Il Tribunale di Firenze ha stabilito che gli insulti inviati privatamente ad altri colleghi non hanno rilevanza sul piano disciplinare.
Il Tribunale di Firenze, sezione lavoro, con la sentenza del 16 ottobre 2019 ha accolto il ricorso di un lavoratore che era stato licenziato per aver diffuso in un una chat privata di Whatsapp, condivisa con altri colleghi, dei messaggi vocali dai contenuti minatori e razzisti nei confronti del proprio superiore gerarchico e di altri dipendenti.
Dall’istruttoria è emerso che i messaggi diffamatori erano stati effettivamente inviati dal ricorrente, ma all’interno di una chat chiusa, alla quale potevano partecipare solo determinati soggetti ammessi, che nel caso di specie erano una ristretta cerchia di colleghi di lavoro.
Il Tribunale ha messo in rilievo la distinzione, che era già stata fatta emergere dalla Corte di Cassazione nel 2018, tra messaggi diffusi pubblicamente via web, ai quali può avere accesso una pluralità indistinta e potenzialmente illimitata di utenti, e messaggi scambiati su piattaforme ad accesso limitato, come nel caso in esame. La Suprema Corte aveva affermato: "l’invio di messaggi riservati ai soli ai partecipanti a una chat è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, ove anche intesa in senso lato, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell'ambiente sociale".
Anche secondo il giudice fiorentino, mentre gli insulti diffusi pubblicamente acquisiscono natura diffamatoria e ingiuriosa, i messaggi offensivi trasmessi in chat privata non equivalgono a diffamazione, in quanto espressione del diritto di corrispondenza privata tra colleghi di lavoro. Per queste ragioni, l'invio di messaggi di ogni tipo avvenuto privatamente nelle chat a numero chiuso "porta ad escludere qualsiasi intento o idonea modalità di diffusione denigratoria", pertanto, oltre che non costituire diffamazione, non costituiscono nemmeno violazione dell’obbligo di fedeltà e perciò non possono avere alcun rilievo sul piano disciplinare.
Per queste ragioni, il Tribunale ha concluso che il fatto non sussiste per mancanza dell'elemento materiale, annullato il licenziamento e ordinato al datore di lavoro di reintegrare il dipendente e di pagargli le retribuzioni nel frattempo maturate.
Il Tribunale di Firenze, sezione lavoro, con la sentenza del 16 ottobre 2019 ha accolto il ricorso di un lavoratore che era stato licenziato per aver diffuso in un una chat privata di Whatsapp, condivisa con altri colleghi, dei messaggi vocali dai contenuti minatori e razzisti nei confronti del proprio superiore gerarchico e di altri dipendenti.
Dall’istruttoria è emerso che i messaggi diffamatori erano stati effettivamente inviati dal ricorrente, ma all’interno di una chat chiusa, alla quale potevano partecipare solo determinati soggetti ammessi, che nel caso di specie erano una ristretta cerchia di colleghi di lavoro.
Il Tribunale ha messo in rilievo la distinzione, che era già stata fatta emergere dalla Corte di Cassazione nel 2018, tra messaggi diffusi pubblicamente via web, ai quali può avere accesso una pluralità indistinta e potenzialmente illimitata di utenti, e messaggi scambiati su piattaforme ad accesso limitato, come nel caso in esame. La Suprema Corte aveva affermato: "l’invio di messaggi riservati ai soli ai partecipanti a una chat è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, ove anche intesa in senso lato, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell'ambiente sociale".
Anche secondo il giudice fiorentino, mentre gli insulti diffusi pubblicamente acquisiscono natura diffamatoria e ingiuriosa, i messaggi offensivi trasmessi in chat privata non equivalgono a diffamazione, in quanto espressione del diritto di corrispondenza privata tra colleghi di lavoro. Per queste ragioni, l'invio di messaggi di ogni tipo avvenuto privatamente nelle chat a numero chiuso "porta ad escludere qualsiasi intento o idonea modalità di diffusione denigratoria", pertanto, oltre che non costituire diffamazione, non costituiscono nemmeno violazione dell’obbligo di fedeltà e perciò non possono avere alcun rilievo sul piano disciplinare.
Per queste ragioni, il Tribunale ha concluso che il fatto non sussiste per mancanza dell'elemento materiale, annullato il licenziamento e ordinato al datore di lavoro di reintegrare il dipendente e di pagargli le retribuzioni nel frattempo maturate.
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Un passo della sentenza del Tribunale di Firenze, sezione lavoro, con la sentenza del 16 ottobre 2019:
Ne consegue, in base ai principi dettati dalla citata Cass. 21965/2018, l'insussistenza del fatto addebitato; infatti, secondo tale orientamento ermeneutico, trattandosi di messaggi vocali indirizzati
a un gruppo chiuso, e quindi insuscettibili di diffusione all'esterno, sono equiparabili a corrispondenza privata, e non possono configurare atti idonei a comunicare o diffondere all'esterno affermazioni offensive, discriminatorie o minatorie, con conseguente insussistenza di fatto connotato dal carattere di illiceità.Ne deriva, per la recente giurisprudenza di legittimità (Cass. 18418/2016; 13383/2017; Cass. 12102/2018), l'applicabilità dell'invocata tutela reintegratoria di cui all'art. 3, II co., D.Lgs. 23/2015; non emerge dagli atti un aliunde perceptum detraibile dall'indennità risarcitoria xxxxxxx va quindi condannata a reintegrare xxxxxxxxxx nel posto di lavoro, e a pagargli un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (per l'importo di € 1.623,91 mensili, come da conteggio di parte ricorrente non contestato) dal 4.9.2018 fino al giorno dell'effettiva reintegrazione, in misura comunque non superiore a dodici mensilità, nonché a versare i relativi contributi previdenziali e assistenziali dal 4.9,2018 al giorno dell'effettiva reintegrazione.
a un gruppo chiuso, e quindi insuscettibili di diffusione all'esterno, sono equiparabili a corrispondenza privata, e non possono configurare atti idonei a comunicare o diffondere all'esterno affermazioni offensive, discriminatorie o minatorie, con conseguente insussistenza di fatto connotato dal carattere di illiceità.Ne deriva, per la recente giurisprudenza di legittimità (Cass. 18418/2016; 13383/2017; Cass. 12102/2018), l'applicabilità dell'invocata tutela reintegratoria di cui all'art. 3, II co., D.Lgs. 23/2015; non emerge dagli atti un aliunde perceptum detraibile dall'indennità risarcitoria xxxxxxx va quindi condannata a reintegrare xxxxxxxxxx nel posto di lavoro, e a pagargli un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (per l'importo di € 1.623,91 mensili, come da conteggio di parte ricorrente non contestato) dal 4.9.2018 fino al giorno dell'effettiva reintegrazione, in misura comunque non superiore a dodici mensilità, nonché a versare i relativi contributi previdenziali e assistenziali dal 4.9,2018 al giorno dell'effettiva reintegrazione.