venerdì 22 marzo 2019

Quando il disturbo del riposo integra reato?

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 25 febbraio 2019, n.8315MASSIMA
In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l’esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra: A) l’illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; B) il reato di cui all’art. 659 cod. pen., comma 1, qualora il mestiere o l’attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; C) il reato di cui all’art. 659 cod. pen., comma 2, qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l’esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995.



CASUS DECISUS
La Corte d’appello di Bologna, in parziale riforma dell’appellata sentenza del 23 luglio 2015 del Tribunale di Modena, confermava la condanna a carico dei gestori di un ristorante per i reati di cui agli artt. 388 e 659 cod. pen. perché, da un lato, non ottemperavano all’esecuzione del provvedimento emesso dal giudice civile che intimava loro di non svolgere, nello spazio adibito a parcheggio e nel fondo di loro proprietà di pertinenza del ristorante, attività comportanti un aumento del livello di rumorosità; per altro verso, inducevano lo svolgimento di attività rumorose, consentendo il transito ed il parcheggio, nella medesima area, di numerosi mezzi pesanti in orario anche serale e in giorni festivi di chiusura del ristorante, con produzione di elevato inquinamento acustico, tale da disturbare le occupazioni ed il riposo delle persone, omettendo altresì di predisporre idonei accorgimenti atti a limitare la rumorosità. Gli imputati, pertanto, ricorrevano in Cassazione, denunciando violazione di legge penale e processuale in relazione agli artt. 659 e 388 cod. pen. e L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, atteso che non si trattava di rumori molesti derivanti da schiamazzi e urla provenienti dal ristorante, ma di fonti sonore prodotte dalla circolazione di mezzi utilizzati dall’utenza del punto di ristoro, integranti l’illecito amministrativo di cui al menzionato art. 10.



ANNOTAZIONE
Quando il disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone integra un mero illecito amministrativo e quando reato? Questa la questione analizzata dai giudici di legittimità nella sentenza in epigrafe. Nell’occasione la Corte evidenzia che l’illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, ha riguardo, da un lato, alle sole emissioni sonore riguardanti l’esercizio di un’attività o di un mestiere rumoroso; dall’altro lato, postula che sia registrato soltanto il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia, dovendo ravvisarsi in tutti gli altri casi il reato di cui all’art. 659 cod. pen., commi 1 o 2. Tanto premesso e passando al caso di specie, gli imputati sono stati ritenuti responsabili di avere determinato una situazione di inquinamento acustico prodotto non nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile connessi ad un’attività o un mestiere rumoroso, bensì a cagione delle emissioni sonore originate dagli autoarticolati dei clienti del ristorante da loro gestito e che essi lasciavano parcheggiare nell’area prospicente al locale, emissioni tali da arrecare disturbo alla vita quotidiana ed al riposo di un numero indeterminato di persone. Non è revocabile in dubbio, da un lato, che la gestione di un ristorante non possa ritenersi di per sé integrare "un’attività o un mestiere rumoroso"; dall’altro lato, che l’inquinamento acustico conseguisse piuttosto dalla condotta dei gestori, i quali tolleravano che i propri clienti provocassero rumori atti a disturbare le occupazioni ed il riposo delle persone, gravando sui medesimi l’obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo ius excludendi o all’autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica. In definitiva, la condotta degli imputati non può che avere rilevanza penale ex art. 659 c.p.



TESTO DELLA SENTENZA

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 25 febbraio 2019, n.8315 - Pres. Paoloni – est. Bassi
Ritenuto in fatto
1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Bologna, in parziale riforma dell’appellata sentenza del 23 luglio 2015 del Tribunale di Modena, riconosciuta nei confronti di entrambi gli imputati R.E. e R.C. la continuazione fra i fatti sub iudice e quelli oggetto della sentenza della Corte d’appello di Bologna del 25 settembre 2009, ha rideterminato la pena complessivamente inflitta, con revoca della già concessa sospensione condizionale della pena e condanna alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile.
1.1. Giova precisare che i R. sono imputati dei reati di cui agli artt. 388 e 659 cod. pen. perché, quali gestori di un ristorante, da un lato, non ottemperavano all’esecuzione del provvedimento emesso dal giudice civile che intimava loro di non svolgere, nello spazio adibito a parcheggio e nel fondo di loro proprietà di pertinenza del ristorante, attività comportanti un aumento del livello di rumorosità; per altro verso, inducevano lo svolgimento di attività rumorose, consentendo il transito ed il parcheggio, nella medesima area, di numerosi mezzi pesanti in orario anche serale e in giorni festivi di chiusura del ristorante, con produzione di elevato inquinamento acustico, tale da disturbare le occupazioni ed il riposo delle persone, omettendo altresì di predisporre idonei accorgimenti atti a limitare la rumorosità.
2. Con atto a firma del comune difensore di fiducia, R.E. e R.C. chiedono l’annullamento del provvedimento per i motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.:
2.1. violazione di legge penale e processuale in relazione agli artt. 659 e 388 cod. pen. e L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, per avere la Corte d’appello ritenuto integrati i reati ascritti agli imputati sebbene, nei tredici sopralluoghi effettuati nell’ottobre 2007, la rumorosità ambientale sia risultata assente o scarsa e, a partire dal 2 febbraio 2011 (ultimo accesso dei carabinieri di Spilamberto), non siano più state registrate emissioni potenzialmente idonee a disturbare le occupazioni o il riposo di un numero indeterminato di persone, essendo stata indicata a carico la sola segnalazione della persona offesa F. portatrice di un interesse processuale personale. Per altro verso, denunciano l’erroneo inquadramento giuridico della seconda contestazione, là dove si trattava - non di rumori molesti derivanti da schiamazzi e urla provenienti dal ristorante - ma di fonti sonore prodotte dalla circolazione di mezzi utilizzati dall’utenza del punto di ristoro, integranti l’illecito amministrativo di cui al menzionato art. 10;
2.2. violazione di legge processuale in relazione all’art. 162-ter cod. pen. ed illogicità della motivazione, per avere i Giudici di merito erroneamente omesso di riconoscere la causa di estinzione del reato conseguente alla riparazione o al risarcimento del danno. Evidenziano che, per giurisprudenza costante, detta causa è riconoscibile anche qualora il risarcimento non sia accettato dalla persona offesa - come appunto nella specie, giusta l’offerta banco iudicis -, allorché il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo. D’altra parte, rimarcano come l’impossibilità di monetizzare il danno alla salute rilevata dalla Corte territoriale si ponga decisamente in contrasto con la giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno, essendo - ad ogni modo - il danno alla salute derivante dalle immissioni illecite già stato monetizzato nella sentenza del Tribunale di Modena;
2.3. violazione di legge in relazione all’art. 168 cod. pen. e art. 597 cod. proc. pen. e vizio di motivazione, per avere i giudici del gravame disposto la revoca della sospensione condizionale della pena già concessa agli imputati in primo grado, con una chiara violazione del divieto di reformatio in peius.
3. Nella memoria depositata in cancelleria, il difensore delle parti civili F.R. e N. ha invocato la declaratoria di inammissibilità o, comunque, il rigetto del ricorso proposto dai R. .
Considerato in diritto
1. I ricorsi sono infondati e devono essere pertanto disattesi.
2. All’evidenza destituito di fondamento è il primo motivo di ricorso col quale i ricorrenti lamentano, da un lato, l’erronea ricostruzione della vicenda sotto il profilo materiale e temporale; dall’altro lato, lo scorretto inquadramento giuridico nella specie, dovendo il fatto di cui all’art. 659 cod. pen. essere - a loro avviso - sussunto sotto l’illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2.
2.1. La prima doglianza costituisce mera riproduzione di una deduzione già mossa in appello cui la Corte territoriale ha dato ineccepibile risposta, illustrando attentamente e con considerazioni scevre da irragionevolezza le ragioni per le quali gli imputati si debbano ritenere responsabili di emissioni idonee a disturbare le occupazioni ed il riposo di un numero indeterminato di persone, soprattutto in orario notturno, protrattesi oltre la data dell’ultimo controllo della P.G. del 2 febbraio 2011 (v. pagine 5 - 7 della sentenza impugnata).
3. Quanto al secondo rilievo, va evidenziato come il tema della derubricazione della fattispecie non fosse stato dedotto con l’atto d’appello e risulta, ad ogni modo, infondato.
3.1. La L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, (come modificato dal D.Lgs. 17 febbraio 2017, n. 42, art. 13) dispone che 'Chiunque, nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore, supera i valori limite di cui all’art. 2, comma 1, fissati ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 1.000 Euro a 10.000 Euro'.
Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l’esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra: A) l’illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; B) il reato di cui all’art. 659 cod. pen., comma 1, qualora il mestiere o l’attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; C) il reato di cui all’art. 659 cod. pen., comma 2, qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l’esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995 (Sez. 3, n. 56430 del 18/07/2017, Vazzana, Rv. 273605).
3.2. Sulla scorta del condivisibile principio di diritto testè riportato, l’illecito amministrativo in oggetto ha riguardo, da un lato, alle sole emissioni sonore riguardanti l’esercizio di un’attività o di un mestiere rumoroso; dall’altro lato, postula che sia registrato soltanto il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia, dovendo ravvisarsi in tutti gli altri casi il reato di cui all’art. 659 cod. pen., commi 1 o 2.
3.3. Tanto premesso e passando alla delibazione del caso di specie, a tenore della contestazione di cui alla seconda imputazione - convalidata dalla ricostruzione storico-fattuale compiuta dai giudici della cognizione -, i R. sono stati ritenuti responsabili di avere determinato una situazione di inquinamento acustico prodotto non nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile connessi ad un’attività o un mestiere rumoroso, bensì a cagione delle emissioni sonore originate dagli autoarticolati dei clienti del ristorante da loro gestito e che essi lasciavano parcheggiare nell’area prospicente al locale, emissioni tali da arrecare disturbo alla vita quotidiana ed al riposo di un numero indeterminato di persone.
Non è revocabile in dubbio, da un lato, che la gestione di un ristorante non possa ritenersi di per sé integrare 'un’attività o un mestiere rumoroso'; dall’altro lato, che l’inquinamento acustico conseguisse piuttosto dalla condotta dei gestori, i quali tolleravano che i propri clienti provocassero rumori atti a disturbare le occupazioni ed il riposo delle persone, gravando sui medesimi l’obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo ius excludendi o all’autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica (ex plurimis Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, Gallo, Rv. 264501).
3.4. E ciò a tacere della genericità della deduzione, là dove i ricorrenti non hanno comunque indicato alcuna evidenza che, quand’anche si potesse ritenere trattarsi di 'emissioni sonore riguardanti l’esercizio di un’attività o di un mestiere rumoroso', esse si siano realizzate con il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia, sì da poter sussumere il fatto nell’illecito amministrativo di cui al citato art. 10, comma 2.
4. Non coglie nel segno il secondo motivo di doglianza, con cui il ricorrente si duole dell’omesso riconoscimento della causa di estinzione del reato ex art. 162-ter cod. pen. conseguente all’offerta di risarcimento del danno banco iudicis.
4.1. La Corte non può non concordare con il ricorrente là dove ha censurato l’assunto del Collegio del gravame circa la non monetizzabilità del danno alla salute dei vicini (v. pagine 8 e 9 della sentenza impugnata).
È invero pacifico che l’esposizione ad immissioni intollerabili possa determinare una lesione del diritto della persona al riposo notturno ed alla vivibilità della propria abitazione e dare conseguentemente luogo ad un danno alla salute, id est ad un danno non patrimoniale certamente suscettibile di risarcimento (Sez. 3 civile, n. 20927, del 16/10/2015, Rv. 637538).
4.2. Ciò nondimeno, la conclusione cui è pervenuto il Giudice a quo là dove ha negato l’operatività della causa estintiva del reato risulta ineccepibile alla luce del rilevato omesso adempimento delle prescrizioni dettate dai provvedimenti dell’A.G. e, dunque, della mancata eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato che costituisce condicio sine qua non per l’accesso all’istituto.
4.3. Non può inoltre omettersi di porre in rilievo come la causa estintiva in parola presupponga comunque che l’imputato abbia riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato mediante le restituzioni o il risarcimento. Termine che non risulta osservato nella specie, dal momento che l’imputato ha compiuto l’offerta banco iudicis della somma di 10.000 Euro alla parte civile costituita (come dato conto in sentenza e nello stesso ricorso) soltanto in data 10 novembre 2017, durante il giudizio di secondo grado e, dunque, del tutto intempestivamente.
5. È manifestamente infondato il terzo motivo, col quale il ricorrente attacca la decisione in verifica nella parte in cui la Corte distrettuale ha revocato la sospensione condizionale della pena già concessa dagli imputati in primo grado.
5.1. Mette conto di porre in rilievo come la Corte d’appello abbia disposto la revoca della sospensione condizionale riconosciuta ai ricorrenti in primo grado all’esito del riconoscimento della continuazione fra i fatti sub iudice e quelli già decisi con altra sentenza passata in giudicato.
L’adozione del provvedimento oggetto di doglianza discende dunque, non dalla mera rivalutazione dei medesimi fatti oggetto di delibazione in primo grado - nel qual caso potrebbe in effetti venire in rilievo una violazione del divieto di reformatio in peius -, ma dalla piana applicazione del disposto dell’art. 168 cod. pen. alla situazione, dissimile da quella valutata dal primo giudice, conseguente dal riconoscimento dell’istituto della continuazione.
5.2. Va dunque ribadito il condivisibile principio di diritto alla stregua del quale il divieto per il giudice d’appello di revocare i benefici concessi in primo grado va inteso soltanto come semplice limitazione del potere del giudice di secondo grado di valutare discrezionalmente l’opportunità di mantenere fermi i benefici stessi, ma sempre sul presupposto che persistano le condizioni stabilite dalla legge. Ne deriva che qualora la sospensione condizionale della pena risulti incompatibile 'ope iuris' con la nuova situazione giuridica (applicazione della continuazione non ritenuta in primo grado) determinatasi nel giudizio di impugnazione il divieto della reformatio in peius non è applicabile (Sez. 2, n. 565 del 21/10/1985 - dep. 1986, Pastore, Rv. 171604).
5. Dal rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.
5.1. Dal rigetto del ricorso consegue altresì la condanna dei R. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalle costituite parti civili F.R. e F.N. , spese che - avendo riguardo alle tariffe professionali ed all’impegno professionale profuso, nonché tenuto conto della espletata nei confronti di due parti processuali - si ritiene equo liquidare in complessivi Euro quattromilaseicento oltre accessori di legge.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed altresì alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalle costituite parti civili F.R. e F.N. , spese che liquida in complessivi Euro quattromilaseicento oltre accessori di legge.
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