CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 25 febbraio 2019, n.8315MASSIMA
In
tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone,
l’esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra: A)
l’illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art.
10, comma 2, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei
limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in
materia; B) il reato di cui all’art. 659 cod. pen., comma 1, qualora il
mestiere o l’attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di
esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la
pubblica quiete; C) il reato di cui all’art. 659 cod. pen., comma 2,
qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni
della Autorità che regolano l’esercizio del mestiere o della attività,
diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore
stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995.
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CASUS DECISUS
La
Corte d’appello di Bologna, in parziale riforma dell’appellata sentenza
del 23 luglio 2015 del Tribunale di Modena, confermava la condanna a
carico dei gestori di un ristorante per i reati di cui agli artt. 388 e
659 cod. pen. perché, da un lato, non ottemperavano all’esecuzione del
provvedimento emesso dal giudice civile che intimava loro di non
svolgere, nello spazio adibito a parcheggio e nel fondo di loro
proprietà di pertinenza del ristorante, attività comportanti un aumento
del livello di rumorosità; per altro verso, inducevano lo svolgimento di
attività rumorose, consentendo il transito ed il parcheggio, nella
medesima area, di numerosi mezzi pesanti in orario anche serale e in
giorni festivi di chiusura del ristorante, con produzione di elevato
inquinamento acustico, tale da disturbare le occupazioni ed il riposo
delle persone, omettendo altresì di predisporre idonei accorgimenti atti
a limitare la rumorosità. Gli imputati, pertanto, ricorrevano in
Cassazione, denunciando violazione di legge penale e processuale in
relazione agli artt. 659 e 388 cod. pen. e L. 26 ottobre 1995, n. 447,
art. 10, comma 2, atteso che non si trattava di rumori molesti derivanti
da schiamazzi e urla provenienti dal ristorante, ma di fonti sonore
prodotte dalla circolazione di mezzi utilizzati dall’utenza del punto di
ristoro, integranti l’illecito amministrativo di cui al menzionato art.
10.
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ANNOTAZIONE
Quando
il disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone integra un
mero illecito amministrativo e quando reato? Questa la questione
analizzata dai giudici di legittimità nella sentenza in epigrafe.
Nell’occasione la Corte evidenzia che l’illecito amministrativo di cui
alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, ha riguardo, da un
lato, alle sole emissioni sonore riguardanti l’esercizio di un’attività o
di un mestiere rumoroso; dall’altro lato, postula che sia registrato
soltanto il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati
dalle disposizioni normative in materia, dovendo ravvisarsi in tutti gli
altri casi il reato di cui all’art. 659 cod. pen., commi 1 o 2. Tanto
premesso e passando al caso di specie, gli imputati sono stati ritenuti
responsabili di avere determinato una situazione di inquinamento
acustico prodotto non nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente
fissa o mobile connessi ad un’attività o un mestiere rumoroso, bensì a
cagione delle emissioni sonore originate dagli autoarticolati dei
clienti del ristorante da loro gestito e che essi lasciavano
parcheggiare nell’area prospicente al locale, emissioni tali da arrecare
disturbo alla vita quotidiana ed al riposo di un numero indeterminato
di persone. Non è revocabile in dubbio, da un lato, che la gestione di
un ristorante non possa ritenersi di per sé integrare "un’attività o un
mestiere rumoroso"; dall’altro lato, che l’inquinamento acustico
conseguisse piuttosto dalla condotta dei gestori, i quali tolleravano
che i propri clienti provocassero rumori atti a disturbare le
occupazioni ed il riposo delle persone, gravando sui medesimi l’obbligo
giuridico di controllare, anche con ricorso allo ius excludendi o
all’autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non
sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e
della tranquillità pubblica. In definitiva, la condotta degli imputati
non può che avere rilevanza penale ex art. 659 c.p.
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TESTO DELLA SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 25 febbraio 2019, n.8315 - Pres. Paoloni – est. Bassi
Ritenuto in fatto
1. Con il
provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Bologna, in parziale riforma
dell’appellata sentenza del 23 luglio 2015 del Tribunale di Modena,
riconosciuta nei confronti di entrambi gli imputati R.E. e R.C. la
continuazione fra i fatti sub iudice e quelli oggetto della sentenza della
Corte d’appello di Bologna del 25 settembre 2009, ha rideterminato la pena
complessivamente inflitta, con revoca della già concessa sospensione
condizionale della pena e condanna alla rifusione delle spese sostenute nel
grado dalla parte civile.
1.1. Giova
precisare che i R. sono imputati dei reati di cui agli artt. 388 e 659 cod.
pen. perché, quali gestori di un ristorante, da un lato, non ottemperavano
all’esecuzione del provvedimento emesso dal giudice civile che intimava loro di
non svolgere, nello spazio adibito a parcheggio e nel fondo di loro proprietà
di pertinenza del ristorante, attività comportanti un aumento del livello di
rumorosità; per altro verso, inducevano lo svolgimento di attività rumorose,
consentendo il transito ed il parcheggio, nella medesima area, di numerosi
mezzi pesanti in orario anche serale e in giorni festivi di chiusura del
ristorante, con produzione di elevato inquinamento acustico, tale da disturbare
le occupazioni ed il riposo delle persone, omettendo altresì di predisporre
idonei accorgimenti atti a limitare la rumorosità.
2. Con atto a
firma del comune difensore di fiducia, R.E. e R.C. chiedono l’annullamento del
provvedimento per i motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp.
att. cod. proc. pen.:
2.1. violazione di
legge penale e processuale in relazione agli artt. 659 e 388 cod. pen. e L. 26
ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, per avere la Corte d’appello ritenuto
integrati i reati ascritti agli imputati sebbene, nei tredici sopralluoghi
effettuati nell’ottobre 2007, la rumorosità ambientale sia risultata assente o
scarsa e, a partire dal 2 febbraio 2011 (ultimo accesso dei carabinieri di
Spilamberto), non siano più state registrate emissioni potenzialmente idonee a
disturbare le occupazioni o il riposo di un numero indeterminato di persone,
essendo stata indicata a carico la sola segnalazione della persona offesa F.
portatrice di un interesse processuale personale. Per altro verso, denunciano
l’erroneo inquadramento giuridico della seconda contestazione, là dove si
trattava - non di rumori molesti derivanti da schiamazzi e urla provenienti dal
ristorante - ma di fonti sonore prodotte dalla circolazione di mezzi utilizzati
dall’utenza del punto di ristoro, integranti l’illecito amministrativo di cui
al menzionato art. 10;
2.2. violazione di
legge processuale in relazione all’art. 162-ter cod. pen. ed illogicità della
motivazione, per avere i Giudici di merito erroneamente omesso di riconoscere
la causa di estinzione del reato conseguente alla riparazione o al risarcimento
del danno. Evidenziano che, per giurisprudenza costante, detta causa è riconoscibile
anche qualora il risarcimento non sia accettato dalla persona offesa - come
appunto nella specie, giusta l’offerta banco iudicis -, allorché il giudice
riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo. D’altra parte,
rimarcano come l’impossibilità di monetizzare il danno alla salute rilevata
dalla Corte territoriale si ponga decisamente in contrasto con la
giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno, essendo - ad
ogni modo - il danno alla salute derivante dalle immissioni illecite già stato
monetizzato nella sentenza del Tribunale di Modena;
2.3. violazione di
legge in relazione all’art. 168 cod. pen. e art. 597 cod. proc. pen. e vizio di
motivazione, per avere i giudici del gravame disposto la revoca della
sospensione condizionale della pena già concessa agli imputati in primo grado,
con una chiara violazione del divieto di reformatio in peius.
3. Nella memoria
depositata in cancelleria, il difensore delle parti civili F.R. e N. ha
invocato la declaratoria di inammissibilità o, comunque, il rigetto del ricorso
proposto dai R. .
Considerato in
diritto
1. I ricorsi sono
infondati e devono essere pertanto disattesi.
2. All’evidenza
destituito di fondamento è il primo motivo di ricorso col quale i ricorrenti
lamentano, da un lato, l’erronea ricostruzione della vicenda sotto il profilo
materiale e temporale; dall’altro lato, lo scorretto inquadramento giuridico
nella specie, dovendo il fatto di cui all’art. 659 cod. pen. essere - a loro
avviso - sussunto sotto l’illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre
1995, n. 447, art. 10, comma 2.
2.1. La prima
doglianza costituisce mera riproduzione di una deduzione già mossa in appello
cui la Corte territoriale ha dato ineccepibile risposta, illustrando
attentamente e con considerazioni scevre da irragionevolezza le ragioni per le
quali gli imputati si debbano ritenere responsabili di emissioni idonee a
disturbare le occupazioni ed il riposo di un numero indeterminato di persone,
soprattutto in orario notturno, protrattesi oltre la data dell’ultimo controllo
della P.G. del 2 febbraio 2011 (v. pagine 5 - 7 della sentenza impugnata).
3. Quanto al
secondo rilievo, va evidenziato come il tema della derubricazione della
fattispecie non fosse stato dedotto con l’atto d’appello e risulta, ad ogni
modo, infondato.
3.1. La L. 26
ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, (come modificato dal D.Lgs. 17 febbraio
2017, n. 42, art. 13) dispone che 'Chiunque, nell’esercizio o nell’impiego
di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore, supera i valori limite di
cui all’art. 2, comma 1, fissati ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), è
punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 1.000 Euro
a 10.000 Euro'.
Come questa Corte
ha avuto modo di chiarire, in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo
delle persone, l’esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra:
A) l’illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10,
comma 2, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di
emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; B) il
reato di cui all’art. 659 cod. pen., comma 1, qualora il mestiere o l’attività
vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in
essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; C) il reato di cui
all’art. 659 cod. pen., comma 2, qualora siano violate specifiche disposizioni
di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l’esercizio del mestiere o
della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore
stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995 (Sez.
3, n. 56430 del 18/07/2017, Vazzana, Rv. 273605).
3.2. Sulla scorta
del condivisibile principio di diritto testè riportato, l’illecito amministrativo
in oggetto ha riguardo, da un lato, alle sole emissioni sonore riguardanti
l’esercizio di un’attività o di un mestiere rumoroso; dall’altro lato, postula
che sia registrato soltanto il mero superamento dei limiti di emissione del
rumore fissati dalle disposizioni normative in materia, dovendo ravvisarsi in
tutti gli altri casi il reato di cui all’art. 659 cod. pen., commi 1 o 2.
3.3. Tanto
premesso e passando alla delibazione del caso di specie, a tenore della
contestazione di cui alla seconda imputazione - convalidata dalla ricostruzione
storico-fattuale compiuta dai giudici della cognizione -, i R. sono stati
ritenuti responsabili di avere determinato una situazione di inquinamento
acustico prodotto non nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o
mobile connessi ad un’attività o un mestiere rumoroso, bensì a cagione delle
emissioni sonore originate dagli autoarticolati dei clienti del ristorante da
loro gestito e che essi lasciavano parcheggiare nell’area prospicente al
locale, emissioni tali da arrecare disturbo alla vita quotidiana ed al riposo
di un numero indeterminato di persone.
Non è revocabile
in dubbio, da un lato, che la gestione di un ristorante non possa ritenersi di
per sé integrare 'un’attività o un mestiere rumoroso'; dall’altro
lato, che l’inquinamento acustico conseguisse piuttosto dalla condotta dei
gestori, i quali tolleravano che i propri clienti provocassero rumori atti a
disturbare le occupazioni ed il riposo delle persone, gravando sui medesimi
l’obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo ius excludendi o
all’autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in
condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della
tranquillità pubblica (ex plurimis Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, Gallo, Rv.
264501).
3.4. E ciò a
tacere della genericità della deduzione, là dove i ricorrenti non hanno
comunque indicato alcuna evidenza che, quand’anche si potesse ritenere
trattarsi di 'emissioni sonore riguardanti l’esercizio di un’attività o di
un mestiere rumoroso', esse si siano realizzate con il mero superamento
dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in
materia, sì da poter sussumere il fatto nell’illecito amministrativo di cui al
citato art. 10, comma 2.
4. Non coglie nel
segno il secondo motivo di doglianza, con cui il ricorrente si duole
dell’omesso riconoscimento della causa di estinzione del reato ex art. 162-ter
cod. pen. conseguente all’offerta di risarcimento del danno banco iudicis.
4.1. La Corte non
può non concordare con il ricorrente là dove ha censurato l’assunto del
Collegio del gravame circa la non monetizzabilità del danno alla salute dei
vicini (v. pagine 8 e 9 della sentenza impugnata).
È invero pacifico
che l’esposizione ad immissioni intollerabili possa determinare una lesione del
diritto della persona al riposo notturno ed alla vivibilità della propria
abitazione e dare conseguentemente luogo ad un danno alla salute, id est ad un
danno non patrimoniale certamente suscettibile di risarcimento (Sez. 3 civile,
n. 20927, del 16/10/2015, Rv. 637538).
4.2. Ciò
nondimeno, la conclusione cui è pervenuto il Giudice a quo là dove ha negato
l’operatività della causa estintiva del reato risulta ineccepibile alla luce
del rilevato omesso adempimento delle prescrizioni dettate dai provvedimenti
dell’A.G. e, dunque, della mancata eliminazione delle conseguenze dannose o
pericolose del reato che costituisce condicio sine qua non per l’accesso
all’istituto.
4.3. Non può
inoltre omettersi di porre in rilievo come la causa estintiva in parola
presupponga comunque che l’imputato abbia riparato interamente, entro il
termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo
grado, il danno cagionato dal reato mediante le restituzioni o il risarcimento.
Termine che non risulta osservato nella specie, dal momento che l’imputato ha
compiuto l’offerta banco iudicis della somma di 10.000 Euro alla parte civile
costituita (come dato conto in sentenza e nello stesso ricorso) soltanto in
data 10 novembre 2017, durante il giudizio di secondo grado e, dunque, del
tutto intempestivamente.
5. È
manifestamente infondato il terzo motivo, col quale il ricorrente attacca la
decisione in verifica nella parte in cui la Corte distrettuale ha revocato la
sospensione condizionale della pena già concessa dagli imputati in primo grado.
5.1. Mette conto
di porre in rilievo come la Corte d’appello abbia disposto la revoca della
sospensione condizionale riconosciuta ai ricorrenti in primo grado all’esito
del riconoscimento della continuazione fra i fatti sub iudice e quelli già
decisi con altra sentenza passata in giudicato.
L’adozione del
provvedimento oggetto di doglianza discende dunque, non dalla mera
rivalutazione dei medesimi fatti oggetto di delibazione in primo grado - nel
qual caso potrebbe in effetti venire in rilievo una violazione del divieto di
reformatio in peius -, ma dalla piana applicazione del disposto dell’art. 168
cod. pen. alla situazione, dissimile da quella valutata dal primo giudice,
conseguente dal riconoscimento dell’istituto della continuazione.
5.2. Va dunque
ribadito il condivisibile principio di diritto alla stregua del quale il
divieto per il giudice d’appello di revocare i benefici concessi in primo grado
va inteso soltanto come semplice limitazione del potere del giudice di secondo
grado di valutare discrezionalmente l’opportunità di mantenere fermi i benefici
stessi, ma sempre sul presupposto che persistano le condizioni stabilite dalla
legge. Ne deriva che qualora la sospensione condizionale della pena risulti
incompatibile 'ope iuris' con la nuova situazione giuridica
(applicazione della continuazione non ritenuta in primo grado) determinatasi
nel giudizio di impugnazione il divieto della reformatio in peius non è
applicabile (Sez. 2, n. 565 del 21/10/1985 - dep. 1986, Pastore, Rv. 171604).
5. Dal rigetto dei
ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del
procedimento.
5.1. Dal rigetto
del ricorso consegue altresì la condanna dei R. alla rifusione delle spese di
rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalle costituite parti civili F.R.
e F.N. , spese che - avendo riguardo alle tariffe professionali ed all’impegno
professionale profuso, nonché tenuto conto della espletata nei confronti di due
parti processuali - si ritiene equo liquidare in complessivi Euro
quattromilaseicento oltre accessori di legge.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi
e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed altresì alla
rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalle
costituite parti civili F.R. e F.N. , spese che liquida in complessivi Euro
quattromilaseicento oltre accessori di legge.
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