venerdì 30 maggio 2014

Mancanca di casco protettivo.Non c'è ritardo nella contestazione anche se effettuata poco dopo l'infrazione

Un soggetto viene sanzionato per violazione all'art. 171, comma 2, per avere circolato alla guida di veicolo sprovvisto di casco protettivo.La sanzione però viene contestata nove minuti dopo dai carabinieri.
Per il Tribunale manca la prova chiara che il veicolo avesse commesso l'infrazione in quanto non è stato fermato immantinente.

La Cassazione, invece, cassa la sentenza impugnata e rinvia al tribunale perchè la vespa 125 procedeva a forte velocità, impedendo agli agenti l'immediata contestazione.
Mario Serio
Riproduzione Riservata
Qui la sentenza

mercoledì 28 maggio 2014

Nuovo progetto UNI di “Qualificazione dei tecnici per la ricostruzione e l’analisi degli incidenti stradali”


L'Ente Nazionale Italiano di Unificazione sta preparando un nuovo progetto U71002120 di norma UNI dal titolo“Qualificazione dei tecnici per la ricostruzione e l’analisi degli incidenti stradali” che revisiona e aggiorna nei contenuti la precedente norma UNI 11294 del 2008.

Per quanto mi riguarda, spero non sia come la "fantozziana" UNI 11472 (rappresentata nella foto), utile sotto certi aspetti ma ridicola e scontata, a mio avviso, in alcune sfumature.

Per fare un esempio, trovo quantomeno bizzarra l'indicazione data dalle norme UNI 11472 circa la tecnica del rilevamento basata sulla segnaletica orizzontale.

Mario Serio
Riproduzione Riservata

l’UNI sta preparando un progetto U71002120 di norma UNI per il momento nella fase di inchiesta pubblica preliminare dal titolo“Qualificazione dei tecnici per la ricostruzione e l’analisi degli incidenti stradali” che revisiona e aggiorna nei contenuti la precedente norma UNI 11294 del 2008) - See more at: http://www.claudiopace.it/uni-11472-rilievo-incidenti-stradali/#sthash.QimhZqTg.dpuf

Prefettura di palermo:Modifiche e Direttive al calendario 2014 sulle limitazioni alla circolazione stradale fuorii dai centri abitati degli autoveicoli e dei complessi di autoveicoli per il trasporto di cose di massa complessiva autorizzata superiore a 7,5 t nei giorni festivi e negli altri particolari giorni dell'anno 2014.

 Prot. 15/Cat Circo 2014

martedì 27 maggio 2014

Bar in concessione:Illegittima la cessazione immediata dell'attività

N. 02457/2014REG.PROV.COLL.
N. 07183/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7183 del 2013, proposto dal Comune di Caserta, rappresentato e difeso dall'avv. Gennaro Cicala, con domicilio eletto presso Anna Ricciardi in Roma, p.zza Capri 20, int. 19;
contro
Angelica Real Sito S.c.a.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. Giovanna Cacciapuoti e Gianni Scarpato, con domicilio eletto presso Fabrizio Carmina in Roma, piazza Prati degli Strozzi, 26;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. Campania – Napoli, Sezione III, n. 2227/2013, resa tra le parti, concernente cessazione attività di pubblico esercizio di somministrazione bevande.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della Angelica Real Sito S.c.a.r.l.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1° aprile 2014 il Cons. Nicola Gaviano e uditi per le parti l’avv. Luca Mazzeo, su delega dell’avv. Giovanna Cacciapuoti, ed altresì l’avv. Gianni Scarpato;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
La soc. coop. a r. l. Angelica Real Sito, concessionaria del servizio di caffetteria presso il Belvedere di San Leucio (CE), a seguito di procedura di gara indetta dal Comune di Caserta e sfociata in un verbale di aggiudicazione del 24.8.2009, impugnava con ricorso al T.A.R. per la Campania il provvedimento del Dirigente del Settore attività produttive del predetto Ente n. 12415 del 16.2.2012, con il quale era stata ordinata la cessazione immediata dell'attività di pubblico esercizio di somministrazione di bevande da essa gestita. Contestualmente, veniva gravato anche il prodromico verbale di accertamento del 7.2.2012 con il quale la locale Polizia municipale le aveva contestato l’esercizio della somministrazione di bevande presso il detto complesso senza la prescritta autorizzazione comunale, in violazione dell’art. 3 della legge n. 287/1991.
La ricorrente spiegava altresì una domanda di risarcimento dei danni sofferti in ragione della disposta cessazione dell’attività.
Resisteva all’impugnativa il Comune di Caserta.
Il Tribunale adìto accoglieva la domanda di sospensione dei provvedimenti impugnati con ordinanza cautelare dell’8.6.2012.
Poco dopo, con verbale di accertamento della Polizia municipale del 20.7.2012, veniva nuovamente contestato alla ricorrente l’esercizio senza titolo dell’attività di somministrazione in controversia, da essa ripresa in forza della predetta ordinanza cautelare, irrogandole una sanzione amministrativa di € 5.000 (e questo malgrado l’esercente avesse esibito quale proprio titolo legittimante una copia della stessa ordinanza).
Il legale della ricorrente diffidava indi il Comune dall’intraprendere ulteriori azioni interdittive in contrasto con l’indicata pronuncia cautelare.
Il Tribunale adìto, all’esito, con la sentenza n. 2227/2013 in epigrafe, accoglieva il ricorso, annullando i provvedimenti impugnati.
Ciò sul rilievo di fondo che il Comune, affidando a suo tempo all’aggiudicataria, con verbale del 28 ottobre 2009, i locali del servizio di caffetteria per cui è causa, e questo dopo aver preteso in sede di gara che i concorrenti si dimostrassero “in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione”, aveva compiuto così un atto integrante un equipollente della formale autorizzazione amministrativa all’esercizio della caffetteria, titolo del quale anni dopo, con gli atti impugnati, contraddittoriamente aveva perciò contestato la carenza.
Anche la domanda risarcitoria della ricorrente trovava accoglimento.
La società aveva denunziato che la condotta tenuta dall’Ente mediante l’impugnata ordinanza di cessazione dell’attività, come pure il suo comportamento successivo all’ordinanza cautelare n. 814/2012, parimenti lesivo, le avevano arrecato rilevanti danni economici, impedendole di svolgere per un intero anno l’attività per cui è causa. E per tale ragione l’Amministrazione veniva condannata alla corresponsione alla società, a titolo di risarcimento dei danni, della somma di € 32.357,00, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal 7.2.2012 all’effettivo soddisfo.
Ne seguiva la proposizione del presente appello alla Sezione ad opera del Comune soccombente, che contestava gli argomenti fondanti la decisione del Giudice locale tanto nella parte di accoglimento dell’avversa domanda impugnatoria quanto rispetto a quella risarcitoria.
L’originaria ricorrente si costituiva in giudizio in resistenza all’appello difendendo la correttezza della pronuncia del T.A.R. e controdeducendo alle censure dell’Ente appellante; venivano inoltre riproposti i motivi del ricorso di prime cure finiti assorbiti.
La Sezione, con ordinanza del 12-13 novembre 2013, accoglieva la domanda cautelare proposta dal Comune.
Con successiva memoria l’appellata ribadiva e sviluppava ulteriormente le proprie obiezioni ai rilievi dell’Amministrazione.
Alla pubblica udienza del 1° aprile 2014 la causa è stata trattenuta in decisione.
L’appello è fondato solo per quanto attiene alla misura del risarcimento dovuto dall’Ente appellante.
1 Per una più lineare esposizione della materia del contendere è utile richiamare preliminarmente le principali precisazioni operate in punto di fatto dal primo Giudice, rimaste ex adverso incontestate.
1a Ai fini della partecipazione alla gara per l’affidamento della gestione del servizio di caffetteria presso il Belvedere la ricorrente era stata richiesta di dichiarare e documentare il possesso dei requisiti di capacità economica e tecnica prescritti dal capitolato, tra i quali quello dell’essere “in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione” (capitolato, Sez. III, punto III.2.3.). Ed era stata giudicata dal Comune effettivamente in possesso di tali requisiti, tanto da risultare aggiudicataria.
1b Dopo l’aggiudicazione della concessione, e nelle more della stipula del relativo contratto, l’Amministrazione comunale ed il legale rappresentante della società, in data 28.10.2009, sottoscrivevano un processo verbale di consegna dei locali interessati (vistato dal dirigente responsabile del procedimento di gara). Tanto sull’impulso dell’esigenza “urgente ed indifferibile di garantire il servizio caffetteria presso il complesso monumentale Belvedere di S. Leucio”, e sulla premessa che “l’aggiudicataria del servizio si è dichiarata disponibile (…) ad iniziare l’attività di gestione”.
La gestione del servizio da parte della ricorrente prendeva dunque avvio dalla data del citato verbale. E mai sarebbe stata contestata alla società la carenza dell’autorizzazione amministrativa prima dell’adozione degli atti impugnati, sopraggiunti solo ad oltre due anni di distanza.
1c Sulla base di questi elementi il T.A.R. ha ritenuto, come si è anticipato, che il Comune, affidando concretamente all’aggiudicataria i locali del servizio di caffetteria, dopo aver preteso in occasione della gara che i concorrenti si dimostrassero “in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione”, avesse con ciò accordato implicitamente alla società anche l’autorizzazione amministrativa all’esercizio della caffetteria, titolo del quale anni dopo aveva invece contestato la carenza.
2a Con il presente appello il Comune nega che un’autorizzazione fosse stata a suo tempo implicitamente conferita.
L’Amministrazione mette in discussione l’esistenza del necessario collegamento biunivoco ed esclusivo che sarebbe dovuto esistere tra il controverso atto implicito ed il suo atto presupponente, e che avrebbe dovuto configurare il primo come conseguenza necessitata del secondo.
All’uopo viene fatto notare che il bando della gara a monte stabiliva espressamente, all’art. 2, lett. I, che “l’aggiudicatario gestirà la caffetteria … munendosi di tutte le autorizzazioni, i permessi, nulla-osta etc., ed osservando le prescrizioni di legge”; e che l’art. 8, analogamente, disponeva che “al fine di esercitare il servizio di gestione della caffetteria … il concessionario avrà l’onere di acquisire le autorizzazioni amministrative necessarie allo svolgimento delle attività previste nella concessione.” Prescrizioni che non avrebbero permesso di ravvisare nella condotta tenuta dall’Amministrazione l’implicito conferimento di un’autorizzazione.
2b La Sezione, sul punto, non può però non aderire all’avviso del primo Giudice.
Se è vero, infatti, che la lex specialis della procedura a monte indubbiamente richiamava i concorrenti alla necessità di possedere tutte le autorizzazioni, i permessi, nulla-osta etc., e di osservare le prescrizioni di legge, attinenti alle attività previste nella concessione, è altrettanto vero, tuttavia, che le concorrenti erano state richieste dalla stessa legge di gara di dimostrare di essere già in possesso dei requisiti per ottenere l’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande e le necessarie iscrizioni alla Camera di Commercio, e quant’altro necessario per poter esercitare l’oggetto della concessione. Requisiti la cui titolarità da parte della ditta aggiudicataria avrebbe potuto reputarsi quindi già accertata.
Pur tenendosi conto, pertanto, degli elementi che l’appello comunale ha segnalato, i contenuti della lex specialis non cessano di delineare un quadro complessivo che sotto il profilo in rilievo si presenta, come minimo, equivoco ed ingannatorio per il privato. Laddove del tutto univoco è poi il comportamento successivo tenuto dall’Amministrazione, che, come si è detto, nelle more della stipula del contratto con l’attuale appellata ha preso l’iniziativa di addivenire senz’altro, il 28.10.2009, alla consegna dei locali, in nome dell’esigenza “urgente ed indifferibile di garantire il servizio caffetteria presso il complesso monumentale” del Belvedere, sì da determinare l’immediato avvio dell’attività di somministrazione.
E poiché, come la stessa Amministrazione conviene, ai relativi fini occorreva che la società fosse munita anche dell’autorizzazione comunale alla somministrazione ai sensi della legge n. 287/1991, non può non ritenersi implicito nella condotta complessiva del Comune, debitamente interpretata secondo buona fede, anche il conferimento del relativo titolo (del quale erano stati del resto già accertati i requisiti), come condivisibilmente deciso dal T.A.R..
2c Le doglianze dell’originaria ricorrente risultano fondate anche sotto un ulteriore e pur complementare profilo, assorbito dal Tribunale ma in questa sede riproposto: quello della violazione del legittimo affidamento che la vicenda nel suo insieme occorsa aveva consolidato nel privato.
A quanto testé esposto deve infatti aggiungersi, da questa angolazione, che l’attività della ricorrente, avviata subito dopo la redazione del verbale più volte menzionato, suggellante il comportamento concludente dell’Amministrazione, si era indi dipanata lungo l’arco di più di due anni durante i quali erano esistiti continui rapporti tra le parti, senza che l’Ente segnalasse mai la necessità, da parte della società, di qualsivoglia ulteriore autorizzazione, assenso o segnalazione.
2d Le ragioni fin qui esposte esigono, pertanto, la conferma dell’accoglimento del ricorso di prime cure nella sua componente impugnatoria.
3 Occorre ora procedere all’esame delle contestazioni che il corrente appello muove al capo della pronuncia in epigrafe recante la condanna del Comune al risarcimento del danno.
3a L’appellante si richiama all’acquisizione giurisprudenziale secondo la quale non esiste un’automatica correlazione tra accertamento dell’illegittimità di un provvedimento amministrativo ed insorgenza del diritto al risarcimento, occorrendo per questo secondo, da un lato, la concorrenza dei presupposti indicati dall’art. 2043 cod.civ., e dall’altro una valutazione della specifica natura della causa di illegittimità riscontrata e della sua incidenza sulla spettanza all’amministrato del relativo c.d. bene della vita. A quest’ultimo riguardo viene precisato che l’accertamento del vizio dell’eccesso di potere non comporta normalmente un esaurimento della potestà dell’Amministrazione, la quale può quindi ben rinnovare il proprio procedimento: onde l’annullamento di un suo atto per tale vizio non implicherebbe un accertamento della spettanza all’interessato dello specifico vantaggio da questi perseguito.
Osserva il Collegio, tuttavia, che il Giudice di prime cure ha svolto una puntuale motivazione in merito all’esistenza delle condizioni per l’insorgenza della contestata obbligazione risarcitoria (cfr. le pagg. 12-18 della pronuncia).
Il Tribunale ha posto in evidenza, in particolare, che nella vicenda era emersa in modo chiaro -in pratica, con i connotati del dolo intenzionale- la consapevole volontà del Comune di impedire alla ricorrente l’esercizio dell’attività per cui è causa (questo vieppiù per il periodo successivo all’ordinanza cautelare concessa alla società l’8.6.2012, ma dall’Amministrazione tenuta in non cale). E che la società per tale via era stata illegittimamente incisa nel proprio diritto di esercitare il servizio di caffetteria presso il Belvedere.
Va poi rammentato che i provvedimenti impugnati, all’esito del corretto scrutinio condotto dal T.A.R., erano risultati affetti, oltre che da contraddittorietà e sviamento, anche e soprattutto da carenza dei presupposti, con la conseguenza che la relativa azione interdittiva del Comune risultava avere illegittimamente sacrificato il diritto in godimento del privato procurandogli un vero e proprio danno ingiusto.
Infine, non risulta controvertibile l’esistenza del nesso di causalità tra gli stessi atti impugnati ed il danno così generato all’appellata, la cui perdita economica da forzata inattività integra una diretta conseguenza della preclusione illegittimamente impostale.
Per quanto precede, la Sezione deve confermare la sentenza di primo grado anche in ordine all’esistenza delle condizioni per la condanna del Comune di Caserta al risarcimento dei danni.
3b Rimane da intrattenersi sulla misura del danno che l’Amministrazione deve essere chiamata a risarcire alla società: ed è sotto questo aspetto che, come si è anticipato, l’appello è suscettibile di un parziale accoglimento.
3c Il percorso logico del Tribunale è stato, sul piano in esame, il seguente.
Il T.A.R. è partito dalla considerazione che l’Amministrazione aveva arrecato rilevanti danni economici alla società, impedendole di svolgere per un intero anno l’attività per cui è causa.
Ha indi osservato:
- che la ricorrente, al fine di quantificare i propri mancati incassi nel periodo in rilievo, aveva prodotto una dichiarazione del proprio legale rappresentante, corredata da un prospetto delle pertinenti fatture, relativamente ai tre esercizi antecedenti, dalla quale si desumeva che negli anni 2009 – 2011 la società aveva conseguito incassi per il servizio caffetteria pari ad € 81.044,73, ed incassi dal servizio banqueting (parimenti compreso nell’oggetto della gara aggiudicatale) per un importo di € 113.099,62, per un totale di € 194.144,35;
- che tale complessivo ammontare, diviso per i tre anni di riferimento, conduceva ad individuare un incasso medio annuo pari ad € 64.714;
- che secondo la società tale importo avrebbe rappresentato la perdita economica da essa subita per l’illegittima inibizione dello svolgimento della sua attività per un anno;
- che, sempre secondo l’attuale appellata, il suo danno sarebbe coinciso con i suoi mancati incassi, poiché essa aveva dovuto comunque corrispondere la retribuzione ai dipendenti ed affrontare le ulteriori spese di gestione anche nel periodo interessato;
- che la ricorrente non aveva però offerto in proposito alcun principio di prova (“quale ad esempio un prospetto di buste paga raffiguranti lo stipendio comunque erogato ai dipendenti”): donde la necessità di applicare per la quantificazione del danno un criterio equitativo, che conduceva alla conclusione del riconoscimento, a titolo di ristoro dei danni subiti, di una somma pari al 50% dei predetti mancati incassi, vale a dire dell’importo di € 32.357,00.
3d Al cospetto di questo iter logico l’appellante oppone, in sostanza, che il primo Giudice avrebbe quantificato il pregiudizio sofferto dall’appellata sulla base di presunzioni semplici senza, però, aver fornito una giustificazione logica del ricorso da esso fatto a tale mezzo, e, soprattutto, senza che l’apprezzamento del T.A.R. risultasse assistito dai requisiti legali di gravità, precisione e concordanza.
3e La Sezione ritiene che siffatte deduzioni giustifichino effettivamente una revisione al ribasso della liquidazione equitativa del danno effettuata in primo grado.
Tanto tenuto conto, più precisamente, per un verso, dell’obiettiva modestia degli elementi probatori forniti dalla società per la quantificazione dei propri incassi del triennio precedente (soprattutto sul versante delle attività di banqueting); per l’altro, della necessità di dedurre dagli incassi, oltre che le spese di personale e gli altri oneri fissi, anche gli oneri per l’acquisto della materia prima che sarebbe stata impiegata per l’erogazione dei servizi.
Per la ragione indicata, il danno riconoscibile deve essere equitativamente ridotto alla soglia di ventimila euro di sorte capitale, cui dovranno aggiungersi interessi legali e rivalutazione monetaria con le modalità già fissate dalla sentenza in epigrafe.
4 In conclusione, con la rettifica relativa alla misura del risarcimento dovuto tra le parti, la sentenza oggetto d’appello deve trovare conferma.
Le spese del giudizio, tenuto conto dell’esito di questo grado, sono liquidate dal seguente dispositivo secondo la soccombenza nella misura del 50 % a carico del Comune, e compensate per la metà residua.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe, lo accoglie con esclusivo riguardo alla misura del risarcimento dovuto dall’Ente appellante, rideterminata come da motivazione; respinge l’appello sotto ogni altro profilo.
Condanna il Comune di Caserta al rimborso all’appellata del 50 % delle spese processuali del presente grado, liquidate in euro duemila oltre gli accessori di legge; compensa le spese per il 50 % residuo.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 1° aprile 2014 con l'intervento dei magistrati:
Mario Luigi Torsello, Presidente
Vito Poli, Consigliere
Fulvio Rocco, Consigliere
Doris Durante, Consigliere
Nicola Gaviano, Consigliere, Estensore




L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE










DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 13/05/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Per le opere eseguite abusive che sorgono su area vincolata non occorre che il provvedimento di demolizione sia preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.

N. 02380/2014REG.PROV.COLL.
N. 04124/2005 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello nr. 4124 del 2005, proposto dai signori Margherita MANCO, Maria Grazia CERRONE, Anna CERRONE, Giovanni CERRONE e Gennaro CERRONE, in proprio e quali procuratori generali di Adriana CERRONE, rappresentati e difesi dall’avv. prof. Giuseppe Abbamonte, con domicilio eletto presso lo Studio Zimatore - Abbamonte in Roma, via G.G. Porro, 8,
contro
il COMUNE DI NAPOLI, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giuseppe Dardo, Anna Pulcini, Bruno Crimaldi, Annalisa Cuomo, Giacomo Pizza, Barbara Accattatis Chalons d’Oranges, Bruno Ricci, Anna Ivana Furnari, Gabriele Romano, Eleonora Carpentieri, Edoardo Barone, Giuseppe Tarallo e Fabio Maria Ferrari, con domicilio eletto presso l’avv. Gian Marco Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18,
per la riforma,
previa sospensione dell’esecuzione,
della sentenza nr. 8774/04, depositata in data 17 maggio 2004, emessa dalla Sezione Quarta del T.A.R. della Campania, sul ricorso nr. 12928/98 proposto dalla signora Margherita Manco ed altri contro il Comune di Napoli, teso all’annullamento: a) dell’ordinanza del Sindaco del Comune di Napoli prot. 993/98 del 30 luglio 1998 di esecuzione ad horas della demolizione edilizia e dell’ordinanza di sospensione lavori nr. 953 del 29 luglio 1998 notificata il 14 settembre 1998; b) dell’ordinanza-disposizione dirigenziale nr. 1294 del 20 novembre 2001 del Dirigente Tecnico del Comune di Napoli di recupero delle somme occorse per l’eseguita demolizione delle opere site in Napoli alla via A. Astroni, 301; c) della delibera di Giunta Municipale nr. 5275 del 30 dicembre 1998, di regolarizzazione dell’affidamento dei lavori già eseguiti, della relazione del Servizio Edilizia Privata del 12 aprile 1999 contenente costo finale e certificato di regolare esecuzione dei lavori di demolizione; d) di ogni altro atto preordinato, connesso e consequenziale comunque lesivo degli interessi dei ricorrenti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Napoli;
Viste le memorie prodotte dagli appellanti (in data 18 giugno 2013) e dal Comune di Napoli (in date 20 giugno 2005 e 22 gennaio 2013) a sostegno delle rispettive difese;
Vista l’ordinanza di questa Sezione nr. 2937 del 21 giugno 2005, con la quale è stata parzialmente accolta la domanda di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, all’udienza pubblica del giorno 15 aprile 2014, il Consigliere Raffaele Greco;
Uditi l’avv. Luigi M. D’Angiolella, su delega dell’avv. Abbamonte, per gli appellanti e l’avv. Gabriele Pafundi, su delega dell’avv. Ricci, per il Comune di Napoli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
I signori Margherita Manco, Maria Grazia Cerrone, Anna Cerrone, Gennaro Cerrone e Giovanni Cerrone, anche quali procuratori generali della signora Adriana Cerrone, hanno impugnato, chiedendone la riforma previa sospensione dell’esecuzione, la sentenza con la quale il T.A.R. della Campania ha respinto il ricorso da loro proposto, nella qualità di eredi legittimi del signor Antonio Cerrone, avverso i provvedimenti con cui il Comune di Napoli ha disposto la demolizione ad horas di opere edili realizzate dal predetto signor Antonio Cerrone su un’area di sua proprietà, ha ingiunto la sospensione dei lavori e successivamente ha disposto e ingiunto il recupero delle spese sostenute per l’eseguita demolizione.
L’appello è stato affidato ai seguenti motivi:
1) sviamento di potere (essendo l’intervento demolitorio eseguito dal Comune una ritorsione per un precedente giudizio vittoriosamente intentato nei suoi confronti dinanzi al Tribunale di Napoli);
2) error in judicando; violazione dell’art. 7 della legge 7 agosto 1990, nr. 241; eccesso di potere; travisamento dei fatti e violazione dell’art. 4 della legge 28 febbraio 1985, nr. 47; violazione dell’art. 32 della legge 17 agosto 1942, nr. 1150, e s.m.i. (in relazione alle anomale modalità della notificazione dell’ingiunzione a demolire, avvenuta dopo l’esecuzione dell’intervento di riduzione in pristino);
3) error in judicando per mancata valutazione del principio del bilanciamento degli interessi (in relazione alla mancata ponderazione delle ragioni per cui era stato eseguito l’intervento edilizio in contestazione, legate alla necessità di contenimento di fenomeni franosi, nonché alla reiezione delle censure articolate avverso le modalità di affidamento ed esecuzione dell’intervento demolitorio).
Inoltre, parte appellante ha riproposto come segue i motivi d’impugnazione di primo grado non esaminati dal T.A.R.:
- violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 7 della legge nr. 241 del 1990; difetto di motivazione;
- violazione e falsa applicazione della legge nr. 47 del 1985 e successive modifiche; eccesso di potere; errore sui presupposti e travisamento dei fatti; contraddittorietà; mancata comparazione tra l’interesse pubblico e quello privato; illogicità manifesta; violazione dell’art. 97 Cost.;
- violazione dell’art. 27 della legge nr. 47 del 1985; illegittimità della delibera della G.M.; incompetenza assoluta della Giunta a sanare debiti fuori bilancio; illegittimità dell’affidamento dell’incarico a trattativa privata; eccesso di potere; sviamento di potere; violazione dei principi di buona amministrazione (art. 97 Cost.).
Si è costituito il Comune di Napoli, replicando analiticamente alle doglianze di parte appellante e chiedendo la reiezione dell’appello e dell’istanza cautelare.
All’esito della camera di consiglio del 21 giugno 2005, questa Sezione ha accolto in parte l’istanza di sospensiva formulata in una col ricorso in appello.
Di poi, le parti hanno affidato a memorie l’ulteriore svolgimento delle rispettive tesi.
All’udienza del 15 aprile 2014, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Preliminarmente, va dato atto che nella memoria di parte appellante depositata in data 18 giugno 2013 si fa menzione del decesso di uno degli istanti, la signora Margherita Manco, ma che tale comunicazione non è idonea a produrre alcun effetto sul presente giudizio.
Infatti, l’interruzione del processo a causa di uno degli eventi previsti dall’art. 300 cod. proc. civ. consegue solo ad un atto del procuratore quale dominus litis, atto che postula la valutazione, riferita all’oggetto della causa, dell’opportunità, nell’interesse delle parti stesse o dei suoi eredi, in caso di morte o di perdita di capacità della parte, di comunicare o notificare l’evento interruttivo alle altre parti, senza che detta comunicazione o notificazione ammetta equipollenti (cfr. Cass. civ., sez. II, 22 febbraio 2001, nr. 2599).
Ne consegue che non è idonea a determinare l’effetto interruttivo la notizia dell’evento riportata in semplice memoria (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 3 settembre 2001, nr. 4634).
2. Ancora in via preliminare, va dichiarata l’inutilizzabilità della perizia di parte depositata dagli istanti nel presente grado, con la quale si vorrebbe dimostrare la sanabilità degli abusi edilizi per cui è causa: infatti, tale perizia costituisce nuova prova non consentita dal divieto di cui all’art. 104, comma 2, cod. proc. amm. (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 2014, nr. 486; Cons. Stato, sez. V, 31 ottobre 2013, nr. 5251; Cons. Stato, sez. IV, 28 maggio 2012, nr. 3137).
3. Passando al merito del giudizio, sono controversi i provvedimenti adottati dal Comune di Napoli in ordine ad opere edili (una pavimentazione, una tettoia suddivisa in quattro ambienti, impianti idrico ed elettrico, abbeveratoi per cavalli, tre terrazzamenti in cemento armato e un impianto di smaltimento di acque piovane) asseritamente abusive realizzate dal signor Antonio Cerrone, dante causa degli odierni appellanti, su un terreno agricolo di sua proprietà.
Con la sentenza oggetto dell’odierno gravame, il T.A.R. della Campania ha respinto il ricorso proposto dagli eredi del sig. Cerrone avverso l’ordinanza di demolizione ad horas delle opere suindicate, nonché avverso l’ordine di sospensione dell’intervento ed i successivi provvedimenti, afferenti alla materiale esecuzione dell’intervento di riduzione in pristino ed alla richiesta di recupero delle spese sostenute.
4. Tutto ciò premesso, l’appello è infondato e va conseguentemente respinto.
5. Innanzi tutto, va respinto il primo mezzo, col quale gli istanti reiterano l’affermazione secondo cui l’intervento demolitorio per cui è causa sarebbe affetto da sviamento di potere, essendo stato posto in essere dal Comune al solo fine di attuare una “ritorsione” nei confronti di chi, in precedenza, aveva vittoriosamente convenuto in giudizio l’Amministrazione comunale dinanzi al Tribunale di Napoli.
E, difatti, se è vero che i pregressi rapporti tra il dante causa degli odierni istanti ed il Comune di Napoli erano stati connotati da una sentenza con la quale il giudice ordinario aveva ordinato al Comune l’esecuzione di interventi urgenti di messa in sicurezza a seguito degli eventi franosi registratisi in conseguenza di fenomeni atmosferici, resta generica e del tutto priva di prova l’affermazione secondo cui il successivo attivarsi dell’Amministrazione partenopea per l’eliminazione degli abusi realizzati dal proprietario del fondo costituirebbe una mera ritorsione.
In particolare, gli istanti non hanno contestato né l’abusività delle opere realizzate sul terreno de quo, né – soprattutto – il fatto che quest’ultimo ricadesse in area vincolata paesaggisticamente ai sensi della legge 29 giugno 1939, nr. 1497: dal che, come meglio appresso si dirà, discendono conseguenze decisive nel senso della legittimità dell’operato comunale.
6. Col secondo motivo, viene riproposta la questione centrale del giudizio, afferente all’asserita violazione delle garanzie partecipative dell’interessato, essendo stata omessa ogni comunicazione di avvio del procedimento prima dell’adozione (e dell’esecuzione) dell’ordine di demolizione.
6.1. Il primo giudice ha respinto la censura richiamando il carattere vincolato del potere-dovere di repressione degli abusi su aree vincolate, con la conseguente non necessità di una previa comunicazione dell’avvio del procedimento; parte appellante assume l’erroneità di tali argomenti, sottolineando la singolarità dell’iter procedurale nella specie seguito, laddove l’impugnata ordinanza di rimessione in pristino è stata notificata all’interessato solo successivamente all’intervenuta esecuzione della demolizione da parte del Comune (nello stesso giorno, poche ore dopo l’intervento) ed è stata per giunta seguita, diversi giorni dopo, dall’ormai inutile notifica di un’ingiunzione a sospendere le attività abusive.
6.2. La Sezione reputa che l’operato del Comune nel caso che occupa, pur connotandosi di estremo zelo e di elevata severità, sia immune da vizi di legittimità.
6.3. Al riguardo, correttamente il primo giudice ha richiamato il disposto – applicato nel caso di specie – dell’art. 4, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, nr. 47, secondo cui: “... Il sindaco, quando accerti l’inizio di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla L. 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al R.D. 30 dicembre 1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla L. 16 giugno 1927, n. 1766, nonché delle aree di cui alle leggi 1 giugno 1939, n. 1089, e 29 giugno 1939, n. 1497, e successive modificazioni ed integrazioni, il sindaco provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa”.
Dal tenore testuale di tale disposizione, oggi sostanzialmente riprodotta all’art. 27, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, nr. 380, si evince con evidenza che il potere-dovere di disporre la demolizione ha natura vincolata, in ciò differenziandosi da quello disciplinato dal successivo art. 7 della medesima legge (oggi art. 31 del d.P.R. nr. 380 del 2001) a proposito degli abusi realizzati su aree non vincolate: di modo che, ogni qual volta le opere eseguite risultino abusive e sorgano su area vincolata, non occorre che il provvedimento sia preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
6.4. Con riguardo al caso di specie, peraltro, l’esame della documentazione in atti consente di escludere che l’intervento demolitorio sia stato posto in essere ex abrupto, senza essere preceduto da un minimo di attività informativa e istruttoria idonea a consentire la partecipazione dell’interessato: infatti, nella motivazione dell’ordine di demolizione impugnato in primo grado è richiamato un “sopralluogo tecnico” eseguito dalla Polizia Municipale in data 15 giugno e 21 luglio 1998 (quindi, almeno quindici giorni prima dell’esecuzione della demolizione), e nel successivo ordine di sospensione si fa cenno di una “denuncia” sempre di data 15 giugno 1998, ciò che rende estremamente verosimile che l’interessato fosse a conoscenza dell’intervento dell’Amministrazione che aveva accertato l’abusività delle opere realizzate.
Quanto sopra, se da un lato consente di ritenere non invalidante, ex art. 21-octies della legge 7 agosto 1990, nr. 241, l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento (quand’anche la si ritenesse dovuta nella fattispecie), per altro verso fa degradare a mera irregolarità la particolare “tempistica” dell’operato del Comune, con l’esecuzione dell’ordine di demolizione che avrebbe addirittura preceduto la notificazione dell’atto al destinatario.
6.5. Nemmeno può dirsi integrare vizio di legittimità dell’ordine di demolizione la successiva notificazione di un’ingiunzione di sospensione con data anteriore, atto ormai del tutto inutile non essendovi più alcunché da sospendere (e ciò non solo perché al momento della notifica dell’ingiunzione gli abusi erano stati già rimossi, ma perché anche alla data di adozione dell’atto si trattava di opere ultimate e non certo ancora in itinere).
Al riguardo, è sufficiente richiamare la consolidata giurisprudenza secondo cui l’ordine di sospensione dell’attività edilizia abusiva, in ragione del carattere meramente eventuale delle esigenze cautelari che possono determinarlo, non deve necessariamente precedere l’ordine di demolizione, ma può anche non esservi affatto, e pertanto, anche l’adozione di un ordine di sospensione superfluo, per essersi ormai consumate le esigenze cautelari che potevano giustificarlo, non può certo rifluire sull’ordine di demolizione in modo da renderlo illegittimo (cfr. Cons. Stato, sez. II, 18 gennaio 2006, parere nr. 408, con riferimento a fattispecie in cui la notifica dell’ordine di sospensione era stata contestuale a quella dell’ordine di demolizione).
6.6. Alla luce dei rilievi che precedono, appare dunque evidente l’estraneità al caso che occupa delle altre e diverse norme invocate dagli appellanti: ciò vale non solo per il già citato art. 7 della legge nr. 47 del 1985, ma anche per l’art. 32 della legge 17 agosto 1942, nr. 1150, del quale pure si assume la violazione.
7. Infondato è pure il secondo motivo di appello, col quale da un lato si reitera la censura di mancata ponderazione degli interessi pubblici e privati in conflitto e dall’altro si ribadiscono le critiche al modus procedendi seguito dal Comune per l’affidamento degli interventi di demolizione e per la successiva quantificazione e liquidazione delle spese di cui è stato chiesto il rimborso.
7.1. Sotto il primo profilo, risulta per tabulas – contrariamente a quanto si assume da parte istante – che le opere abusive per cui è causa, pur trovando certamente la loro occasione nelle vicende franose che avevano interessato il fondo, non erano comprovatamente indispensabili al fine di eliminare una situazione di pericolo: infatti, sono gli stessi odierni istanti a chiarire che tale situazione era stata già eliminata proprio dal Comune, con i lavori eseguiti in esecuzione delle due sentenze del Tribunale di Napoli emesse nel giudizio intentato dal proprietario del terreno, mentre i successivi interventi servivano soltanto a ridurre la pendenza del suolo e a restituire il terreno alla propria naturale vocazione agricola.
Se dunque questa era la finalità degli interventi, non risulta per nulla provato in modo convincente (né, quindi, avrebbe potuto esserlo in un’ipotetica sede partecipativa prima dell’adozione degli atti impugnati) che per conseguire tale risultato fosse indispensabile realizzare opere del tipo di quelle di fatto eseguite, comprendenti anche manufatti in cemento armato.
7.2. Quanto al secondo aspetto, sono del tutto condivisibili le conclusioni del primo giudice circa la regolarità dell’iter seguito per la quantificazione e la liquidazione delle spese da recuperare, a fronte del quale le doglianze di parte istante si riducono a un mero giudizio, soggettivo e opinabile, di incongruità.
Inoltre, deve rimarcarsi l’inammissibilità delle critiche rivolte avverso l’affidamento dell’incarico a trattativa privata, non essendovi ovviamente alcun interesse dei destinatari di una demolizione a sindacare le modalità procedurali con le quali l’Amministrazione individua l’impresa cui affidare i lavori.
8. Quanto all’ultima questione sollevata dagli appellanti, deve poi escludersi – conformemente a quanto ritenuto dal primo giudice - che l’iniziativa demolitoria dell’Amministrazione dovesse essere preceduta da una previa valutazione in astratto su una possibile sanabilità delle opere: anche perché, quand’anche tale valutazione avesse avuto esito positivo, ciò non sarebbe stato idoneo né sufficiente a precludere il legittimo esercizio del potere repressivo ex art. 4, comma 2, della legge nr. 47 del 1985.
Al riguardo, giova richiamare l’indirizzo secondo cui la procedura di cui alla disposizione testé citata può essere posta in essere non solo in ipotesi di opere eseguite su aree gravate da vincoli di inedificabilità assoluta, ma anche in caso di vincoli “relativi” (e, quindi, di opere abusive ma in astratto sanabili), senza che possa predicarsi un “diritto alla sanatoria” del responsabile degli abusi, suscettibile di paralizzare l’iniziativa doverosa del Comune (cfr. Cons. Stato, sez. V, 11 gennaio 2002, nr. 125).
Diverso discorso avrebbe dovuto farsi laddove – ma così non è – vi fosse stata una domanda di sanatoria già presentata dall’interessato: ciò che, come noto, avrebbe comportato l’inefficacia di qualsiasi provvedimento repressivo o sanzionatorio, dovendo previamente essere delibata l’istanza stessa.
9. Alla luce delle superiori considerazioni, s’impone una pronuncia di reiezione del gravame e di conferma della sentenza impugnata.
10. Tenuto conto altresì della peculiarità della vicenda amministrativa esaminata, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Compensa tra le parti le spese del presente grado del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 aprile 2014 con l’intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sandro Aureli, Consigliere
Raffaele Greco, Consigliere, Estensore
Raffaele Potenza, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
 

 

L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 09/05/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Concorso - Indizione - In presenza della graduatoria di un precedente concorso ancora valida ed efficace - Indicazione delle ragioni per le quali non si è ritenuto di ricoprire i posti mediante l’utilizzazione della graduatoria - Occorre - Mancanza - Illegittimità.

TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II - sentenza 4 aprile 2014 n. 558

Autore: Infocds.it (diretto dal collega Alessandro Casale)


viaArticoli - Infocds.it.

Il verbale redatto in forma digitale e automatizzata esclude il reato di falso materiale e truffa

Assolto vigile urbano dai reati di cui all'art. 478 e 640 del C.P.
Cassazione penale Sentenza, Sez. V, 19/05/2014 18/02/2014, n. 20560 

Abruzzo. San Salvo. Riscossione multe: arrestati 4 vigili urbani

Molti i reati contestati tra cui anche associazione a delinquere

Sostenitori delle Forze dell'Ordine



cartello dei bimbi nei seggi



http://www.sostenitori.info/

Modifica all'Allegato B al regolamento del T.U.L.P.S.


MINISTERO DELL'INTERNO
COMUNICATO
Modifica all'Allegato B al regolamento del T.U.L.P.S. (14A03919) (GU Serie Generale n.121 del 27-5-2014)

 
 
    Con      decreto      del      Ministro      dell'Interno      n.
557/PAS/E/008528/XV.H.MASS(77)bis del 14  maggio  2014,  il  Capitolo
III, paragrafo 5, dell'Allegato «B» al regio decreto 6  maggio  1940,
n. 635, e' sostituito dal seguente: 
    «5. - Il deposito delle polveri  di  scorta  per  il  caricamento
delle cartucce deve essere in locale isolato,  distante  dagli  altri
corpi della fabbrica almeno  dieci  metri  non  riducibili;  in  tale
deposito puo' essere immagazzinata una quantita' di  polveri  pari  a
100 kg a condizione che le stesse siano classificate 1.3C e 1.4C;  la
parete  che  fronteggia  il  locale  di  caricamento   dovra'   avere
caratteristiche REI 90. In tale deposito le polveri  dovranno  essere
conservate nei loro imballaggi originali di tipo  approvato.  Per  le
polveri classificate 1.1C,  fermo  il  quantitativo  di  100  kg,  la
distanza minima dovra' essere non inferiore a 30 m,  riducibili  alla
meta' in presenza di terrapieno. Ove fosse necessario  l'impianto  di
depositi per quantitativi superiori  a  100  kg,  ferme  le  distanze
minime sopra indicate ed il carico massimo di  20.000  kg  prescritto
per ogni locale dei depositi di fabbrica,  la  distanza  dagli  altri
locali dovra' essere calcolata applicando  la  formula  d=k√c in  cui
k=0,3 per le polveri classificate 1.3C e 1.4C, k=0,4 per  le  polveri
classificate 1.1C». 
 
 

 


domenica 25 maggio 2014

Orari liberi anche per il commercio su aree pubbliche

Sentenza  104/2014
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente SILVESTRI - Redattore NAPOLITANO
Udienza Pubblica del 11/03/2014    Decisione  del 14/04/2014
Deposito del 18/04/2014   Pubblicazione in G. U. 23/04/2014
Norme impugnate: Artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle d'Aosta 25/02/2013, n. 5.
Massime:
Atti decisi: ric. 60/2013

SENTENZA N. 104
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante “Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale”), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 9-14 maggio 2013, depositato in cancelleria il 14 maggio 2013 ed iscritto al n. 60 del registro ricorsi 2013.
Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma Valle d’Aosta;
udito nell’udienza pubblica dell’11 marzo 2014 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi l’avvocato dello Stato Diana Ranucci per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione autonoma Valle d’Aosta.

Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso iscritto al n. 60 del registro ricorsi dell’anno 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto gli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante “Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale”).
Il ricorrente premette che l’art. 3, primo comma, lettera a), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), attribuisce alla Regione potestà legislativa di integrazione e di attuazione delle leggi della Repubblica in materia di commercio e che ai sensi dell’art. 2 del medesimo statuto, tale potestà deve esplicarsi nel rispetto della Costituzione, dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e degli obblighi internazionali. Osserva, inoltre, come in forza dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), la Regione deve ritenersi titolare della competenza residuale in materia di commercio.
Ciò considerato, l’Avvocatura rileva che l’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013 inserisce nella legge della Regione autonoma Valle d’Aosta 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale), l’art. 1-bis il quale attribuisce alla Giunta regionale, sentite le associazioni delle imprese esercenti il commercio maggiormente rappresentative in ambito regionale, il compito di individuare, sulla base di criteri oggettivi e trasparenti, gli indirizzi per il conseguimento degli obiettivi di equilibrio della rete distributiva, in rapporto alle diverse categorie e dimensioni degli esercizi, con particolare riguardo alle grandi strutture di vendita, tenuto conto della specificità dei singoli territori e dell’interesse dei consumatori alla qualità, alla varietà, all’accessibilità e alla convenienza dell’offerta.
Ad avviso del ricorrente, tale disposizione, sarebbe suscettibile di reintrodurre surrettiziamente limiti all’accesso e all’esercizio di attività economiche dal momento che il criterio in base al quale la Giunta deve determinare gli indirizzi («obiettivi di equilibrio della rete distributiva») sarebbe talmente generico da lasciare a detto organo una discrezionalità troppo ampia, che quindi renderebbe possibile l’introduzione di vincoli quantitativi alla apertura di esercizi commerciali non giustificati da esigenze di tutela della salute, dei lavoratori, dei beni culturali e del territorio, richiamate dal comma 1-bis dell’art. 1 della legge reg. n. 12 del 1999.
Per tale ragione la disposizione, potendo determinare una ingiustificata limitazione alla apertura di nuovi esercizi commerciali, si porrebbe in contrasto con i principi di tutela della concorrenza e del mercato, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.
L’Avvocatura censura inoltre l’art. 3 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale sostituisce l’art. 3 della legge reg. n. 12 del 1999 che disciplina i requisiti di accesso e di esercizio delle attività commerciali. La disposizione in parola prescrive che per lo svolgimento di attività commerciale nel settore merceologico alimentare, anche laddove effettuata nei confronti di una determinata cerchia di persone, è necessario il possesso di uno dei requisiti professionali di cui all’art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno).
Tale ultima disposizione – rileva il ricorrente – è stata modificata dall’art. 8 del decreto legislativo 6 agosto 2012, n. 147 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, recante attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno). Nella nuova formulazione, la norma statale non richiede più per lo svolgimento di attività di vendita di prodotti alimentari e di somministrazione di alimenti e bevande, effettuate non al pubblico ma nei confronti di una cerchia ristretta di persone (spacci interni) il possesso di determinati requisiti professionali.
La disposizione regionale continuando invece a richiederne il possesso anche per tale tipologia di attività, contrasterebbe con la normativa nazionale posta a tutela della concorrenza, così violando l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
È impugnato, ancora, l’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013 il quale introduce l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del 1999. Esso disciplina gli orari di apertura e chiusura delle attività di commercio al dettaglio, in armonia con quanto disposto dall’art. 3, comma 1, lettera d-bis), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248.
Tuttavia la disposizione regionale esclude dal proprio ambito di operatività le attività commerciali che si svolgono su area pubblica. In tal modo, ad avviso dell’Avvocatura, essa si porrebbe in contrasto con quanto statuito dall’art. 28, comma 13, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come modificato dal d.lgs. n. 59 del 2010, in forza del quale eventuali limiti temporali possono essere posti solo per esigenze di sostenibilità ambientale o sociale e non già per ragioni economiche.
Pertanto, l’art. 4 sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. nella parte in cui esclude dalla applicazione delle norme di liberalizzazione degli orari di apertura e chiusura delle attività commerciali quelle su area pubblica.
Anche l’art. 7 della legge reg. n. 5 del 2013 violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Tale disposizione, nel sostituire l’art. 5 della legge reg. n. 12 del 1999, il quale disciplina le medie e grandi strutture di vendita, al comma 4 stabilisce che per i centri di vendita con superficie superiore a 1.500 metri quadrati il rilascio dell’autorizzazione all’apertura, al trasferimento di sede e all’ampliamento della superficie è subordinato al parere della struttura regionale competente in materia di commercio, che attesta la conformità dell’attività oggetto della richiesta agli indirizzi di cui all’art. 1-bis, introdotto dall’art. 2 della legge in esame.
Anche questa norma presenterebbe i medesimi vizi evidenziati con riguardo all’art. 1-bis della legge reg. n. 12 del 1999 dal momento che essa sarebbe suscettibile di limitare ingiustificatamente l’apertura di nuovi esercizi commerciali e di medie e/o grandi strutture di vendita, in violazione dei principi di tutela della concorrenza e del mercato e quindi in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
È impugnato, altresì, l’art. 11 della legge censurata il quale stabilisce il divieto, nei centri storici, di apertura e trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali. Tale divieto, il quale è prescritto in via assoluta e riferito non solo all’ipotesi di apertura, ma anche di trasferimento di sede, sarebbe eccessivamente restrittivo e, quindi, anticoncorrenziale, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Ad avviso del ricorrente le disposizioni della legge regionale incidono sulla sfera di «tutela della concorrenza» di competenza esclusiva dello Stato. Osserva infatti l’Avvocatura che «in materia di apertura degli esercizi pubblici di vendita al dettaglio, la molteplicità di discipline a livello locale in materia non può che produrre distorsione del mercato, con evidente danno per l’utenza».
Infine, è stato impugnato l’art. 18 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale stabilisce che varie disposizioni contenute nella medesima legge, ivi comprese quelle che inaspriscono le sanzioni amministrative conseguenti a violazioni, si applicano anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa.
Il ricorrente ritiene che tale disposizione contrasterebbe con il principio tempus regit actum il quale, nell’ambito del diritto sanzionatorio amministrativo, comporta che la sanzione da irrogarsi sia quella applicabile sulla base della norma vigente nel tempo in cui fu commesso l’illecito, sia in ipotesi di previsione più sfavorevole che favorevole. Pertanto, essa violerebbe gli artt. 25 e 117, secondo comma, lettera l), Cost. «con riferimento a quanto ribadito dalla disposizioni dell’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale (preleggi) anteposte al Codice civile, in base al quale la legge non dispone che per l’avvenire».
2.– Si è costituita in giudizio la Regione autonoma Valle d’Aosta la quale ha chiesto il rigetto delle censure.
Riguardo all’impugnato art. 2, la difesa regionale osserva che si tratta di una norma meramente procedurale che non pone alcun limite quantitativo alla apertura di nuovi esercizi commerciali, ma attribuisce un mero potere di indirizzo alla Giunta regionale, al quale non sarebbe connesso alcun potere sanzionatorio o inibitorio. Inoltre, il comma 1-bis dell’art. 1 della stessa legge chiarisce che l’apertura, il trasferimento e l’ampliamento di superficie degli esercizi commerciali non sono soggetti a contingenti numerici, a limiti territoriali, a vincoli merceologici o di qualsiasi altra natura. D’altra parte, l’eventuale violazione di questa norma sarebbe al più sindacabile davanti al giudice amministrativo.
Inoltre, l’attribuzione di tale potere di indirizzo alla Giunta sarebbe rispettoso della tutela della concorrenza in quanto basato su parametri oggettivi.
Infine, le censure non terrebbero conto delle competenze legislative della Regione in materia di commercio. La disposizione impugnata non avrebbe finalità di regolare la concorrenza, ma solo di assicurare una equilibrata razionalizzazione della rete distributiva in rapporto alle varie categorie e dimensioni degli esercizi commerciali.
Riguardo alle censure concernenti l’art. 3, la difesa regionale sostiene che l’abrogazione da parte del legislatore nazionale delle norme che prescrivono il possesso dei requisiti di cui all’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 non comporterebbe automaticamente l’illegittimità delle norme regionali che continuino a prevederli, posto che la direttiva 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno), lascerebbe libertà ai legislatori statali e regionali, di mantenere la previsione di tali requisiti per il settore merceologico alimentare.
Inoltre, l’abrogazione dei requisiti in parola da parte del legislatore statale avrebbe rimesso al legislatore regionale, nell’esercizio delle sue competenze in materia di commercio, il potere discrezionale di individuare i requisiti per esercitare una determinata attività commerciale.
Infondata sarebbe, altresì, la censura concernente l’art. 4 in quanto con tale disposizione il legislatore regionale non avrebbe affatto disciplinato l’attività commerciale su area pubblica, limitandosi solo ad escluderla dal suo ambito di applicazione. Per tale ragione non avrebbe introdotto alcun limite al suo esercizio.
Ma anche a voler ritenere diversamente, la Regione osserva come tale tipo di attività, essendo strettamente correlata all’uso di una proprietà pubblica, richiederebbe una disciplina speciale. Lo stesso art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998 consentirebbe alle Regioni e agli enti locali di stabilire limiti e modalità di utilizzo delle aree pubbliche in quanto a disponibilità limitata.
In ordine alle censure aventi ad oggetto l’art. 7, la difesa richiama le argomentazioni già svolte con riguardo alle censure relative all’art. 2 della legge regionale.
Quanto all’art. 11 della legge regionale, la resistente osserva come tale disposizione, nel vietare nei centri storici l’apertura o il trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali, costituirebbe esercizio non solo della potestà esclusiva in materia di commercio, ma anche di quella in materia di pianificazione territoriale e di governo del territorio prevista dallo statuto. Al riguardo, la difesa regionale richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 22 ottobre 2009, in causa C-348/08, Choque Cabrera) che ha riconosciuto la legittimità di limitazioni all’accesso al mercato giustificate da motivi imperativi di interesse generale, purché non sorrette da ragioni puramente economiche. Pertanto, le limitazioni poste dalla norma in parola sarebbero conformi alla giurisprudenza comunitaria.
Infine, la censura avente ad oggetto l’art. 18 sarebbe inammissibile o infondata.
Tale disposizione avrebbe infatti una valenza solo procedimentale non introducendo alcun effetto retroattivo nella disciplina sanzionatoria, in quanto le sanzioni in essa previste regolano le fattispecie che si sono verificate sotto la sua vigenza.
3.– In prossimità dell’udienza pubblica, la Regione ha depositato una memoria nella quale, oltre a ribadire le proprie difese, ha richiamato il parere reso dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in data 11 dicembre 2013, in ordine alla modifica dell’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, ad opera dell’art. 30, comma 5-ter, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98.
Si afferma che in tale parere l’Autorità avrebbe chiarito che le Regioni potranno legittimamente introdurre restrizioni per quanto riguarda le aree di insediamento di attività produttive o commerciali, purché siano rispettose del principio di non discriminazione e giustificate dal perseguimento di un interesse pubblico costituzionalmente rilevante.

Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con il ricorso indicato in epigrafe ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante “Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale”), in riferimento agli artt. 25 e 117, secondo comma, lettere l) ed e), della Costituzione.
Il ricorrente impugna innanzitutto l’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale nell’inserire l’art. 1-bis nella legge della Regione autonoma Valle d’Aosta 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale), attribuisce alla Giunta regionale il compito di individuare, sentite le associazioni delle imprese, gli indirizzi per il conseguimento degli obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi, tenendo conto anche dell’interesse dei consumatori alla qualità, alla varietà, all’accessibilità e alla convenienza dell’offerta. Ritiene l’Avvocatura dello Stato che tale disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto riconoscerebbe alla Giunta regionale una discrezionalità troppo ampia, suscettibile di limitare ingiustificatamente l’apertura di nuovi esercizi commerciali e di medie e/o grandi strutture di vendita per tutelare «non meglio specificati obiettivi di equilibrio della rete distributiva».
L’Avvocatura censura, inoltre, l’art. 3 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale ha sostituito l’art. 3 della legge reg. n. 12 del 1999, stabilendo che anche per l’esercizio dell’attività commerciale nel settore merceologico alimentare effettuata nei confronti di una determinata cerchia di persone è necessario il possesso di uno dei requisiti professionali previsti dall’art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno). In tal modo la disposizione in parola violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto si porrebbe in contrasto con l’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010, il quale, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 8 del decreto legislativo 6 agosto 2012, n. 147 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, recante attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno), non richiede più il possesso di tali requisiti per le attività commerciali nel settore merceologico alimentare effettuate nei confronti di una determinata cerchia di persone.
È altresì impugnato l’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale, nell’inserire l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del 1999, dispone che le attività commerciali siano svolte senza il rispetto di orari di apertura o di chiusura e senza obblighi di chiusura domenicale e festiva o della mezza giornata infrasettimanale, «Fatta eccezione per l’attività di commercio su area pubblica». Tale disposizione, nell’escludere dall’ambito della liberalizzazione degli orari di apertura e chiusura il commercio su area pubblica, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. ponendosi in contrasto con le disposizioni, preposte alla tutela della concorrenza, contenute nell’art. 28, comma 13, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), per il quale sono ammissibili limitazioni solo per esigenze di sostenibilità ambientale o sociale.
Ad avviso del ricorrente, anche l’art. 7 della legge reg. n. 5 del 2013 violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Esso infatti, nel sostituire l’art. 5 della legge reg. n. 12 del 1999, introdurrebbe l’obbligo dell’autorizzazione per l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di una media o grande struttura di vendita, e subordinerebbe il rilascio dell’autorizzazione per i centri di vendita con superficie superiore a 1.500 metri quadrati al parere della struttura regionale competente in materia di commercio che attesta la conformità dell’attività agli indirizzi individuati dalla Giunta regionale previsti dall’art. 1-bis. In tal modo la disposizione impugnata limiterebbe ingiustificatamente l’apertura di nuovi esercizi commerciali e di medie e/o grandi strutture di vendita.
È impugnato, altresì, l’art. 11 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale ponendo il divieto, nei centri storici, di apertura e trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto, introducendo una preclusione assoluta e riferita non solo alla apertura ma anche al trasferimento di sede, sarebbe eccessivamente restrittivo e dunque anticoncorrenziale.
Infine il ricorrente censura l’art. 18 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale stabilisce che le disposizioni contenute nella legge medesima, ivi comprese quelle che inaspriscono le sanzioni amministrative, trovano applicazione anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa. Tale previsione contrasterebbe con gli artt. 25 e 117, secondo comma, lettera l), Cost. in quanto violerebbe il principio generale del tempus regit actum ribadito anche dall’art. 11 delle preleggi in base al quale la legge non dispone che per l’avvenire.
2.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 è fondata.
L’art. 1, comma 1-bis, della legge reg. n. 12 del 1999, introdotto dall’art. 1, comma 2, della legge censurata, dispone che «l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di nuovi esercizi commerciali sul territorio regionale non sono soggetti a contingenti numerici, a limiti territoriali, a vincoli merceologici o di qualsiasi altra natura, e possono essere vietati o limitati esclusivamente quando siano in contrasto con la normativa in materia di tutela della salute, dei lavoratori, dei beni culturali, del territorio e dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano con particolare riferimento alla tutela e allo sviluppo equilibrato dello spazio vitale urbano e alla necessità di uno sviluppo organico e controllato del territorio e del traffico, secondo quanto stabilito […] dagli indirizzi regionali volti a promuovere e a mantenere un mercato distributivo aperto per la tutela della collettività dei consumatori».
Il ricorrente ha impugnato l’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013 il quale inserisce l’art. 1-bis nella legge reg. n. 12 del 1999. Esso dispone che: «La Giunta regionale, con propria deliberazione e sentite le associazioni delle imprese esercenti il commercio maggiormente rappresentative in ambito regionale, definisce gli indirizzi di cui all’articolo 1, comma 1-bis, per la determinazione, sulla base di criteri e parametri oggettivi e nell’osservanza dei vincoli di cui al medesimo articolo, degli obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi, con particolare riguardo alle grandi strutture di vendita, tenuto conto della specificità dei singoli territori e dell’interesse dei consumatori alla qualità, alla varietà, all’accessibilità e alla convenienza dell’offerta».
2.1.– La disposizione in parola incide sulla materia della «tutela della concorrenza» spettante, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., alla competenza esclusiva del legislatore statale.
Com’è noto, infatti, la recente giurisprudenza costituzionale ha affermato che la nozione di concorrenza «riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis: sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007)». Inoltre, la Corte ha affermato che la materia «tutela della concorrenza», dato il suo carattere finalistico, non è una materia di estensione certa o delimitata, ma è configurabile come trasversale, «corrispondente ai mercati di riferimento delle attività economiche incise dall’intervento e in grado di influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle regioni» (così, tra le più recenti, sentenza n. 38 del 2013; si veda, inoltre, la sentenza n. 299 del 2012).
Dalla natura trasversale della competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» la Corte ha tratto la conclusione «che il titolo competenziale delle Regioni a statuto speciale in materia di commercio non è idoneo ad impedire il pieno esercizio della suddetta competenza statale e che la disciplina statale della concorrenza costituisce un limite alla disciplina che le medesime Regioni possono adottare in altre materie di loro competenza» (sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012).
Espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in questa materia è stato ritenuto l’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214. Tale disposizione detta una disciplina di liberalizzazione e di eliminazione di vincoli all’esplicarsi dell’attività imprenditoriale nel settore commerciale stabilendo che «costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali».
2.2.– Il censurato art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013 conferisce alla Giunta regionale un potere di indirizzo volto alla determinazione di obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi. La previsione e la conformazione di tale potere è tale da consentire alla Giunta di incidere e condizionare l’agire degli operatori sul mercato, incentivando o viceversa limitando l’apertura degli esercizi commerciali in relazione alle diverse tipologie merceologiche, alle loro dimensioni, ovvero al territorio. È evidente, dunque, che la previsione in esame, autorizzando la Giunta “a definire indirizzi” per assicurare l’equilibrio della rete distributiva, consente alla Regione interventi che ben possono risolversi in limiti alle possibilità di accesso sul mercato degli operatori economici. Ma – come già rilevato da questa Corte – è ancor prima la stessa attribuzione di un tale potere alla Giunta regionale in una materia devoluta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato a determinare la lesione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. (sentenza n. 38 del 2013).
Pertanto deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013.
3.– Al riconoscimento della illegittimità costituzionale della disposizione ora esaminata segue la fondatezza della censura avente ad oggetto l’art. 7 della legge reg. n. 5 del 2013 il quale disciplina le medie e grandi strutture di vendita.
Il comma 1 di tale disposizione subordina l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di una media o grande struttura di vendita ad apposita «autorizzazione rilasciata, nel rispetto delle determinazioni assunte nel piano regolatore generale comunale urbanistico e paesaggistico (PRG) e degli indirizzi di cui all’articolo 1-bis, dallo sportello unico competente per territorio ai sensi dell’articolo 10 della legge regionale n. 12/2011».
Il comma 4, impugnato dallo Stato, stabilisce che: «Limitatamente alle strutture con superficie di vendita complessiva superiore a 1.500 metri quadrati, l’autorizzazione di cui al comma 1 è subordinata al parere della struttura regionale competente in materia di commercio, rilasciato entro trenta giorni dalla richiesta e attestante la conformità agli indirizzi di cui all’articolo 1-bis. Decorso inutilmente il predetto termine, il parere si intende favorevolmente espresso».
Tale disposizione, dunque, fa dipendere il rilascio dell’autorizzazione alla apertura delle indicate strutture di vendita dall’attestazione della conformità agli indirizzi definiti dalla Giunta regionale ai sensi dell’art. 1-bis della legge reg. n. 12 del 1999, introdotto – come si è visto – dall’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013. La norma impugnata rende evidente che – a differenza di quanto sostenuto dalla difesa regionale, secondo la quale il potere di indirizzo sarebbe sfornito di potestà inibitoria o sanzionatoria – tale potere incide direttamente sulla possibilità di accesso al mercato degli operatori economici, dal momento che preclude l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento degli esercizi commerciali in esso previsti laddove non risultino conformi agli indirizzi fissati dalla Giunta.
Pertanto, stante il nesso che lega la disposizione in questione a quella di cui all’art. 2 sopra esaminata, all’accoglimento della censura relativa a questa norma consegue l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 7 impugnato, nella parte in cui subordina il rilascio dell’autorizzazione in esso prevista alla attestazione del rispetto degli indirizzi di cui all’art. 1-bis della legge reg. n. 12 del 1999.
4.– Il ricorrente impugna, altresì, l’art. 3 della legge reg. n. 5 del 2013 il quale sostituisce l’art. 3 della legge reg. n. 12 del 1999 che disciplina i requisiti di accesso e di esercizio delle attività commerciali.
Oggetto di censura è il comma 5 il quale stabilisce: «Oltre a quanto previsto nei commi 1, 2, 3 e 4, l’esercizio, in qualsiasi forma, di un’attività di commercio relativa al settore merceologico alimentare, anche se effettuata nei confronti di una cerchia determinata di persone, è consentito a coloro che siano in possesso, alla data di presentazione della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) di cui all’articolo 22 della legge regionale 6 agosto 2007, n. 19 (Nuove disposizioni in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), o della domanda per il rilascio dell’autorizzazione, anche di uno dei requisiti professionali elencati dall’articolo 71, comma 6, del D.Lgs. 59/2010».
Lo Stato censura la disposizione regionale per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto si porrebbe in contrasto con l’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 che esclude la necessità del possesso dei requisiti in esso previsti nel caso in cui l’attività sia esercitata nei confronti di una cerchia determinata di persone.
4.1.– La disposizione statale richiamata dal ricorrente, e cui la norma regionale censurata rinvia, individua i requisiti di accesso e di esercizio delle attività commerciali. Con specifico riguardo all’attività di commercio al dettaglio relativa al settore merceologico alimentare o di un’attività di somministrazione di alimenti e bevande è richiesto il possesso di uno dei seguenti requisiti professionali:
«a) avere frequentato con esito positivo un corso professionale per il commercio, la preparazione o la somministrazione degli alimenti, istituito o riconosciuto dalle regioni o dalle province autonome di Trento e di Bolzano;
b) avere, per almeno due anni, anche non continuativi, nel quinquennio precedente, esercitato in proprio attività d’impresa nel settore alimentare o nel settore della somministrazione di alimenti e bevande o avere prestato la propria opera, presso tali imprese, in qualità di dipendente qualificato, addetto alla vendita o all’amministrazione o alla preparazione degli alimenti, o in qualità di socio lavoratore o in altre posizioni equivalenti o, se trattasi di coniuge, parente o affine, entro il terzo grado, dell’imprenditore, in qualità di coadiutore familiare, comprovata dalla iscrizione all’Istituto nazionale per la previdenza sociale;
c) essere in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore o di laurea, anche triennale, o di altra scuola ad indirizzo professionale, almeno triennale, purché nel corso di studi siano previste materie attinenti al commercio, alla preparazione o alla somministrazione degli alimenti».
Nel testo originario la norma statale richiedeva espressamente il possesso di uno di tali requisiti anche nel caso in cui l’attività fosse svolta «nei confronti di una cerchia determinata di persone». L’art. 8 del d.lgs. n. 147 del 2012, modificando l’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 ha soppresso tale inciso di tal che la norma statale non richiede più il possesso dei suddetti requisiti per tale tipologia di attività.
A differenza della disposizione statale ora esaminata, l’art. 3 della legge reg. n. 5 del 2013 − pur se tale legge è stata emanata successivamente alla modifica dell’art. 71 del d.lgs. n. 59 del 2010 − continua a richiedere il possesso degli stessi requisiti previsti dalla norma statale anche nel caso in cui l’attività di commercio nel settore merceologico alimentare sia svolta nei confronti di una cerchia determinata di persone.
4.2.– La censura proposta avverso tale disposizione legislativa non è fondata.
I requisiti richiesti dall’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 consistono – come si è visto – nell’aver frequentato un corso professionale ad hoc, ovvero nella pregressa specifica esperienza nel settore alimentare per un certo periodo di tempo, ovvero ancora nel possesso di un titolo per il cui conseguimento sia previsto lo studio di materie attinenti al commercio, alla preparazione o alla somministrazione degli alimenti.
Tali requisiti, considerata la loro natura, appaiono funzionali ad assicurare che coloro che svolgono attività nel settore merceologico alimentare siano dotati di una specifica preparazione ed esperienza professionale all’evidente scopo di salvaguardare la salute dei consumatori in un settore delicato e fondamentale qual è quello alimentare, assicurando che coloro che maneggiano, preparano e commerciano alimenti abbiano maturato una adeguata professionalità. Questa conclusione è avvalorata dalla considerazione che l’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248, stabilisce che, «al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale», le attività commerciali sono svolte senza limiti e prescrizioni, tra cui il possesso di requisiti professionali soggettivi. Tuttavia, poi, fa espressamente «salvi quelli riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande» (art. 3, comma 1, lettera a). Ciò attesta che lo stesso legislatore statale ha ritenuto che i requisiti in esame non incidano sul profilo della liberalizzazione del mercato, apparendo necessari per soddisfare esigenze di sicurezza alimentare.
Tali considerazioni portano ad escludere che la norma impugnata attenga alla materia della «tutela della concorrenza» ponendo limiti o barriere all’accesso al mercato con effetti restrittivi della concorrenza. Essa, piuttosto, concerne la materia della «tutela della salute», attribuita dall’art. 117, terzo comma, Cost. alla competenza legislativa concorrente delle Regioni, ponendosi quale misura volta a salvaguardare la salute dei consumatori.
Pertanto, l’art. 3 impugnato, nel richiedere il possesso dei requisiti di cui all’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 anche laddove le attività nel settore merceologico alimentare siano svolte nei confronti di una cerchia limitata di persone, costituisce espressione della potestà concorrente della Regione ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., non limitata da principi fondamentali della legislazione statale che vengano ad impedirla.
5.– L’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale inserisce l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del 1999, dispone che le attività commerciali siano svolte senza il rispetto di orari di apertura o di chiusura e senza obblighi di chiusura domenicale e festiva o della mezza giornata infrasettimanale, «Fatta eccezione per l’attività di commercio su area pubblica».
Il ricorrente sostiene che tale disposizione, nell’escludere dalla applicazione delle norme di liberalizzazione degli orari di apertura e chiusura delle attività commerciali quelle su area pubblica, si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto violerebbe le disposizioni, preposte alla tutela della concorrenza, contenute nell’art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998 per il quale sono ammissibili limitazioni solo per esigenze di sostenibilità ambientale o sociale.
5.1.– La questione è fondata.
Occorre al riguardo considerare che il profilo degli orari e dei giorni di apertura e chiusura degli esercizi commerciali è disciplinato dall’art. 3, comma 1, lettera d-bis) del d.l. n. 223 del 2006, come modificato dall’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, il quale stabilisce che «al fine di garantire la libertà di concorrenza […] le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114», sono svolte senza il rispetto – tra l’altro – di orari di apertura e chiusura, dell’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché di quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale.
Nell’interpretare la citata normativa, questa Corte ha ritenuto «che essa attui un principio di liberalizzazione, rimuovendo vincoli e limiti alle modalità di esercizio delle attività economiche, e ha così proseguito: “L’eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali favorisce, a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori e amplia la possibilità di scelta del consumatore. Si tratta, dunque, di misure coerenti con l’obiettivo di promuovere la concorrenza, risultando proporzionate allo scopo di garantire l’assetto concorrenziale del mercato di riferimento relativo alla distribuzione commerciale” (sentenza n. 299 del 2012 […])» (sentenza n. 38 del 2013).
Ora, tra le attività commerciali disciplinate dal d.lgs. n. 114 del 1998, cui l’art. 3 del d.l. n. 223 del 2006 fa riferimento, vi è anche quella che si svolge su aree pubbliche (artt. 27 e seguenti) di tal che, anche per queste il legislatore statale ha inteso espressamente eliminare vincoli in ordine agli orari di apertura e chiusura dell’attività.
Le uniche limitazioni che è possibile porre allo svolgimento dell’attività di commercio su area pubblica sono quelle individuate dall’art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998, come modificato dal d.lgs. n. 59 del 2010, riconducibili ad esigenze di sostenibilità ambientale e sociale, a finalità di tutela delle zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale, nonché quelle individuate dall’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011.
L’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, pur eliminando i vincoli alla apertura degli esercizi commerciali, eccettua espressamente dal suo ambito di applicazione le attività di commercio su area pubblica. Il chiaro tenore letterale della disposizione consente di ritenere che il principio di liberalizzazione degli orari in essa affermato non si applichi all’attività commerciale su area pubblica. In tal modo però, essa si presta a reintrodurre limiti e vincoli in contrasto con la normativa statale di liberalizzazione, così invadendo la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza e violando, quindi, l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 nella parte in cui, nel disporre che le attività commerciali sono svolte senza il rispetto di orari di apertura o di chiusura e senza obblighi di chiusura domenicale e festiva o della mezza giornata infrasettimanale, esclude l’attività di commercio su area pubblica.
6.– È impugnato l’art. 11 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale inserisce nell’art. 9 della legge reg. n. 12 del 1999 il comma 2-bis disponendo che «In attuazione dei principi previsti dall’articolo 1, comma 1-bis, nei centri storici sono vietate l’apertura e il trasferimento di sede delle grandi strutture di vendita».
Il ricorrente sostiene che la previsione di un divieto assoluto tanto alla apertura quanto al trasferimento di sede di dette strutture di vendita nei centri storici, incidendo nella materia della «tutela della concorrenza», violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto sarebbe eccessivamente restrittivo e dunque anticoncorrenziale.
Ad avviso della difesa regionale la norma impugnata costituirebbe esercizio legittimo della potestà legislativa esclusiva regionale in materia di «commercio», nonché in materia di pianificazione territoriale prevista dall’art. 2, primo comma, lettera g), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta). L’esercizio di tale potestà sarebbe reso necessario dalle peculiari caratteristiche territoriali della Regione e «dalla limitata ampiezza degli spazi vitali». La difesa regionale ha inoltre richiamato la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 11 marzo 2010, in causa C-384/08, Attanasio Group, e sentenza 24 marzo 2011, in causa C-400/08, Commissione europea contro Regno di Spagna) che avrebbe riconosciuto la legittimità di limitazioni dell’accesso al mercato giustificate da motivi imperativi di interesse generale, purché non sorrette da ragioni puramente economiche. Infine, la Regione ha richiamato il parere reso dall’Autorità garante della concorrenza in data 11 dicembre 2013, sull’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, nel quale avrebbe riconosciuto la legittimità di misure regionali che introducono restrizioni relativamente alle aree di insediamento di attività produttive e commerciali, purché rispettose del principio di non discriminazione.
6.1.– La censura è fondata.
Occorre preliminarmente osservare come la evocata competenza primaria in materia di urbanistica deve in ogni caso svolgersi, ai sensi dell’art. 2, primo comma, lettera g), dello statuto regionale, «In armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica». Inoltre, questa Corte ha osservato come il disposto dell’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, il quale sancisce la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio, senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi natura, «deve essere ricondotto nell’ambito della tutela della concorrenza, rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., norma in presenza della quale i titoli competenziali delle Regioni, anche a statuto speciale, in materia di commercio e di governo del territorio non sono idonei ad impedire l’esercizio della detta competenza statale (ex multis: sentenza n. 299 del 2012 citata, punto 6.1. del Considerato in diritto), che assume quindi carattere prevalente» (sentenza n. 38 del 2013; si veda, altresì, la sentenza n. 25 del 2009).
Non pertinente appare, poi, il richiamo alla giurisprudenza comunitaria fatto dalla difesa regionale. Come già affermato da questa Corte, la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in data 24 marzo 2011 (in causa C-400/08) «riguarda, in riferimento a grandi esercizi commerciali, restrizioni alla libertà di stabilimento, che siano applicabili senza discriminazioni basate sulla cittadinanza. Tali restrizioni possono essere giustificate da motivi imperativi d’interesse generale, a condizione che siano idonee a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso. Fra i motivi imperativi riconosciuti dalla Corte figurano, tra gli altri, la protezione dell’ambiente e la razionale gestione del territorio. Come si vede, si tratta di una fattispecie diversa da quella qui in esame, sia per la diversità del principio evocato (libertà di stabilimento e non tutela della concorrenza), sia per le caratteristiche di fatto delle due vicende» (sentenza n. 38 del 2013).
Le stesse argomentazioni possono essere svolte anche nel caso in esame.
L’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011 consente di introdurre limiti alla apertura di nuovi esercizi commerciali per ragioni di tutela dell’ambiente «ivi incluso l’ambiente urbano» e riconosce alle Regioni la possibilità di prevedere «anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali». Tuttavia la disposizione statale stabilisce che ciò debba avvenire «senza discriminazioni tra gli operatori».
Lo stesso parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato citato dalla difesa regionale, nel richiamare la possibilità riconosciuta alle Regioni dalla normativa statale di introdurre restrizioni con riguardo alle aree di insediamento delle attività commerciali, afferma che ciò può avvenire a condizione del «rigoroso rispetto dei principi di stretta necessità e proporzionalità della limitazione, oltre che del principio di non discriminazione».
L’art. 11 censurato, nel vietare con legge l’apertura e il trasferimento nei centri storici delle grandi strutture di vendita, preclude del tutto e a priori detta possibilità. Tale divieto, proprio per la sua assolutezza, costituisce una limitazione alla libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali e viene ad incidere «direttamente sull’accesso degli operatori economici al mercato e, quindi, si risolve in un vincolo per la libertà di iniziativa di coloro che svolgono o intendano svolgere attività di vendita» (sentenza n. 38 del 2013).
Per tali ragioni, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale di tale disposizione.
7.– Il ricorrente ha, infine, impugnato l’art. 18 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale stabilisce che «Le disposizioni di cui agli articoli 1, 1-bis, 3, 4, 4-bis, 5, commi 1, 2 e 4, 9 e 11-ter della legge regionale n. 12/99, come modificati, sostituiti o inseriti dalla presente legge, si applicano anche ai procedimenti autorizzatori in corso alla data di entrata in vigore della medesima legge».
L’Avvocatura dello Stato sostiene che la norma impugnata farebbe riferimento anche alle disposizioni che inaspriscono sanzioni amministrative e che pertanto, stabilendo che esse si applicano anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima, si porrebbe in contrasto con il principio tempus regit actum in virtù del quale la sanzione da irrogarsi sarebbe quella applicabile in base alla norma vigente nel tempo in cui fu commesso l’illecito. Conseguentemente, l’articolo impugnato violerebbe gli artt. 25 e 117, secondo comma, lettera l), Cost. con riferimento a quanto ribadito dall’art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale, secondo cui la legge non dispone che per l’avvenire.
La difesa regionale sostiene che le censure sarebbero infondate in quanto l’art. 18 avrebbe valenza solo procedimentale e non avrebbe invece alcun effetto retroattivo.
7.1.– Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità della censura formulata in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. dal momento che tale parametro risulta meramente evocato dal ricorrente il quale non ha tuttavia in alcun modo motivato la censura (ex plurimis, sentenza n. 272 del 2013).
7.2.– La questione sollevata con riferimento all’art. 25 Cost. è fondata.
Benché il ricorrente evochi il principio tempus regit actum, dal contenuto della censura appare chiaro che in realtà lamenta la violazione del principio di irretroattività delle disposizioni che introducono sanzioni amministrative.
L’esame di tale censura deve prendere le mosse dalla sentenza n. 196 del 2010 nella quale questa Corte ha affermato che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava «il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto».
Detto principio è peraltro desumibile anche dall’art. 25, secondo comma, Cost., «il quale – data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito […]») – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato» (sempre sentenza n. 196 del 2010).
Analogo principio è sancito altresì dalla disciplina generale relativa agli illeciti amministrativi prevista dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), la quale, all’art. 1, pone la regola per cui nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione; tale regola costituisce un principio generale di quello specifico sistema.
L’art. 18 impugnato, nell’indicare le varie disposizioni da esso introdotte, le quali devono avere applicazione anche ai procedimenti in corso, richiama espressamente l’art. 11-ter della legge reg. n. 12 del 1999 introdotto dall’art. 12, comma 1, della legge reg. n. 5 del 2013.
Tale disposizione prevede l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma di denaro da euro 1.800 a euro 6.000 per coloro che esercitino le attività commerciali di cui all’art. 4, senza aver presentato la SCIA. Assoggetta inoltre alla sanzione amministrativa del pagamento della somma da euro 800 a euro 3.000 coloro che non comunichino ogni variazione relativa a stati, fatti, condizioni e titolarità indicati nella SCIA entro trenta giorni dal suo verificarsi.
La disposizione censurata, dunque, prevede la sanzione amministrativa anche per comportamenti posti in essere anteriormente alla sua entrata in vigore, in tal modo violando il principio di irretroattività sancito dall’art. 25 Cost.
Conseguentemente, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge reg. n. 5 del 2013 nella parte in cui stabilisce che le disposizioni modificate o inserite da tale legge, le quali prevedono sanzioni amministrative, si applicano ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 e dell’art. 11 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante “Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale”);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui esclude dal proprio ambito di applicazione l’attività di commercio su area pubblica;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui subordina il rilascio dell’autorizzazione in esso prevista al rispetto degli indirizzi di cui all’art. 1-bis della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale);
4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui stabilisce che le disposizioni modificate o inserite da tale legge le quali prevedono sanzioni amministrative si applicano ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore;
5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 aprile 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI