giovedì 11 ottobre 2018

Alimenti – è reato vendere i panini per strada

Alimenti – è reato vendere i panini per strada




La Suprema Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 18 luglio – 9 ottobre 2018, n. 45274 depositata il 9.10.2018, ha stabilito che non si possono vendere panini per strada ( bancarelle ambulanti e commercio di prodotti alimentari) se non ci sono protezioni per es.(dei teli di sopra), pertanto è reato di pericolo ai sensi dell’art.5 lett.b della legge 283/1962, così chi vende cassette di frutta e verdura o le caramelle gommose alle fiere deve predisporre delle protezioni per difendere gli alimenti dai batteri e dall’inquinamento ambientale.
Pertanto, la detenzione di alimenti in cattivo stato di conservazione, tali potenzialmente da poter cagionare una tossinfezione alimentare.

Solo l’anno scorso la giurisprudenza si era scagliata contro i venditori di pomodori, mele e altri prodotti del mondo vegetale. Il reato di «vendita di prodotti in cattivo stato di conservazione» non risparmia il fruttivendolo che vende i frutti dell’orto sul ciglio della strada (peraltro occupando il suolo pubblico), esponendo i generi alimentari alle esalazioni dei tubi di scarico delle macchine e degli altri agenti inquinanti. Esporre frutta e verdura sul banco all’aperto è dunque un illecito penale poiché fa male alla nostra salute.

La legge che punisce tale comportamento è (Art. 5 lett. b) della legge 283/1962)
Tale legge, sancisce che «è vietato, nella preparazione degli alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo, sostanze alimentari: […] b) in cattivo stato di conservazione».
Quindi, secondo i giudici della Suprema Corte, la sola esposizione all’aperto può condizionare lo stato di conservazione degli alimenti, in violazione della disciplina dettata dalla normativa.

Ancora la Corte, dice, «l’accertamento dello stato di conservazione di alimenti detenuti per la vendita, non richiede né un’analisi di laboratorio né una perizia, in quanto il giudice di merito può ugualmente pervenire a tale risultato attraverso altri elementi di prova, quali le testimonianze di soggetti addetti alla vigilanza, quando lo stato di cattiva conservazione sia palese e quindi rilevabile da una semplice ispezione» (Cass. sent. n. 35234/2007; n. 14250/2006; n. 7521/1990).

Quindi riflettori puntati, in particolare, sul cattivo stato di conservazione dei prodotti.  

I giudici della Suprema Corte sottolineano che «lo stato di cattiva conservazione riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate o messe in vendita senza l’osservanza delle prescrizioni dirette a prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione o contaminazione» o, comunque, di «una alterazione del prodotto».
Ciò significa che a inchiodare il commerciante, è «l’inosservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie volte a garantire la buona conservazione» del pane, e a prescindere dalla sua «genuinità».

 

Si riporta la sentenza in questione.




Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 18 luglio – 9 ottobre 2018, n. 45274
Presidente Sarno – Relatore Gai

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 12 giugno 2015, il Tribunale di Napoli ha condannato Sa. Ca., alla pena di Euro 206,00 di ammenda, con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, per il reato di cui agli artt. 5 lett. b) e 6 della legge n. 283 del 1962 perché, in forma ambulante, deteneva per la vendita Kg 10 di pane in cattivo stato di conservazione sotto il profilo igienico-sanitario, in quanto privo di protezione ed esposto ad inquinamento ambientale.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore, e ha chiesto l’annullamento, deducendo, con un unico motivo, la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. in relazione all’erronea applicazione della legge penale e il correlato vizio di motivazione.
Il Tribunale avrebbe errato nel ritenere responsabile l’imputato per il reato contestato e ciò in quanto la condotta di questi integrerebbe una condotta di cattive modalità di conservazione e non di cattivo stato di conservazione come prescrive la legge.
Secondo la giurisprudenza, il cattivo stato di conservazione farebbe riferimento ad un momento antecedente la messa in vendita e, dunque, farebbe riferimento alla qualità intrinseca del prodotto, mentre la cattiva modalità di conservazione farebbe riferimento alle qualità estrinseche e non configurerebbe l’elemento oggettivo del reato. L’apparato argomentativo sarebbe così viziato da erronea applicazione della legge penale e illogicità della motivazione.
3. Il Procuratore generale ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
Considerato in diritto
4. Il ricorso è manifestamente infondato.
Va osservato che costituisce orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, ai fini della configurabilità della contravvenzione prevista dall’art. 5, lett. b, della legge 30 aprile 1962 n. 283, che vieta l’impiego nella produzione di alimenti, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione, o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, non è necessario che quest’ultimo si riferisca alle caratteristiche intrinseche di dette sostanze, ma è sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, le quali devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza (Sez. U, n. 443 del 19/12/2001, Butti, Rv. 220716; Sez. 3, n. 44927 del 14/06/2016, Ballico, Rv. 268715; Sez. 3, n. 15094 del 11/03/2010, Greco, Rv. 246970).
In questo senso, lo stato di cattiva conservazione riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate o messe in vendita senza l’osservanza delle prescrizioni dirette a prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione, contaminazione o comunque alterazione del prodotto (Sez. 3, n. 33313 del 28/11/2012, Maretto, Rv. 257130; Sez. 3, n. 35234 del 28/06/2007, Lepori, Rv. 237519). In particolare, secondo l’arresto delle S.U. Butti il termine “stato di conservazione”, seppur ambiguo, nella maggior parte delle ipotesi indica l’insieme della attività volte al mantenimento delle caratteristiche originarie di una cosa.
Si è poi sottolineato che a sostegno di questa ricostruzione milita anche un altro aspetto di carattere sistematico: diversamente ragionando nessuno spazio di operatività avrebbe la disposizione di cui all’art. 5 lett. b, a fronte delle lett. a, c, d, le quali, nell’arco che va dalla privazione degli elementi nutritivi all’alterazione degli stessi, abbracciano tutti gli aspetti oggettivamente rilevabili di degenerazione delle caratteristiche intrinseche degli alimenti. Da qui la conclusione che il cattivo stato di conservazione della lett. b riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate e cioè preparate o confezionate o messe in vendita senza l’osservanza di quelle prescrizioni di leggi, regolamenti o atti amministrativi generali che sono dettate a garanzia della buona conservazione al fine di prevenire il pericolo di

una loro precoce degradazione, contaminazione o comunque alterazione (scatolame bombato, arrugginito, involucri forati, intaccati, unti, bagnati, esposizione prolungata ai raggi solari di vino e olio, latte lasciato a temperature inadeguate, alimenti collocati in prossimità di insetti e simili). Dunque, ai fini dell’integrazione della contravvenzione in esame si deve ritenere sufficiente l’inosservanza delle prescrizioni igienico sanitarie volte a garantire la buona conservazione del prodotto.
5. Tale è il caso della messa in vendita di pane non confezionato sulla pubblica via esposto, perciò, agli agenti atmosferici in grado di alternarne le proprietà intrinseche.
Il Tribunale ha fatto buon governo dei principi qui rammentati e con motivazione congrua e tutt’altro che illogica, oltre che corretta in diritto, ha confermato la responsabilità dell’imputato per il reato contestato.
6. Sulla scorta delle predette conclusioni il ricorso appare inammissibile stante la manifesta infondatezza del motivo e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 18/07/2018.