martedì 24 novembre 2015

La Cassazione sugli assenteisti: «Truffa aggravata per il badge timbrato dal collega»

di Andrea Alberto Moramarco
La sentenza della Corte di cassazione n. 45698/15
L'utilizzo indebito del badge da parte del dipendente pubblico, consistente nel timbrare il cartellino del collega di volta in volta assente, integra gli artifici e i raggiri del reato di truffa, tali da trarre in inganno l'amministrazione di appartenenza e provocare all'ente stesso dei danni economicamente apprezzabili, nonché di immagine, per via della mancata presenza sul posto dei lavoratori. Lo ha ribadito la Cassazione con la sentenza n. 45698/15 depositata ieri, dichiarando inammissibili i ricorsi presentati da alcuni dipendenti pubblici contro la misura cautelare loro imposta dai giudici di merito.

I fatti
Gli episodi di «assenteismo» in questione sono molto simili a quelli recentemente venuti alla ribalta della cronaca che hanno coinvolto alcuni dipendenti del Comune di Sanremo. In questo caso i protagonisti sono agenti del comando di Polizia municipale e lavoratori socialmente utili dipendenti di un Comune del casertano. La vicenda era sorta in seguito a un'indagine effettuata dai Carabinieri del luogo dalla quale era emerso che alcuni dipendenti della Polizia locale e Lsu che prestavano servizio presso il Comune, pur avendo registrato l'ingresso tramite il badge in loro possesso, non risultavano fisicamente presenti sul posto di lavoro. Di seguito, venivano installate delle videocamere nascoste in prossimità delle macchinette marcatempo poste all'ingresso degli uffici comunali dalle cui riprese era emerso «un sistema di scambi reciproci dei badge personali», con gruppi di dipendenti che «vicendevolmente si scambiavano il badge per la rilevazione delle presenze per conto dei colleghi assenti» e con altri che «sistematicamente entravano ed uscivano dalla sede di lavoro timbrando non solo il badge personale ma contestualmente utilizzavano altri 3 o 4 badge dei colleghi». Durante la fase delle indagini preliminari il Gip prima e il Tribunale del riesame poi imponevano agli indagati la misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ritenendo sussistenti i gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati di truffa aggravata ai danni dello Stato, previsto dall'articolo 640 c.p., e quello di false attestazioni o certificazioni, di cui all'articolo 55-quinquies del t.u. sul pubblico impiego.

Il ricorso
I dipendenti comunali impugnavano l'ordinanza del Tribunale del riesame contestando l'assunto dei giudici di merito per cui l'indebito utilizzo del badge dimostrerebbe l'assenza dal posto di lavoro e, dunque, sarebbe tale da integrare gli estremi dei due reati contestati. Per i ricorrenti, infatti, le timbrature irregolari farebbero solo presumere l'effettiva assenza del lavoratore per l'intera giornata lavorativa.

Il giudizio sulle misure cautelari
La Cassazione ritiene il ricorso dei dipendenti comunali manifestamente infondato in primis in quanto i ricorrenti chiedono alla Corte di operare una diversa lettura del materiale indiziario in senso più favorevole alla difesa. Ma ciò non è possibile. La Corte ricorda infatti che le misure cautelari personali devono essere applicate utilizzando un livello di prudenza massimo, sulla scorta di un «incisivo giudizio prognostico di elevata probabilità di colpevolezza» e sulla base degli indizi raccolti. E tali regole sono state rispettate dai giudici di merito che, nella specie, hanno effettuato una valutazione adeguata e congrua degli elementi indizianti raccolti, insindacabile nel merito in sede di legittimità.

La truffa aggravata
Ciò posto, passando alla valutazione del fumus dei reati contestati, per i giudici di legittimità la dinamica e la reiterazione degli episodi accertati sono tali da far assumere al quadro indiziario quella gravità sufficiente a giustificare l'adozione di una misura cautelare. Difatti, sussiste nella specie il reato di truffa aggravata poiché i dipendenti comunali con le loro condotte hanno tratto in inganno l'amministrazione di appartenenza provocando, per via della reiterazione delle medesime condotte, dei danni economicamente apprezzabili. Per la Corte, infatti, la timbratura del cartellino elettronico assume una funzione certificativa del rispetto degli orari di lavoro e dell'espletamento in concreto della propria attività e, di conseguenza, «qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di attestazione è di per sé idonea a trarre in inganno l'amministrazione» circa la presenza del dipendente sul luogo di lavoro. Quanto al danno poi, l'ingiustificato protrarsi delle condotte ha prodotto quel pregiudizio «patrimoniale e d'immagine conseguente alla mancata presenza del dipendente nel presidio lavorativo, rimato così sguarnito della corrispondente unità di lavoro».

Il reato di false attestazioni
Infine, discorso analogo vale per il reato di false attestazioni e certificazioni previsto dal Testo unico sul pubblico impiego, che concorre con il delitto di truffa. Tale reato si consuma – spiegano i giudici – con la mera falsa attestazione della presenza del dipendente, la cui prova è data dall'«irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze».

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