Alimenti – è reato vendere i panini per
strada
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La Suprema Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 18 luglio – 9
ottobre 2018, n. 45274 depositata il 9.10.2018, ha
stabilito che non si possono vendere panini per strada (
bancarelle ambulanti e commercio di prodotti alimentari) se non ci sono
protezioni per es.(dei teli di sopra), pertanto è reato di pericolo ai sensi dell’art.5 lett.b della
legge 283/1962, così chi vende cassette di frutta e verdura o le caramelle
gommose alle fiere deve predisporre delle protezioni per difendere gli alimenti
dai batteri e dall’inquinamento ambientale.
Pertanto, la detenzione di alimenti in cattivo stato di
conservazione, tali potenzialmente da poter cagionare una tossinfezione
alimentare.
Solo
l’anno scorso la giurisprudenza si era scagliata contro i venditori di
pomodori, mele e altri prodotti del mondo vegetale. Il reato di
«vendita di prodotti in cattivo stato di conservazione» non risparmia il
fruttivendolo che vende i frutti dell’orto sul ciglio della strada (peraltro
occupando il suolo pubblico), esponendo i generi alimentari alle esalazioni dei
tubi di scarico delle macchine e degli altri agenti inquinanti. Esporre frutta
e verdura sul banco all’aperto è dunque un illecito penale poiché fa male alla
nostra salute.
La legge che punisce tale
comportamento è (Art. 5 lett. b)
della legge 283/1962)
Tale legge, sancisce che
«è vietato, nella preparazione degli alimenti o bevande, vendere, detenere per
vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque
distribuire per il consumo, sostanze alimentari: […] b) in cattivo
stato di conservazione».
Quindi, secondo i giudici
della Suprema Corte, la sola esposizione all’aperto può condizionare lo stato
di conservazione degli alimenti, in violazione della disciplina dettata dalla
normativa.
Ancora la Corte, dice,
«l’accertamento dello stato di conservazione di alimenti detenuti per la
vendita, non richiede né un’analisi di laboratorio né una perizia, in quanto il
giudice di merito può ugualmente pervenire a tale risultato attraverso altri
elementi di prova, quali le testimonianze di soggetti addetti alla vigilanza,
quando lo stato di cattiva conservazione sia palese e quindi rilevabile da una
semplice ispezione» (Cass. sent. n. 35234/2007; n. 14250/2006; n. 7521/1990).
Quindi riflettori puntati,
in particolare, sul cattivo stato di conservazione dei prodotti.
I giudici della Suprema
Corte sottolineano che «lo stato di cattiva conservazione riguarda quelle
situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora genuine e
sane, si presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate o messe in
vendita senza l’osservanza delle prescrizioni dirette a prevenire il pericolo
di una loro precoce degradazione o contaminazione» o, comunque, di «una
alterazione del prodotto».
Ciò significa che a
inchiodare il commerciante, è «l’inosservanza delle prescrizioni
igienico-sanitarie volte a garantire la buona conservazione» del pane, e a
prescindere dalla sua «genuinità».
Si riporta la sentenza in
questione.
Corte di Cassazione, sez.
III Penale, sentenza 18 luglio – 9 ottobre 2018, n. 45274
Presidente Sarno – Relatore
Gai
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 12
giugno 2015, il Tribunale di Napoli ha condannato Sa. Ca., alla pena di Euro
206,00 di ammenda, con il riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche, per il reato di cui agli artt. 5 lett. b) e 6 della legge n. 283 del
1962 perché, in forma ambulante, deteneva per la vendita Kg 10 di pane in
cattivo stato di conservazione sotto il profilo igienico-sanitario, in quanto
privo di protezione ed esposto ad inquinamento ambientale.
2. Ha proposto ricorso per
cassazione l’imputato, a mezzo del difensore, e ha chiesto l’annullamento,
deducendo, con un unico motivo, la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b)
cod. proc. pen. in relazione all’erronea applicazione della legge penale e il
correlato vizio di motivazione.
Il Tribunale avrebbe errato
nel ritenere responsabile l’imputato per il reato contestato e ciò in quanto la
condotta di questi integrerebbe una condotta di cattive modalità di
conservazione e non di cattivo stato di conservazione come prescrive la legge.
Secondo la giurisprudenza,
il cattivo stato di conservazione farebbe riferimento ad un momento antecedente
la messa in vendita e, dunque, farebbe riferimento alla qualità intrinseca del
prodotto, mentre la cattiva modalità di conservazione farebbe riferimento alle
qualità estrinseche e non configurerebbe l’elemento oggettivo del reato.
L’apparato argomentativo sarebbe così viziato da erronea applicazione della
legge penale e illogicità della motivazione.
3. Il Procuratore generale
ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
Considerato in diritto
4. Il ricorso è
manifestamente infondato.
Va osservato che costituisce
orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo
cui, ai fini della configurabilità della contravvenzione prevista dall’art. 5,
lett. b, della legge 30 aprile 1962 n. 283, che vieta l’impiego nella produzione
di alimenti, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione, o
comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari in cattivo
stato di conservazione, non è necessario che quest’ultimo si riferisca alle
caratteristiche intrinseche di dette sostanze, ma è sufficiente che esso
concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, le quali devono
uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso
contrario, a regole di comune esperienza (Sez. U, n. 443 del 19/12/2001, Butti,
Rv. 220716; Sez. 3, n. 44927 del 14/06/2016, Ballico, Rv. 268715; Sez. 3, n.
15094 del 11/03/2010, Greco, Rv. 246970).
In questo senso, lo stato di
cattiva conservazione riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari,
pur potendo essere ancora genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè
preparate, confezionate o messe in vendita senza l’osservanza delle
prescrizioni dirette a prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione,
contaminazione o comunque alterazione del prodotto (Sez. 3, n. 33313 del
28/11/2012, Maretto, Rv. 257130; Sez. 3, n. 35234 del 28/06/2007, Lepori, Rv.
237519). In particolare, secondo l’arresto delle S.U. Butti il termine “stato
di conservazione”, seppur ambiguo, nella maggior parte delle ipotesi indica
l’insieme della attività volte al mantenimento delle caratteristiche originarie
di una cosa.
Si è poi sottolineato che a
sostegno di questa ricostruzione milita anche un altro aspetto di carattere
sistematico: diversamente ragionando nessuno spazio di operatività avrebbe la
disposizione di cui all’art. 5 lett. b, a fronte delle lett. a, c, d, le quali,
nell’arco che va dalla privazione degli elementi nutritivi all’alterazione
degli stessi, abbracciano tutti gli aspetti oggettivamente rilevabili di
degenerazione delle caratteristiche intrinseche degli alimenti. Da qui la
conclusione che il cattivo stato di conservazione della lett. b riguarda quelle
situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora
perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate e cioè preparate o
confezionate o messe in vendita senza l’osservanza di quelle prescrizioni di
leggi, regolamenti o atti amministrativi generali che sono dettate a garanzia
della buona conservazione al fine di prevenire il pericolo di
una loro precoce
degradazione, contaminazione o comunque alterazione (scatolame bombato,
arrugginito, involucri forati, intaccati, unti, bagnati, esposizione prolungata
ai raggi solari di vino e olio, latte lasciato a temperature inadeguate, alimenti
collocati in prossimità di insetti e simili). Dunque, ai fini dell’integrazione
della contravvenzione in esame si deve ritenere sufficiente l’inosservanza
delle prescrizioni igienico sanitarie volte a garantire la buona conservazione
del prodotto.
5. Tale è il caso della
messa in vendita di pane non confezionato sulla pubblica via esposto, perciò,
agli agenti atmosferici in grado di alternarne le proprietà intrinseche.
Il Tribunale ha fatto buon
governo dei principi qui rammentati e con motivazione congrua e tutt’altro che
illogica, oltre che corretta in diritto, ha confermato la responsabilità
dell’imputato per il reato contestato.
6. Sulla scorta delle
predette conclusioni il ricorso appare inammissibile stante la manifesta
infondatezza del motivo e il ricorrente deve essere condannato al pagamento
delle spese processuali.
Tenuto, poi, conto della
sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e
considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato
presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in
via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il
ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al
versamento di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 18/07/2018.