Sentenza 104/2014 | |
Giudizio | GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE |
Presidente SILVESTRI - Redattore NAPOLITANO | |
Udienza Pubblica del 11/03/2014 Decisione del 14/04/2014 | |
Deposito del 18/04/2014 Pubblicazione in G. U. 23/04/2014 | |
Norme impugnate: | Artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle d'Aosta 25/02/2013, n. 5. |
Massime: | |
Atti decisi: | ric. 60/2013 |
SENTENZA N. 104
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi
MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe
TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe
FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta
CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario
Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt.
2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle
d’Aosta/Vallée d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge
regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante “Principi e direttive per
l’esercizio dell’attività commerciale”), promosso dal Presidente del
Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 9-14 maggio 2013,
depositato in cancelleria il 14 maggio 2013 ed iscritto al n. 60 del
registro ricorsi 2013.
Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma Valle d’Aosta;
udito nell’udienza pubblica dell’11 marzo 2014 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi l’avvocato dello Stato Diana Ranucci per il
Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Francesco Saverio
Marini per la Regione autonoma Valle d’Aosta.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso iscritto al n. 60 del registro ricorsi
dell’anno 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di
legittimità costituzionale aventi ad oggetto gli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e
18 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 25
febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999,
n. 12 recante “Principi e direttive per l’esercizio dell’attività
commerciale”).
Il ricorrente premette che l’art. 3, primo comma,
lettera a), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto
speciale per la Valle d’Aosta), attribuisce alla Regione potestà
legislativa di integrazione e di attuazione delle leggi della Repubblica
in materia di commercio e che ai sensi dell’art. 2 del medesimo
statuto, tale potestà deve esplicarsi nel rispetto della Costituzione,
dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e degli
obblighi internazionali. Osserva, inoltre, come in forza dell’art. 10
della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V
della parte seconda della Costituzione), la Regione deve ritenersi
titolare della competenza residuale in materia di commercio.
Ciò considerato, l’Avvocatura rileva che l’art. 2 della
legge reg. n. 5 del 2013 inserisce nella legge della Regione autonoma
Valle d’Aosta 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per l’esercizio
dell’attività commerciale), l’art. 1-bis il quale attribuisce alla
Giunta regionale, sentite le associazioni delle imprese esercenti il
commercio maggiormente rappresentative in ambito regionale, il compito
di individuare, sulla base di criteri oggettivi e trasparenti, gli
indirizzi per il conseguimento degli obiettivi di equilibrio della rete
distributiva, in rapporto alle diverse categorie e dimensioni degli
esercizi, con particolare riguardo alle grandi strutture di vendita,
tenuto conto della specificità dei singoli territori e dell’interesse
dei consumatori alla qualità, alla varietà, all’accessibilità e alla
convenienza dell’offerta.
Ad avviso del ricorrente, tale disposizione, sarebbe
suscettibile di reintrodurre surrettiziamente limiti all’accesso e
all’esercizio di attività economiche dal momento che il criterio in base
al quale la Giunta deve determinare gli indirizzi («obiettivi di
equilibrio della rete distributiva») sarebbe talmente generico da
lasciare a detto organo una discrezionalità troppo ampia, che quindi
renderebbe possibile l’introduzione di vincoli quantitativi alla
apertura di esercizi commerciali non giustificati da esigenze di tutela
della salute, dei lavoratori, dei beni culturali e del territorio,
richiamate dal comma 1-bis dell’art. 1 della legge reg. n. 12 del 1999.
Per tale ragione la disposizione, potendo determinare
una ingiustificata limitazione alla apertura di nuovi esercizi
commerciali, si porrebbe in contrasto con i principi di tutela della
concorrenza e del mercato, in violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera e), della Costituzione.
L’Avvocatura censura inoltre l’art. 3 della legge reg.
n. 5 del 2013, il quale sostituisce l’art. 3 della legge reg. n. 12 del
1999 che disciplina i requisiti di accesso e di esercizio delle attività
commerciali. La disposizione in parola prescrive che per lo svolgimento
di attività commerciale nel settore merceologico alimentare, anche
laddove effettuata nei confronti di una determinata cerchia di persone, è
necessario il possesso di uno dei requisiti professionali di cui
all’art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59
(Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato
interno).
Tale ultima disposizione – rileva il ricorrente – è
stata modificata dall’art. 8 del decreto legislativo 6 agosto 2012, n.
147 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26
marzo 2010, n. 59, recante attuazione della direttiva 2006/123/CE,
relativa ai servizi nel mercato interno). Nella nuova formulazione, la
norma statale non richiede più per lo svolgimento di attività di vendita
di prodotti alimentari e di somministrazione di alimenti e bevande,
effettuate non al pubblico ma nei confronti di una cerchia ristretta di
persone (spacci interni) il possesso di determinati requisiti
professionali.
La disposizione regionale continuando invece a
richiederne il possesso anche per tale tipologia di attività,
contrasterebbe con la normativa nazionale posta a tutela della
concorrenza, così violando l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
È impugnato, ancora, l’art. 4 della legge reg. n. 5 del
2013 il quale introduce l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del 1999.
Esso disciplina gli orari di apertura e chiusura delle attività di
commercio al dettaglio, in armonia con quanto disposto dall’art. 3,
comma 1, lettera d-bis), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223
(Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il
contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché
interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n.
248.
Tuttavia la disposizione regionale esclude dal proprio
ambito di operatività le attività commerciali che si svolgono su area
pubblica. In tal modo, ad avviso dell’Avvocatura, essa si porrebbe in
contrasto con quanto statuito dall’art. 28, comma 13, del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al
settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15
marzo 1997, n. 59), come modificato dal d.lgs. n. 59 del 2010, in forza
del quale eventuali limiti temporali possono essere posti solo per
esigenze di sostenibilità ambientale o sociale e non già per ragioni
economiche.
Pertanto, l’art. 4 sarebbe illegittimo per violazione
dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. nella parte in cui
esclude dalla applicazione delle norme di liberalizzazione degli orari
di apertura e chiusura delle attività commerciali quelle su area
pubblica.
Anche l’art. 7 della legge reg. n. 5 del 2013 violerebbe
l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Tale disposizione, nel
sostituire l’art. 5 della legge reg. n. 12 del 1999, il quale disciplina
le medie e grandi strutture di vendita, al comma 4 stabilisce che per i
centri di vendita con superficie superiore a 1.500 metri quadrati il
rilascio dell’autorizzazione all’apertura, al trasferimento di sede e
all’ampliamento della superficie è subordinato al parere della struttura
regionale competente in materia di commercio, che attesta la conformità
dell’attività oggetto della richiesta agli indirizzi di cui all’art.
1-bis, introdotto dall’art. 2 della legge in esame.
Anche questa norma presenterebbe i medesimi vizi
evidenziati con riguardo all’art. 1-bis della legge reg. n. 12 del 1999
dal momento che essa sarebbe suscettibile di limitare
ingiustificatamente l’apertura di nuovi esercizi commerciali e di medie
e/o grandi strutture di vendita, in violazione dei principi di tutela
della concorrenza e del mercato e quindi in violazione dell’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost.
È impugnato, altresì, l’art. 11 della legge censurata il
quale stabilisce il divieto, nei centri storici, di apertura e
trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali. Tale divieto,
il quale è prescritto in via assoluta e riferito non solo all’ipotesi di
apertura, ma anche di trasferimento di sede, sarebbe eccessivamente
restrittivo e, quindi, anticoncorrenziale, in violazione dell’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost.
Ad avviso del ricorrente le disposizioni della legge
regionale incidono sulla sfera di «tutela della concorrenza» di
competenza esclusiva dello Stato. Osserva infatti l’Avvocatura che «in
materia di apertura degli esercizi pubblici di vendita al dettaglio, la
molteplicità di discipline a livello locale in materia non può che
produrre distorsione del mercato, con evidente danno per l’utenza».
Infine, è stato impugnato l’art. 18 della legge reg. n. 5
del 2013, il quale stabilisce che varie disposizioni contenute nella
medesima legge, ivi comprese quelle che inaspriscono le sanzioni
amministrative conseguenti a violazioni, si applicano anche ai
procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa.
Il ricorrente ritiene che tale disposizione
contrasterebbe con il principio tempus regit actum il quale, nell’ambito
del diritto sanzionatorio amministrativo, comporta che la sanzione da
irrogarsi sia quella applicabile sulla base della norma vigente nel
tempo in cui fu commesso l’illecito, sia in ipotesi di previsione più
sfavorevole che favorevole. Pertanto, essa violerebbe gli artt. 25 e
117, secondo comma, lettera l), Cost. «con riferimento a quanto ribadito
dalla disposizioni dell’art. 11 delle disposizioni sulla legge in
generale (preleggi) anteposte al Codice civile, in base al quale la
legge non dispone che per l’avvenire».
2.– Si è costituita in giudizio la Regione autonoma Valle d’Aosta la quale ha chiesto il rigetto delle censure.
Riguardo all’impugnato art. 2, la difesa regionale
osserva che si tratta di una norma meramente procedurale che non pone
alcun limite quantitativo alla apertura di nuovi esercizi commerciali,
ma attribuisce un mero potere di indirizzo alla Giunta regionale, al
quale non sarebbe connesso alcun potere sanzionatorio o inibitorio.
Inoltre, il comma 1-bis dell’art. 1 della stessa legge chiarisce che
l’apertura, il trasferimento e l’ampliamento di superficie degli
esercizi commerciali non sono soggetti a contingenti numerici, a limiti
territoriali, a vincoli merceologici o di qualsiasi altra natura.
D’altra parte, l’eventuale violazione di questa norma sarebbe al più
sindacabile davanti al giudice amministrativo.
Inoltre, l’attribuzione di tale potere di indirizzo alla
Giunta sarebbe rispettoso della tutela della concorrenza in quanto
basato su parametri oggettivi.
Infine, le censure non terrebbero conto delle competenze
legislative della Regione in materia di commercio. La disposizione
impugnata non avrebbe finalità di regolare la concorrenza, ma solo di
assicurare una equilibrata razionalizzazione della rete distributiva in
rapporto alle varie categorie e dimensioni degli esercizi commerciali.
Riguardo alle censure concernenti l’art. 3, la difesa
regionale sostiene che l’abrogazione da parte del legislatore nazionale
delle norme che prescrivono il possesso dei requisiti di cui all’art.
71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 non comporterebbe automaticamente
l’illegittimità delle norme regionali che continuino a prevederli,
posto che la direttiva 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE (Direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato
interno), lascerebbe libertà ai legislatori statali e regionali, di
mantenere la previsione di tali requisiti per il settore merceologico
alimentare.
Inoltre, l’abrogazione dei requisiti in parola da parte
del legislatore statale avrebbe rimesso al legislatore regionale,
nell’esercizio delle sue competenze in materia di commercio, il potere
discrezionale di individuare i requisiti per esercitare una determinata
attività commerciale.
Infondata sarebbe, altresì, la censura concernente
l’art. 4 in quanto con tale disposizione il legislatore regionale non
avrebbe affatto disciplinato l’attività commerciale su area pubblica,
limitandosi solo ad escluderla dal suo ambito di applicazione. Per tale
ragione non avrebbe introdotto alcun limite al suo esercizio.
Ma anche a voler ritenere diversamente, la Regione
osserva come tale tipo di attività, essendo strettamente correlata
all’uso di una proprietà pubblica, richiederebbe una disciplina
speciale. Lo stesso art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998
consentirebbe alle Regioni e agli enti locali di stabilire limiti e
modalità di utilizzo delle aree pubbliche in quanto a disponibilità
limitata.
In ordine alle censure aventi ad oggetto l’art. 7, la
difesa richiama le argomentazioni già svolte con riguardo alle censure
relative all’art. 2 della legge regionale.
Quanto all’art. 11 della legge regionale, la resistente
osserva come tale disposizione, nel vietare nei centri storici
l’apertura o il trasferimento di sede delle grandi strutture
commerciali, costituirebbe esercizio non solo della potestà esclusiva in
materia di commercio, ma anche di quella in materia di pianificazione
territoriale e di governo del territorio prevista dallo statuto. Al
riguardo, la difesa regionale richiama la giurisprudenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea (sentenza 22 ottobre 2009, in causa
C-348/08, Choque Cabrera) che ha riconosciuto la legittimità di
limitazioni all’accesso al mercato giustificate da motivi imperativi di
interesse generale, purché non sorrette da ragioni puramente economiche.
Pertanto, le limitazioni poste dalla norma in parola sarebbero conformi
alla giurisprudenza comunitaria.
Infine, la censura avente ad oggetto l’art. 18 sarebbe inammissibile o infondata.
Tale disposizione avrebbe infatti una valenza solo
procedimentale non introducendo alcun effetto retroattivo nella
disciplina sanzionatoria, in quanto le sanzioni in essa previste
regolano le fattispecie che si sono verificate sotto la sua vigenza.
3.– In prossimità dell’udienza pubblica, la Regione ha
depositato una memoria nella quale, oltre a ribadire le proprie difese,
ha richiamato il parere reso dall’Autorità garante della concorrenza e
del mercato in data 11 dicembre 2013, in ordine alla modifica dell’art.
31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti
pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 22 dicembre 2011, n. 214, ad opera dell’art. 30, comma 5-ter, del
decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98.
Si afferma che in tale parere l’Autorità avrebbe
chiarito che le Regioni potranno legittimamente introdurre restrizioni
per quanto riguarda le aree di insediamento di attività produttive o
commerciali, purché siano rispettose del principio di non
discriminazione e giustificate dal perseguimento di un interesse
pubblico costituzionalmente rilevante.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con il
ricorso indicato in epigrafe ha promosso questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione
autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5
(Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante
“Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale”), in
riferimento agli artt. 25 e 117, secondo comma, lettere l) ed e), della
Costituzione.
Il ricorrente impugna innanzitutto l’art. 2 della legge
reg. n. 5 del 2013, il quale nell’inserire l’art. 1-bis nella legge
della Regione autonoma Valle d’Aosta 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e
direttive per l’esercizio dell’attività commerciale), attribuisce alla
Giunta regionale il compito di individuare, sentite le associazioni
delle imprese, gli indirizzi per il conseguimento degli obiettivi di
equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e
alla dimensione degli esercizi, tenendo conto anche dell’interesse dei
consumatori alla qualità, alla varietà, all’accessibilità e alla
convenienza dell’offerta. Ritiene l’Avvocatura dello Stato che tale
disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in
quanto riconoscerebbe alla Giunta regionale una discrezionalità troppo
ampia, suscettibile di limitare ingiustificatamente l’apertura di nuovi
esercizi commerciali e di medie e/o grandi strutture di vendita per
tutelare «non meglio specificati obiettivi di equilibrio della rete
distributiva».
L’Avvocatura censura, inoltre, l’art. 3 della legge reg.
n. 5 del 2013, il quale ha sostituito l’art. 3 della legge reg. n. 12
del 1999, stabilendo che anche per l’esercizio dell’attività commerciale
nel settore merceologico alimentare effettuata nei confronti di una
determinata cerchia di persone è necessario il possesso di uno dei
requisiti professionali previsti dall’art. 71, comma 6, del decreto
legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE
relativa ai servizi nel mercato interno). In tal modo la disposizione
in parola violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in
quanto si porrebbe in contrasto con l’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59
del 2010, il quale, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 8
del decreto legislativo 6 agosto 2012, n. 147 (Disposizioni integrative e
correttive del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, recante
attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato
interno), non richiede più il possesso di tali requisiti per le attività
commerciali nel settore merceologico alimentare effettuate nei
confronti di una determinata cerchia di persone.
È altresì impugnato l’art. 4 della legge reg. n. 5 del
2013, il quale, nell’inserire l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del
1999, dispone che le attività commerciali siano svolte senza il rispetto
di orari di apertura o di chiusura e senza obblighi di chiusura
domenicale e festiva o della mezza giornata infrasettimanale, «Fatta
eccezione per l’attività di commercio su area pubblica». Tale
disposizione, nell’escludere dall’ambito della liberalizzazione degli
orari di apertura e chiusura il commercio su area pubblica, violerebbe
l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. ponendosi in contrasto con
le disposizioni, preposte alla tutela della concorrenza, contenute
nell’art. 28, comma 13, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114
(Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma
dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), per il
quale sono ammissibili limitazioni solo per esigenze di sostenibilità
ambientale o sociale.
Ad avviso del ricorrente, anche l’art. 7 della legge
reg. n. 5 del 2013 violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost. Esso infatti, nel sostituire l’art. 5 della legge reg. n. 12 del
1999, introdurrebbe l’obbligo dell’autorizzazione per l’apertura, il
trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di una media o
grande struttura di vendita, e subordinerebbe il rilascio
dell’autorizzazione per i centri di vendita con superficie superiore a
1.500 metri quadrati al parere della struttura regionale competente in
materia di commercio che attesta la conformità dell’attività agli
indirizzi individuati dalla Giunta regionale previsti dall’art. 1-bis.
In tal modo la disposizione impugnata limiterebbe ingiustificatamente
l’apertura di nuovi esercizi commerciali e di medie e/o grandi strutture
di vendita.
È impugnato, altresì, l’art. 11 della legge reg. n. 5
del 2013, il quale ponendo il divieto, nei centri storici, di apertura e
trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali contrasterebbe
con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto,
introducendo una preclusione assoluta e riferita non solo alla apertura
ma anche al trasferimento di sede, sarebbe eccessivamente restrittivo e
dunque anticoncorrenziale.
Infine il ricorrente censura l’art. 18 della legge reg.
n. 5 del 2013, il quale stabilisce che le disposizioni contenute nella
legge medesima, ivi comprese quelle che inaspriscono le sanzioni
amministrative, trovano applicazione anche nei procedimenti in corso
alla data di entrata in vigore della legge stessa. Tale previsione
contrasterebbe con gli artt. 25 e 117, secondo comma, lettera l), Cost.
in quanto violerebbe il principio generale del tempus regit actum
ribadito anche dall’art. 11 delle preleggi in base al quale la legge non
dispone che per l’avvenire.
2.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 è fondata.
L’art. 1, comma 1-bis, della legge reg. n. 12 del 1999,
introdotto dall’art. 1, comma 2, della legge censurata, dispone che
«l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie
di nuovi esercizi commerciali sul territorio regionale non sono soggetti
a contingenti numerici, a limiti territoriali, a vincoli merceologici o
di qualsiasi altra natura, e possono essere vietati o limitati
esclusivamente quando siano in contrasto con la normativa in materia di
tutela della salute, dei lavoratori, dei beni culturali, del territorio e
dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano con particolare
riferimento alla tutela e allo sviluppo equilibrato dello spazio vitale
urbano e alla necessità di uno sviluppo organico e controllato del
territorio e del traffico, secondo quanto stabilito […] dagli indirizzi
regionali volti a promuovere e a mantenere un mercato distributivo
aperto per la tutela della collettività dei consumatori».
Il ricorrente ha impugnato l’art. 2 della legge reg. n. 5
del 2013 il quale inserisce l’art. 1-bis nella legge reg. n. 12 del
1999. Esso dispone che: «La Giunta regionale, con propria deliberazione e
sentite le associazioni delle imprese esercenti il commercio
maggiormente rappresentative in ambito regionale, definisce gli
indirizzi di cui all’articolo 1, comma 1-bis, per la determinazione,
sulla base di criteri e parametri oggettivi e nell’osservanza dei
vincoli di cui al medesimo articolo, degli obiettivi di equilibrio della
rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla dimensione
degli esercizi, con particolare riguardo alle grandi strutture di
vendita, tenuto conto della specificità dei singoli territori e
dell’interesse dei consumatori alla qualità, alla varietà,
all’accessibilità e alla convenienza dell’offerta».
2.1.– La disposizione in parola incide sulla materia
della «tutela della concorrenza» spettante, ai sensi dell’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost., alla competenza esclusiva del
legislatore statale.
Com’è noto, infatti, la recente giurisprudenza
costituzionale ha affermato che la nozione di concorrenza «riflette
quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi
regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le
misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti
ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente
sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le
modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure
legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a
consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o
eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e
della competizione tra imprese, rimuovendo cioè, in generale, i vincoli
alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis:
sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del
2007)». Inoltre, la Corte ha affermato che la materia «tutela della
concorrenza», dato il suo carattere finalistico, non è una materia di
estensione certa o delimitata, ma è configurabile come trasversale,
«corrispondente ai mercati di riferimento delle attività economiche
incise dall’intervento e in grado di influire anche su materie
attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle
regioni» (così, tra le più recenti, sentenza n. 38 del 2013; si veda,
inoltre, la sentenza n. 299 del 2012).
Dalla natura trasversale della competenza esclusiva
dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» la Corte ha tratto
la conclusione «che il titolo competenziale delle Regioni a statuto
speciale in materia di commercio non è idoneo ad impedire il pieno
esercizio della suddetta competenza statale e che la disciplina statale
della concorrenza costituisce un limite alla disciplina che le medesime
Regioni possono adottare in altre materie di loro competenza» (sentenze
n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012).
Espressione della competenza legislativa esclusiva dello
Stato in questa materia è stato ritenuto l’art. 31, comma 2, del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la
crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011,
n. 214. Tale disposizione detta una disciplina di liberalizzazione e di
eliminazione di vincoli all’esplicarsi dell’attività imprenditoriale nel
settore commerciale stabilendo che «costituisce principio generale
dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi
commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o
altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla
tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso
l’ambiente urbano, e dei beni culturali».
2.2.– Il censurato art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013
conferisce alla Giunta regionale un potere di indirizzo volto alla
determinazione di obiettivi di equilibrio della rete distributiva in
rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi. La
previsione e la conformazione di tale potere è tale da consentire alla
Giunta di incidere e condizionare l’agire degli operatori sul mercato,
incentivando o viceversa limitando l’apertura degli esercizi commerciali
in relazione alle diverse tipologie merceologiche, alle loro
dimensioni, ovvero al territorio. È evidente, dunque, che la previsione
in esame, autorizzando la Giunta “a definire indirizzi” per assicurare
l’equilibrio della rete distributiva, consente alla Regione interventi
che ben possono risolversi in limiti alle possibilità di accesso sul
mercato degli operatori economici. Ma – come già rilevato da questa
Corte – è ancor prima la stessa attribuzione di un tale potere alla
Giunta regionale in una materia devoluta alla competenza legislativa
esclusiva dello Stato a determinare la lesione dell’art. 117, secondo
comma, lettera e), Cost. (sentenza n. 38 del 2013).
Pertanto deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013.
3.– Al riconoscimento della illegittimità costituzionale
della disposizione ora esaminata segue la fondatezza della censura
avente ad oggetto l’art. 7 della legge reg. n. 5 del 2013 il quale
disciplina le medie e grandi strutture di vendita.
Il comma 1 di tale disposizione subordina l’apertura, il
trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di una media o
grande struttura di vendita ad apposita «autorizzazione rilasciata, nel
rispetto delle determinazioni assunte nel piano regolatore generale
comunale urbanistico e paesaggistico (PRG) e degli indirizzi di cui
all’articolo 1-bis, dallo sportello unico competente per territorio ai
sensi dell’articolo 10 della legge regionale n. 12/2011».
Il comma 4, impugnato dallo Stato, stabilisce che:
«Limitatamente alle strutture con superficie di vendita complessiva
superiore a 1.500 metri quadrati, l’autorizzazione di cui al comma 1 è
subordinata al parere della struttura regionale competente in materia di
commercio, rilasciato entro trenta giorni dalla richiesta e attestante
la conformità agli indirizzi di cui all’articolo 1-bis. Decorso
inutilmente il predetto termine, il parere si intende favorevolmente
espresso».
Tale disposizione, dunque, fa dipendere il rilascio
dell’autorizzazione alla apertura delle indicate strutture di vendita
dall’attestazione della conformità agli indirizzi definiti dalla Giunta
regionale ai sensi dell’art. 1-bis della legge reg. n. 12 del 1999,
introdotto – come si è visto – dall’art. 2 della legge reg. n. 5 del
2013. La norma impugnata rende evidente che – a differenza di quanto
sostenuto dalla difesa regionale, secondo la quale il potere di
indirizzo sarebbe sfornito di potestà inibitoria o sanzionatoria – tale
potere incide direttamente sulla possibilità di accesso al mercato degli
operatori economici, dal momento che preclude l’apertura, il
trasferimento di sede e l’ampliamento degli esercizi commerciali in esso
previsti laddove non risultino conformi agli indirizzi fissati dalla
Giunta.
Pertanto, stante il nesso che lega la disposizione in
questione a quella di cui all’art. 2 sopra esaminata, all’accoglimento
della censura relativa a questa norma consegue l’illegittimità
costituzionale anche dell’art. 7 impugnato, nella parte in cui subordina
il rilascio dell’autorizzazione in esso prevista alla attestazione del
rispetto degli indirizzi di cui all’art. 1-bis della legge reg. n. 12
del 1999.
4.– Il ricorrente impugna, altresì, l’art. 3 della legge
reg. n. 5 del 2013 il quale sostituisce l’art. 3 della legge reg. n. 12
del 1999 che disciplina i requisiti di accesso e di esercizio delle
attività commerciali.
Oggetto di censura è il comma 5 il quale stabilisce:
«Oltre a quanto previsto nei commi 1, 2, 3 e 4, l’esercizio, in
qualsiasi forma, di un’attività di commercio relativa al settore
merceologico alimentare, anche se effettuata nei confronti di una
cerchia determinata di persone, è consentito a coloro che siano in
possesso, alla data di presentazione della segnalazione certificata di
inizio attività (SCIA) di cui all’articolo 22 della legge regionale 6
agosto 2007, n. 19 (Nuove disposizioni in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), o
della domanda per il rilascio dell’autorizzazione, anche di uno dei
requisiti professionali elencati dall’articolo 71, comma 6, del D.Lgs.
59/2010».
Lo Stato censura la disposizione regionale per
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto si
porrebbe in contrasto con l’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010
che esclude la necessità del possesso dei requisiti in esso previsti nel
caso in cui l’attività sia esercitata nei confronti di una cerchia
determinata di persone.
4.1.– La disposizione statale richiamata dal ricorrente,
e cui la norma regionale censurata rinvia, individua i requisiti di
accesso e di esercizio delle attività commerciali. Con specifico
riguardo all’attività di commercio al dettaglio relativa al settore
merceologico alimentare o di un’attività di somministrazione di alimenti
e bevande è richiesto il possesso di uno dei seguenti requisiti
professionali:
«a) avere frequentato con esito positivo un corso
professionale per il commercio, la preparazione o la somministrazione
degli alimenti, istituito o riconosciuto dalle regioni o dalle province
autonome di Trento e di Bolzano;
b) avere, per almeno due anni, anche non continuativi,
nel quinquennio precedente, esercitato in proprio attività d’impresa nel
settore alimentare o nel settore della somministrazione di alimenti e
bevande o avere prestato la propria opera, presso tali imprese, in
qualità di dipendente qualificato, addetto alla vendita o
all’amministrazione o alla preparazione degli alimenti, o in qualità di
socio lavoratore o in altre posizioni equivalenti o, se trattasi di
coniuge, parente o affine, entro il terzo grado, dell’imprenditore, in
qualità di coadiutore familiare, comprovata dalla iscrizione
all’Istituto nazionale per la previdenza sociale;
c) essere in possesso di un diploma di scuola secondaria
superiore o di laurea, anche triennale, o di altra scuola ad indirizzo
professionale, almeno triennale, purché nel corso di studi siano
previste materie attinenti al commercio, alla preparazione o alla
somministrazione degli alimenti».
Nel testo originario la norma statale richiedeva
espressamente il possesso di uno di tali requisiti anche nel caso in cui
l’attività fosse svolta «nei confronti di una cerchia determinata di
persone». L’art. 8 del d.lgs. n. 147 del 2012, modificando l’art. 71,
comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 ha soppresso tale inciso di tal che
la norma statale non richiede più il possesso dei suddetti requisiti per
tale tipologia di attività.
A differenza della disposizione statale ora esaminata,
l’art. 3 della legge reg. n. 5 del 2013 − pur se tale legge è stata
emanata successivamente alla modifica dell’art. 71 del d.lgs. n. 59 del
2010 − continua a richiedere il possesso degli stessi requisiti previsti
dalla norma statale anche nel caso in cui l’attività di commercio nel
settore merceologico alimentare sia svolta nei confronti di una cerchia
determinata di persone.
4.2.– La censura proposta avverso tale disposizione legislativa non è fondata.
I requisiti richiesti dall’art. 71, comma 6, del d.lgs.
n. 59 del 2010 consistono – come si è visto – nell’aver frequentato un
corso professionale ad hoc, ovvero nella pregressa specifica esperienza
nel settore alimentare per un certo periodo di tempo, ovvero ancora nel
possesso di un titolo per il cui conseguimento sia previsto lo studio di
materie attinenti al commercio, alla preparazione o alla
somministrazione degli alimenti.
Tali requisiti, considerata la loro natura, appaiono
funzionali ad assicurare che coloro che svolgono attività nel settore
merceologico alimentare siano dotati di una specifica preparazione ed
esperienza professionale all’evidente scopo di salvaguardare la salute
dei consumatori in un settore delicato e fondamentale qual è quello
alimentare, assicurando che coloro che maneggiano, preparano e
commerciano alimenti abbiano maturato una adeguata professionalità.
Questa conclusione è avvalorata dalla considerazione che l’art. 3 del
decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il
rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione
della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di
contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248, stabilisce che, «al fine
di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari
opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché
di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di
condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul
territorio nazionale», le attività commerciali sono svolte senza limiti e
prescrizioni, tra cui il possesso di requisiti professionali
soggettivi. Tuttavia, poi, fa espressamente «salvi quelli riguardanti il
settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle
bevande» (art. 3, comma 1, lettera a). Ciò attesta che lo stesso
legislatore statale ha ritenuto che i requisiti in esame non incidano
sul profilo della liberalizzazione del mercato, apparendo necessari per
soddisfare esigenze di sicurezza alimentare.
Tali considerazioni portano ad escludere che la norma
impugnata attenga alla materia della «tutela della concorrenza» ponendo
limiti o barriere all’accesso al mercato con effetti restrittivi della
concorrenza. Essa, piuttosto, concerne la materia della «tutela della
salute», attribuita dall’art. 117, terzo comma, Cost. alla competenza
legislativa concorrente delle Regioni, ponendosi quale misura volta a
salvaguardare la salute dei consumatori.
Pertanto, l’art. 3 impugnato, nel richiedere il possesso
dei requisiti di cui all’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010
anche laddove le attività nel settore merceologico alimentare siano
svolte nei confronti di una cerchia limitata di persone, costituisce
espressione della potestà concorrente della Regione ai sensi dell’art.
117, terzo comma, Cost., non limitata da principi fondamentali della
legislazione statale che vengano ad impedirla.
5.– L’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale
inserisce l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del 1999, dispone che le
attività commerciali siano svolte senza il rispetto di orari di apertura
o di chiusura e senza obblighi di chiusura domenicale e festiva o della
mezza giornata infrasettimanale, «Fatta eccezione per l’attività di
commercio su area pubblica».
Il ricorrente sostiene che tale disposizione,
nell’escludere dalla applicazione delle norme di liberalizzazione degli
orari di apertura e chiusura delle attività commerciali quelle su area
pubblica, si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma,
lettera e), Cost. in quanto violerebbe le disposizioni, preposte alla
tutela della concorrenza, contenute nell’art. 28, comma 13, del d.lgs.
n. 114 del 1998 per il quale sono ammissibili limitazioni solo per
esigenze di sostenibilità ambientale o sociale.
5.1.– La questione è fondata.
Occorre al riguardo considerare che il profilo degli
orari e dei giorni di apertura e chiusura degli esercizi commerciali è
disciplinato dall’art. 3, comma 1, lettera d-bis) del d.l. n. 223 del
2006, come modificato dall’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, il quale
stabilisce che «al fine di garantire la libertà di concorrenza […] le
attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 114», sono svolte senza il rispetto – tra l’altro – di orari di
apertura e chiusura, dell’obbligo della chiusura domenicale e festiva,
nonché di quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale.
Nell’interpretare la citata normativa, questa Corte ha
ritenuto «che essa attui un principio di liberalizzazione, rimuovendo
vincoli e limiti alle modalità di esercizio delle attività economiche, e
ha così proseguito: “L’eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni
di apertura al pubblico degli esercizi commerciali favorisce, a
beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato più dinamico e più
aperto all’ingresso di nuovi operatori e amplia la possibilità di
scelta del consumatore. Si tratta, dunque, di misure coerenti con
l’obiettivo di promuovere la concorrenza, risultando proporzionate allo
scopo di garantire l’assetto concorrenziale del mercato di riferimento
relativo alla distribuzione commerciale” (sentenza n. 299 del 2012 […])»
(sentenza n. 38 del 2013).
Ora, tra le attività commerciali disciplinate dal d.lgs.
n. 114 del 1998, cui l’art. 3 del d.l. n. 223 del 2006 fa riferimento,
vi è anche quella che si svolge su aree pubbliche (artt. 27 e seguenti)
di tal che, anche per queste il legislatore statale ha inteso
espressamente eliminare vincoli in ordine agli orari di apertura e
chiusura dell’attività.
Le uniche limitazioni che è possibile porre allo
svolgimento dell’attività di commercio su area pubblica sono quelle
individuate dall’art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998, come
modificato dal d.lgs. n. 59 del 2010, riconducibili ad esigenze di
sostenibilità ambientale e sociale, a finalità di tutela delle zone di
pregio artistico, storico, architettonico e ambientale, nonché quelle
individuate dall’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011.
L’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, pur eliminando i
vincoli alla apertura degli esercizi commerciali, eccettua
espressamente dal suo ambito di applicazione le attività di commercio su
area pubblica. Il chiaro tenore letterale della disposizione consente
di ritenere che il principio di liberalizzazione degli orari in essa
affermato non si applichi all’attività commerciale su area pubblica. In
tal modo però, essa si presta a reintrodurre limiti e vincoli in
contrasto con la normativa statale di liberalizzazione, così invadendo
la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della
concorrenza e violando, quindi, l’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost.
Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 4 nella parte in cui, nel disporre che le
attività commerciali sono svolte senza il rispetto di orari di apertura o
di chiusura e senza obblighi di chiusura domenicale e festiva o della
mezza giornata infrasettimanale, esclude l’attività di commercio su area
pubblica.
6.– È impugnato l’art. 11 della legge reg. n. 5 del
2013, il quale inserisce nell’art. 9 della legge reg. n. 12 del 1999 il
comma 2-bis disponendo che «In attuazione dei principi previsti
dall’articolo 1, comma 1-bis, nei centri storici sono vietate l’apertura
e il trasferimento di sede delle grandi strutture di vendita».
Il ricorrente sostiene che la previsione di un divieto
assoluto tanto alla apertura quanto al trasferimento di sede di dette
strutture di vendita nei centri storici, incidendo nella materia della
«tutela della concorrenza», violerebbe l’art. 117, secondo comma,
lettera e), Cost. in quanto sarebbe eccessivamente restrittivo e dunque
anticoncorrenziale.
Ad avviso della difesa regionale la norma impugnata
costituirebbe esercizio legittimo della potestà legislativa esclusiva
regionale in materia di «commercio», nonché in materia di pianificazione
territoriale prevista dall’art. 2, primo comma, lettera g), della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle
d’Aosta). L’esercizio di tale potestà sarebbe reso necessario dalle
peculiari caratteristiche territoriali della Regione e «dalla limitata
ampiezza degli spazi vitali». La difesa regionale ha inoltre richiamato
la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza
11 marzo 2010, in causa C-384/08, Attanasio Group, e sentenza 24 marzo
2011, in causa C-400/08, Commissione europea contro Regno di Spagna) che
avrebbe riconosciuto la legittimità di limitazioni dell’accesso al
mercato giustificate da motivi imperativi di interesse generale, purché
non sorrette da ragioni puramente economiche. Infine, la Regione ha
richiamato il parere reso dall’Autorità garante della concorrenza in
data 11 dicembre 2013, sull’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011,
nel quale avrebbe riconosciuto la legittimità di misure regionali che
introducono restrizioni relativamente alle aree di insediamento di
attività produttive e commerciali, purché rispettose del principio di
non discriminazione.
6.1.– La censura è fondata.
Occorre preliminarmente osservare come la evocata
competenza primaria in materia di urbanistica deve in ogni caso
svolgersi, ai sensi dell’art. 2, primo comma, lettera g), dello statuto
regionale, «In armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento
giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali
e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle
riforme economico-sociali della Repubblica». Inoltre, questa Corte ha
osservato come il disposto dell’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del
2011, il quale sancisce la libertà di apertura di nuovi esercizi
commerciali sul territorio, senza contingenti, limiti territoriali o
altri vincoli di qualsiasi natura, «deve essere ricondotto nell’ambito
della tutela della concorrenza, rientrante nella competenza legislativa
esclusiva dello Stato, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost., norma in presenza della quale i titoli competenziali delle
Regioni, anche a statuto speciale, in materia di commercio e di governo
del territorio non sono idonei ad impedire l’esercizio della detta
competenza statale (ex multis: sentenza n. 299 del 2012 citata, punto
6.1. del Considerato in diritto), che assume quindi carattere
prevalente» (sentenza n. 38 del 2013; si veda, altresì, la sentenza n.
25 del 2009).
Non pertinente appare, poi, il richiamo alla
giurisprudenza comunitaria fatto dalla difesa regionale. Come già
affermato da questa Corte, la sentenza della Corte di giustizia
dell’Unione europea in data 24 marzo 2011 (in causa C-400/08) «riguarda,
in riferimento a grandi esercizi commerciali, restrizioni alla libertà
di stabilimento, che siano applicabili senza discriminazioni basate
sulla cittadinanza. Tali restrizioni possono essere giustificate da
motivi imperativi d’interesse generale, a condizione che siano idonee a
garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre
quanto necessario al raggiungimento dello stesso. Fra i motivi
imperativi riconosciuti dalla Corte figurano, tra gli altri, la
protezione dell’ambiente e la razionale gestione del territorio. Come si
vede, si tratta di una fattispecie diversa da quella qui in esame, sia
per la diversità del principio evocato (libertà di stabilimento e non
tutela della concorrenza), sia per le caratteristiche di fatto delle due
vicende» (sentenza n. 38 del 2013).
Le stesse argomentazioni possono essere svolte anche nel caso in esame.
L’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011 consente di
introdurre limiti alla apertura di nuovi esercizi commerciali per
ragioni di tutela dell’ambiente «ivi incluso l’ambiente urbano» e
riconosce alle Regioni la possibilità di prevedere «anche aree
interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove
possano insediarsi attività produttive e commerciali». Tuttavia la
disposizione statale stabilisce che ciò debba avvenire «senza
discriminazioni tra gli operatori».
Lo stesso parere dell’Autorità garante della concorrenza
e del mercato citato dalla difesa regionale, nel richiamare la
possibilità riconosciuta alle Regioni dalla normativa statale di
introdurre restrizioni con riguardo alle aree di insediamento delle
attività commerciali, afferma che ciò può avvenire a condizione del
«rigoroso rispetto dei principi di stretta necessità e proporzionalità
della limitazione, oltre che del principio di non discriminazione».
L’art. 11 censurato, nel vietare con legge l’apertura e
il trasferimento nei centri storici delle grandi strutture di vendita,
preclude del tutto e a priori detta possibilità. Tale divieto, proprio
per la sua assolutezza, costituisce una limitazione alla libertà di
apertura di nuovi esercizi commerciali e viene ad incidere «direttamente
sull’accesso degli operatori economici al mercato e, quindi, si risolve
in un vincolo per la libertà di iniziativa di coloro che svolgono o
intendano svolgere attività di vendita» (sentenza n. 38 del 2013).
Per tali ragioni, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale di tale disposizione.
7.– Il ricorrente ha, infine, impugnato l’art. 18 della
legge reg. n. 5 del 2013, il quale stabilisce che «Le disposizioni di
cui agli articoli 1, 1-bis, 3, 4, 4-bis, 5, commi 1, 2 e 4, 9 e 11-ter
della legge regionale n. 12/99, come modificati, sostituiti o inseriti
dalla presente legge, si applicano anche ai procedimenti autorizzatori
in corso alla data di entrata in vigore della medesima legge».
L’Avvocatura dello Stato sostiene che la norma impugnata
farebbe riferimento anche alle disposizioni che inaspriscono sanzioni
amministrative e che pertanto, stabilendo che esse si applicano anche ai
procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge
medesima, si porrebbe in contrasto con il principio tempus regit actum
in virtù del quale la sanzione da irrogarsi sarebbe quella applicabile
in base alla norma vigente nel tempo in cui fu commesso l’illecito.
Conseguentemente, l’articolo impugnato violerebbe gli artt. 25 e 117,
secondo comma, lettera l), Cost. con riferimento a quanto ribadito
dall’art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale, secondo cui la
legge non dispone che per l’avvenire.
La difesa regionale sostiene che le censure sarebbero
infondate in quanto l’art. 18 avrebbe valenza solo procedimentale e non
avrebbe invece alcun effetto retroattivo.
7.1.– Preliminarmente deve essere dichiarata
l’inammissibilità della censura formulata in relazione all’art. 117,
secondo comma, lettera l), Cost. dal momento che tale parametro risulta
meramente evocato dal ricorrente il quale non ha tuttavia in alcun modo
motivato la censura (ex plurimis, sentenza n. 272 del 2013).
7.2.– La questione sollevata con riferimento all’art. 25 Cost. è fondata.
Benché il ricorrente evochi il principio tempus regit
actum, dal contenuto della censura appare chiaro che in realtà lamenta
la violazione del principio di irretroattività delle disposizioni che
introducono sanzioni amministrative.
L’esame di tale censura deve prendere le mosse dalla
sentenza n. 196 del 2010 nella quale questa Corte ha affermato che dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sull’interpretazione
degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava «il principio secondo il quale
tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette
alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto».
Detto principio è peraltro desumibile anche dall’art.
25, secondo comma, Cost., «il quale – data l’ampiezza della sua
formulazione («Nessuno può essere punito […]») – può essere interpretato
nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia
prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia
riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di
sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti
già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato» (sempre
sentenza n. 196 del 2010).
Analogo principio è sancito altresì dalla disciplina
generale relativa agli illeciti amministrativi prevista dalla legge 24
novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), la quale, all’art.
1, pone la regola per cui nessuno può essere assoggettato a sanzioni
amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
prima della commissione della violazione; tale regola costituisce un
principio generale di quello specifico sistema.
L’art. 18 impugnato, nell’indicare le varie disposizioni
da esso introdotte, le quali devono avere applicazione anche ai
procedimenti in corso, richiama espressamente l’art. 11-ter della legge
reg. n. 12 del 1999 introdotto dall’art. 12, comma 1, della legge reg.
n. 5 del 2013.
Tale disposizione prevede l’irrogazione della sanzione
amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma di denaro da euro
1.800 a euro 6.000 per coloro che esercitino le attività commerciali di
cui all’art. 4, senza aver presentato la SCIA. Assoggetta inoltre alla
sanzione amministrativa del pagamento della somma da euro 800 a euro
3.000 coloro che non comunichino ogni variazione relativa a stati,
fatti, condizioni e titolarità indicati nella SCIA entro trenta giorni
dal suo verificarsi.
La disposizione censurata, dunque, prevede la sanzione
amministrativa anche per comportamenti posti in essere anteriormente
alla sua entrata in vigore, in tal modo violando il principio di
irretroattività sancito dall’art. 25 Cost.
Conseguentemente, deve essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 18 della legge reg. n. 5 del 2013 nella parte
in cui stabilisce che le disposizioni modificate o inserite da tale
legge, le quali prevedono sanzioni amministrative, si applicano ai
procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 e
dell’art. 11 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée
d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale 7
giugno 1999, n. 12 recante “Principi e direttive per l’esercizio
dell’attività commerciale”);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4
della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui esclude
dal proprio ambito di applicazione l’attività di commercio su area
pubblica;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7
della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui
subordina il rilascio dell’autorizzazione in esso prevista al rispetto
degli indirizzi di cui all’art. 1-bis della legge della Regione autonoma
Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive
per l’esercizio dell’attività commerciale);
4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18
della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui
stabilisce che le disposizioni modificate o inserite da tale legge le
quali prevedono sanzioni amministrative si applicano ai procedimenti in
corso alla data della sua entrata in vigore;
5) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 18 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del
2013, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l),
della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il
ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 3 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013,
promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato
in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 aprile 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI