martedì 7 gennaio 2014

Furto con strappo e rapina.Differenze secondo la Cassazione



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 11 dicembre 2013, n. 49832

Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, richiamata nella sentenza impugnata e anche nel ricorso “è configurabile il furto con strappo quando la violenza è immediatamente rivolta verso la cosa e solo in via del tutto indiretta verso la persona che la detiene, anche se, a causa della relazione fisica intercorrente tra cosa sottratta e possessore, può derivare una ripercussione indiretta e involontaria sulla vittima, mentre ricorre la rapina allorché la “res” è particolarmente aderente al corpo del possessore e questi, istintivamente e deliberatamente, contrasta la sottrazione, cosicché la violenza necessariamente si estende alla sua persona, dovendo l’agente vincerne la resistenza e non solo superare la forza di coesione inerente al normale contatto della cosa con essa (Sez. 2, Sentenza n. 34206 del 03/10/2006 Ud. (dep. 12/10/2006) Rv. 234776). Peraltro, qualora la violenza sia esercitata simultaneamente sulla cosa e sulla persona per vincere la resistenza opposta dalla vittima e protesa a difendere o trattenere la cosa, ricorre il delitto di rapina e non quello di furto con strappo (Sez. 2, Sentenza n. 3972 del 12/10/1987 Ud. (dep. 28/03/1988) Rv. 177978). Va, quindi, esclusa la possibilità di ravvisare la figura del furto con strappo in tutte le ipotesi in cui la violenza, comunque “indirizzata”, sia stata esercitata per vincere la resistenza della parte offesa, giacché in tal caso sarebbe la violenza stessa – e non lo “strappo” – a costituire il mezzo attraverso il quale si realizza la sottrazione, determinando automaticamente il refluire del fatto nello schema tipico del delitto di rapina” (Cass. Sez. II, 23.11.2010, n. 41464). In questa sentenza è stato altresì precisato, con riguardo alla concretezza del fatto, che “le modalità del fatto, come emerse dalla stessa denuncia della parte offesa non sono contrastanti con l’ipotesi di rapina aggravata contestata, in quanto risulta, con evidenza, che vi fu momento in cui la donna cercò di trattenere la borsa, ma la sua resistenza fu vinta dalla trazione violenta che fu adoperata, quindi, nei confronti della persona e non esclusivamente sulla cosa”.
Alle stesse conclusioni deve giungersi nel caso di specie, essendo stato ricostruito il fatto nel senso che dapprima l’imputato afferrò con violenza la borsa portata dalla persona offesa cercando di vincere la sua resistenza strappandola con forza; in tal modo faceva cadere per terra sia la persona offesa che il di lei marito che l’accompagnava; a tal punto proseguiva nel tentativo di strappare la borsa alla vittima mentre la stessa era per terra, non riuscendo nel tentativo perché la borsa si era attorcigliata al corpo della stessa.
Se la prima fase dell’azione – ossia lo strappo tentato della borsa – avrebbe ancora potuto integrare il tentativo di furto aggravato, il prosieguo dell’azione – ossia lo strappo tentato della borsa nei confronti della vittima ormai caduta a terra a seguito della azione precedente – integra evidentemente il delitto di tentata rapina aggravata giacché l’imputato, tenendo la descritta condotta, ha cercato evidentemente di vincere la resistenza passiva della vittima, a cui aveva già cagionato lesioni, esercitando una ulteriore violenza sulla stessa nel pervicace tentativo di impossessarsi della borsa; insistendo, va rimarcato, nell’azione di strappo benché la borsa si forse attorcigliata intorno al corpo della vittima e dunque senza preoccuparsi di arrecare ulteriori lesioni alla vittima, già ferita.
In conclusione, correttamente la Corte territoriale ha ritenuto integrato il delitto di rapina tentata aggravata in considerazione della resistenza passiva esercitata dalla vittima per il fatto che la borsa avesse ormai aderito al corpo nel mentre l’imputato si ostinava nel tentativo di strapparla via.
Circa l’ulteriore motivo, deve rilevarsi che dell’art. 628, comma 3, n. 3 quater cod. pen. stabilisce un aggravamento di pena se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro.
Come esattamente rilevato dei giudici di appello, il fondamento della norma è nella maggiore gravità del fatto commesso ai danni di una persona intenta – e sorpresa – a prelevare denaro o che abbia appena effettuato il prelievo. Così si è verificato nel caso di specie, giacché soltanto pochi minuti prima dell’aggressione la vittima aveva prelevato del denaro presso un ufficio postale, allontanandosi a piedi e percorrendo una via parallela a quella in cui si trova detto ufficio.
Poiché nella descrizione della fattispecie astratta si presta esclusiva attenzione al momento temporale e non alla collocazione spaziale, poiché null’altro si richiede oltre alla stretta vicinanza nei tempi tra prelievo e aggressione, come evidenza l’avverbio “appena” correttamente la corte di appello ha motivato a pagina 9 e s. della sentenza impugnata l’integrazione dell’aggravante in parola.
Quanto al trattamento sanzionatorio deve rilevarsi che il giudice d’appello, con motivazione congrua ed esaustiva, anche previo specifico esame degli argomenti difensivi attualmente riproposti, è giunto a una valutazione di merito come tale insindacabile nel giudizio di legittimità, quando – come nel caso di specie – il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici (Cass. pen. sez. un., 24 novembre 1999, Spina, 214794), rilevando in particolare la sussistenza di precedenti penali, la prognosi negativa sulla personalità dell’imputato e la proporzione della pena inflitta alla gravità del fatto commesso, e l’evidente inadeguatezza della somma offerta a risarcimento del danno arrecato (come si legge nella sentenza di appello alla pagina 11).
Attesa la separatezza delle posizioni e la diversità dei riti applicati manifestamente infondata è la doglianza con riguardo alla comparazione tra pena comminata al ricorrente e pena comminata al coimputato che ha ritenuto di fruire del patteggiamento.
Manifestamente infondata per insuperabile genericità è infine la doglianza crea la quantificazione delle statuizioni civili, non argomentandosi alcunché nel ricorso.
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.