L'ho sempre sostenuto, fin dai suoi albori (basta andare a vedere nell'apposita sezione di questo blog) ma stavolta a dirlo è l' "Ente Qualificato per Eccellenza" che è la Corte dei Conti......
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Le
associazioni sono un flop. Aggregando i piccoli comuni i
costi si moltiplicano.
Fallimento certificato dalla Corte dei conti
nella relazione sulla gestione 2014.
La cooperazione intercomunale, così come attualmente configurata dalla normativa vigente, proprio non funziona: non solo non genera i tanto attesi risparmi, ma anzi impone alla collettività ulteriori costi, scaricando sulle forme associative le tensioni finanziarie degli enti partecipanti.
A certificare il fallimento dell'ormai datato progetto di aggregazione dei piccoli comuni è la Corte dei conti, che nella recente relazione sulla gestitone finanziaria 2014 degli enti locali ha fatto il punto sullo stato di attuazione di una riforma avviata oltre 20 anni fa, invitando il legislatore a correggere la rotta.
Ma su quale sia la strada giusta, fra i diretti interessati, cioè i sindaci, ci sono visioni fortemente contrastanti.
È dal 1990 che si tenta di accorpare i comuni di minori dimensioni, dapprima con un approccio volontaristico e successivamente, diventando sempre più pressanti le esigenze di contenimento della spesa pubblica, attraverso precisi vincoli legislativi. Ma finora i risultanti sono quasi nulli.
Ciò, scrivono i giudici contabili, a causa, da un lato, delle ripetute proroghe dei termini entro cui attuare le gestioni associate obbligatorie, ossia quelle imposte ai comuni con meno di 5.000 abitanti (3.000 in montagna) per lo svolgimento delle proprie funzioni fondamentali. Dall'altro, dalla circostanza che il legislatore nazionale e le regioni hanno ripetutamente modificato e integrato la normativa, variando le funzioni da associare, le «soglie» relative alla popolazione degli enti interessati e le modalità procedimentale.
Tali continui ripensamenti, tuttavia, costituiscono solo sintomi delle difficoltà registrate nella concreta attuazione del percorso istituzionale normativamente delineato, che necessiterebbe di «aggiustamenti», a partire da un'approfondita analisi delle criticità e delle resistenze finora riscontrate alle politiche di «associazionismo» forzato
Se su tale diagnosi sono tutti concordi, sulla cura le ricette sono molto diverse. La Corte dei conti, naturalmente, non entra nel merito delle scelte politiche, limitandosi a evidenziare la necessità di una maggiore semplificazione e di più efficienti forme di incentivazione finanziaria (ad esempio, da collegare ai risultati concretamente conseguiti in termini di risparmi di spesa).
Ma cosa ne pensano i diretti interessati, ossia i sindaci? Qui i punti di vista sono spesso distanti, se non diametralmente opposti. Nell'ultima Conferenza nazionale dei piccoli comuni, che si è svolta il mese scorso a Cagliari, l'Anci ha proposto una disciplina nuova di zecca, che preveda la «definizione di ambiti adeguati e omogenei entro i quali realizzare processi di riorganizzazione territoriale per rafforzare la rappresentanza degli enti, la capacità progettuale, quella dell'offerta dei servizi ai cittadini e alle imprese».
In tali ambiti, dovrebbe essere prevista la gestione associata di non meno di tre funzioni fondamentali, contro le 10 attualmente interessate dall'obbligo. Inoltre, dovrebbero essere cancellate le soglie demografiche minime dei nuovi soggetti (che oggi sono fissate a 10.000 abitanti in pianura e a 3.000 in montagna) e che secondo i sindaci rappresentano «un ostacolo alla costruzione di processi associativi funzionali ed efficaci».
A ridisegnare la mappa della pa locale dovrebbe essere un «Comitato permanente per il coordinamento dei processi di riorganizzazione territoriale del sistema dei comuni», chiamato a chiudere i lavori entro 12 mesi dall'insediamento. Nel frattempo, quindi, sarebbe giocoforza prevedere una nuova proroga.
Ma non tutti sono d'accordo: di recente, ad esempio, la Consulta Finanze dell'Anci Piemonte si è espressa in senso fortemente contrario all'ennesimo differimento delle scadenze, chiedendo anzi un rafforzamento degli obblighi aggregativi per arrivare addirittura e sia pure gradualmente verso la fusione. Una posizione, quest'ultima, decisamente più rigorista di quella del nazionale, da sempre favorevole al modello intermedio dell'unione di comuni.
La terza via è quella indicata dall'Anpci, che da sempre si batte per vincoli più flessibili e quindi sostiene le più agili convenzioni.
In tutto questo, chi si aspettava un'accelerazione del processo, anche in un'ottica di spending review, è destinato a rimanere nuovamente deluso (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
La cooperazione intercomunale, così come attualmente configurata dalla normativa vigente, proprio non funziona: non solo non genera i tanto attesi risparmi, ma anzi impone alla collettività ulteriori costi, scaricando sulle forme associative le tensioni finanziarie degli enti partecipanti.
A certificare il fallimento dell'ormai datato progetto di aggregazione dei piccoli comuni è la Corte dei conti, che nella recente relazione sulla gestitone finanziaria 2014 degli enti locali ha fatto il punto sullo stato di attuazione di una riforma avviata oltre 20 anni fa, invitando il legislatore a correggere la rotta.
Ma su quale sia la strada giusta, fra i diretti interessati, cioè i sindaci, ci sono visioni fortemente contrastanti.
È dal 1990 che si tenta di accorpare i comuni di minori dimensioni, dapprima con un approccio volontaristico e successivamente, diventando sempre più pressanti le esigenze di contenimento della spesa pubblica, attraverso precisi vincoli legislativi. Ma finora i risultanti sono quasi nulli.
Ciò, scrivono i giudici contabili, a causa, da un lato, delle ripetute proroghe dei termini entro cui attuare le gestioni associate obbligatorie, ossia quelle imposte ai comuni con meno di 5.000 abitanti (3.000 in montagna) per lo svolgimento delle proprie funzioni fondamentali. Dall'altro, dalla circostanza che il legislatore nazionale e le regioni hanno ripetutamente modificato e integrato la normativa, variando le funzioni da associare, le «soglie» relative alla popolazione degli enti interessati e le modalità procedimentale.
Tali continui ripensamenti, tuttavia, costituiscono solo sintomi delle difficoltà registrate nella concreta attuazione del percorso istituzionale normativamente delineato, che necessiterebbe di «aggiustamenti», a partire da un'approfondita analisi delle criticità e delle resistenze finora riscontrate alle politiche di «associazionismo» forzato
Se su tale diagnosi sono tutti concordi, sulla cura le ricette sono molto diverse. La Corte dei conti, naturalmente, non entra nel merito delle scelte politiche, limitandosi a evidenziare la necessità di una maggiore semplificazione e di più efficienti forme di incentivazione finanziaria (ad esempio, da collegare ai risultati concretamente conseguiti in termini di risparmi di spesa).
Ma cosa ne pensano i diretti interessati, ossia i sindaci? Qui i punti di vista sono spesso distanti, se non diametralmente opposti. Nell'ultima Conferenza nazionale dei piccoli comuni, che si è svolta il mese scorso a Cagliari, l'Anci ha proposto una disciplina nuova di zecca, che preveda la «definizione di ambiti adeguati e omogenei entro i quali realizzare processi di riorganizzazione territoriale per rafforzare la rappresentanza degli enti, la capacità progettuale, quella dell'offerta dei servizi ai cittadini e alle imprese».
In tali ambiti, dovrebbe essere prevista la gestione associata di non meno di tre funzioni fondamentali, contro le 10 attualmente interessate dall'obbligo. Inoltre, dovrebbero essere cancellate le soglie demografiche minime dei nuovi soggetti (che oggi sono fissate a 10.000 abitanti in pianura e a 3.000 in montagna) e che secondo i sindaci rappresentano «un ostacolo alla costruzione di processi associativi funzionali ed efficaci».
A ridisegnare la mappa della pa locale dovrebbe essere un «Comitato permanente per il coordinamento dei processi di riorganizzazione territoriale del sistema dei comuni», chiamato a chiudere i lavori entro 12 mesi dall'insediamento. Nel frattempo, quindi, sarebbe giocoforza prevedere una nuova proroga.
Ma non tutti sono d'accordo: di recente, ad esempio, la Consulta Finanze dell'Anci Piemonte si è espressa in senso fortemente contrario all'ennesimo differimento delle scadenze, chiedendo anzi un rafforzamento degli obblighi aggregativi per arrivare addirittura e sia pure gradualmente verso la fusione. Una posizione, quest'ultima, decisamente più rigorista di quella del nazionale, da sempre favorevole al modello intermedio dell'unione di comuni.
La terza via è quella indicata dall'Anpci, che da sempre si batte per vincoli più flessibili e quindi sostiene le più agili convenzioni.
In tutto questo, chi si aspettava un'accelerazione del processo, anche in un'ottica di spending review, è destinato a rimanere nuovamente deluso (articolo ItaliaOggi del 21.08.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).