anzi ha taciuto l'esistenza del processo a suo carico, forse temendo la condanna: l'ente datore, invece, deve essere messo in condizione di verificare se sussistono conflitti d'intesse con il dipendente.
È quanto emerge dalla sentenza 09.03.2016 n. 272, pubblicata dal TAR Calabria-Reggio Calabria, che interviene su di una questione controversa in giurisprudenza.
Schema procedimentale - Niente da fare per la lavoratrice, che pure è stata mandata esente da pena nel procedimento in cui era accusata di essersi appropriata di marche da bollo nella sua disponibilità. Non c'è dubbio che il dipendente pubblico sotto inchiesta per reati riconducibili al suo lavoro possa scegliersi l'avvocato che preferisce.
Ma non può farsi vivo con l'amministrazione solo a giudizio concluso perché sia il Comune a farsi carico della parcella forense: lo schema procedimentale, infatti, è quello previsto per l'intervento dell'avvocatura dello Stato e l'ente datore deve poter verificare se gli atti per i quali si procede in giudizio riguardano davvero in modo diretto funzioni del lavoratore.
E se non ci sono conflitti di interesse l'ente deve farsi carico delle spese legali a tutela propria e del dipendente (articolo ItaliaOggi del 14.04.2016).
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MASSIMA
... per la condanna al pagamento delle spese legali dovute dalla ricorrente al proprio difensore di fiducia ai sensi dell’art. 67 del D.P.R. n. 268/1987.
...
La domanda è infondata.
All’epoca dei fatti, la ricorrente era impiegata presso l’Ufficio Anagrafe del Comune di San Ferdinando.
La normativa applicabile al caso di specie, pertanto, è quella prevista per il comparto del personale degli enti locali e, segnatamente, l’art. 67 del D.P.R. 13.05.1987, n. 268 (contenente “Norme abrogato, a decorrere dal 06.06.2012, dall’art. 62, comma 1, e dalla tabella A allegata al D.L. 09.02.2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 04.04.2012, n. 35 e, dunque, applicabile al caso di specie ratione temporis), rubricato “Patrocinio legale”, ai sensi del quale: “1. L’ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l’apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall’apertura del procedimento facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento.
2. In caso di sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o con colpa grave, l’ente ripeterà dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in ogni grado di giudizio”.
Sostiene la ricorrente che il rimborso sarebbe comunque dovuto, a seguito della sua assoluzione, indipendentemente da qualsivoglia coinvolgimento iniziale dell’Amministrazione.
E’ circostanza pacifica, infatti, che la stessa non solo non ha rivolto al Comune istanza di assistenza legale o di assunzione degli oneri di difesa, ma non ha finanche comunicato l’instaurazione del procedimento penale a suo carico.
Il Collegio aderisce all’orientamento giurisprudenziale che non condivide la predetta tesi.
L’art. 67, cit., infatti, prevede un modello procedimentale analogo a quello regolamentato dall’art. 44 del R.D. n. 1611/1933, relativo all’assunzione a carico dello Stato della difesa dei pubblici dipendenti per fatti e cause di servizio (“L'Avvocatura dello Stato assume la rappresentanza e la difesa degli impiegati e agenti delle Amministrazioni dello Stato o delle amministrazioni o degli enti di cui all'art. 43 nei giudizi civili e penali che li interessano per fatti e cause di servizio, qualora le amministrazioni o gli enti ne facciano richiesta, e l'Avvocato Generale dello Stato ne riconosca la opportunità”).
Tale modello procedimentale ex art. 67 cit. “rimette alla valutazione ex ante dell’ente locale, con specifico riferimento all’assenza di conflitto di interessi, la scelta di far assistere il dipendente da un legale di comune gradimento, per cui non è in alcun modo riconducibile al contenuto della predetta norma la pretesa… di ottenere il rimborso delle spese del patrocinio legale a seguito di una scelta del tutto autonoma e personale nella nomina del proprio difensore. Del resto, l’onere della scelta di un legale di comune gradimento appare del tutto coerente con le finalità della norma perché, se il dipendente vuole l’amministrazione lo tenga indenne dalle spese legali sostenute per ragioni di servizio, appare logico che il legale chiamato a tutelare tali interessi, che non sono esclusivi di quelli del dipendente, ma coinvolgono anche quelli dell’ente di appartenenza , debba essere scelto preventivamente e concordemente tra le parti… in caso diverso, si priverebbe di significato la previsione normativa volta a tutelare diritti ed interessi che sono comuni ad entrambe le parti” (Consiglio di Stato, Sez. V, 12.02.2007, n. 552).
Alla stregua della predetta norma è senz’altro configurabile un potere di intervento a posteriori, per l'accollo di spese già sostenute direttamente dal dipendente (in tal senso, Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.03.2002, n. 1476), ma pur sempre nel presupposto dell’iniziale coinvolgimento dell’ente di appartenenza che deve essere messo nelle condizioni di svolgere un apprezzamento discrezionale dell'ente circa la sussistenza o meno di un conflitto d'interessi o la qualificazione dei fatti o degli atti per cui si procede in sede giudiziaria, se direttamente o meno connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio, fermo restando che, in assenza di un dichiarato e motivato conflitto di interessi, l'assunzione di ogni onere di difesa da parte dell'ente costituisce un'attività vincolata, in quanto preordinata alla tutela degli interessi del dipendente, oltre che a tutela di quelli propri dell'ente (in termini, Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.03.2002, n. 1476, cit.).
In tal senso si sono espresse anche le Sezioni Unite della Cassazione che, con sentenza n. 12719 del 29.05.2009, in sede di decisione su un conflitto negativo di giurisdizione, hanno affermato quanto segue: “I presupposti per l'insorgenza di questa speciale garanzia, prevista in favore dei dipendenti degli enti locali, sono costituiti: a) dal fatto che la commissione di fatti o atti addebitati al dipendente in sede penale siano direttamente connessi all'espletamento del servizio o all'adempimento dei compiti d'ufficio; b) dalla mancanza di una situazione di conflitto di interesse.
Sussistendo questi presupposti il dipendente, quindi, sulla base della suddetta disciplina può avvalersi della garanzia alla rivalsa alle spese attraverso il riconoscimento di un diritto, che sorge -come emerge dalla lettera del citato art. 67- nel momento stesso in cui il procedimento penale ha inizio e le spese legali vengono concretamente sostenute, atteso che espressamente la disposizione scrutinata prevede detta garanzia al momento dell'"apertura del procedimento" ed atteso che risponde ad un interesse sia del dipendente che della pubblica amministrazione che sin da tale momento la difesa in giudizio avvenga ad opera di "un legale di comune gradimento"”.
Anche le Sezioni Unite, dunque, postulano quale presupposto necessario dell’insorgenza del diritto al rimborso il coinvolgimento iniziale dell’ente.
La sussistenza di un preciso onere, da parte del dipendente, di comunicare all’amministrazione interessata la pendenza del procedimento in cui è coinvolto, ai fini dell’operatività dell’accollo imposto ex lege è stata sostenuta dal Giudice Ordinario anche più recentemente.
La Corte d’Appello di Campobasso, nella sentenza del 06.11.2013 (resa in causa r.g.n. 337/2012), ha correttamente richiamato la sentenza n. 1657 del 25.08.2009 con cui la Corte dei Conti, Reg. Lazio “esclude che vi possa essere un rimborso "ex post" delle spese sostenute dall'interessato, se egli non segue l'iter previsto dalla legge, in quanto la norma prevede l'onere a carico dell'ente "anche a tutela dei propri diritti e interessi…Questa precisazione deve interpretarsi nel senso che l'Amministrazione deve comunque preventivamente valutare che non sussista un conflitto di interessi, a prescindere da una possibile futura assoluzione, e si deve anch'essa far carico che la vicenda processuale non abbia esiti che possano ripercuotersi negativamente sui suoi interessi o sulla sua immagine pubblica. Né la procedura viola il principio del diritto alla difesa e la facoltà di scegliersi un avvocato di personale fiducia. Invero, non è in discussione la facoltà per l'interessato di scegliersi l'avvocato che preferisce, ma se vuole essere tenuto indenne da parte dell'ente locale per le spese del giudizio in cui è coinvolto, deve seguire la procedura di cui si è detto”.
Parte della giurisprudenza richiamata da parte ricorrente, inoltre, non è attinente al caso di specie.
Le sentenze del TAR Piemonte, Torino, Sez. II, n. 4585/2010 e del TAR Sicilia, Palermo, sez I, n. 1309/2002 si riferiscono al comparto del personale dipendente del Servizio Sanitario Nazionale, al quale si applica l’art. 41 del D.P.R. 20.05.1987, n. 270, che non richiede che il dipendente sia assistito da un legale di comune gradimento (“L'ente, nella tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti del dipendente per fatti e/o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio è all'adempimento dei compiti d'ufficio assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interesse, ogni onere di difesa fin dall'apertura del procedimento e per tutti i gradi del giudizio, facendo assistere il dipendente da un legale”).
La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 8750/2009, si limita a chiarire che il dipendente può agire sia per ottenere l'assunzione diretta del patrocinio che per il pagamento delle spese richieste dal proprio difensore all'esito del procedimento penale e richiama la sopra citata Cass., Sez. Un., 29.05.2009, n. 12719.
La sentenza del TAR Veneto n. 1505/1999 si riferisce ad ipotesi in cui l'Amministrazione non abbia espresso l'assenso circa la scelta del difensore, ma non al caso in cui essa Amministrazione non abbia avuto conoscenza della pendenza del processo.
Dal mancato coinvolgimento iniziale del Comune resistente, in conclusione, deriva l’infondatezza della domanda per insussistenza del diritto al rimborso.


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Limiti dei ricavi derivanti dalla vendita di prodotti non provenienti dalla propria azienda


Risoluzione n. 81039 del 22 marzo 2016 - D. Lgs. 18 maggio 2001, n. 228 – Applicazione limiti dell’articolo 4 – Quesito
Lunedì, 18 Aprile 2016

La risoluzione n. 81039 del 22 marzo 2016 reca precisazioni sulla corretta interpretazione della disposizione contenuta nell’ art.4 del D.Lgs n. 228 del 2001, che rinvia ai limiti dei ricavi derivanti dalla vendita di prodotti non provenienti dalla propria azienda, ossia 160.000 euro nel caso dell’imprenditore individuale e 4.000.000 nel caso delle società.

81039produttoriagricoli.pdf
Min. Svil. Econ.

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