domenica 9 febbraio 2020

Mobilità individuale temporanea a tutela delle esigenze di assistenza ai soggetti disabili e di ricongiungimento del nucleo familiare. Disposizioni in tema di assegnazioni temporanee ai sensi della l. 104/1992 e dell’art. 42-bis d.lgs. 151/2001

Circolare 31 gennaio 2020 - Mobilità individuale temporanea a tutela delle esigenze di assistenza ai soggetti disabili e di ricongiungimento del nucleo familiare. Disposizioni in tema di assegnazioni temporanee ai sensi della l. 104/1992 e dell’art. 42-bis d.lgs. 151/2001


31 gennaio 2020
Ministero della Giustizia
Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria, del Personale e dei Servizi
Direzione Generale del Personale e della Formazione
Alla Corte Suprema di Cassazione
Alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione
Al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche
Alla Direzione Nazionale Antimafia
Alle Corti d’Appello
Alle Procure Generali presso le Corti d’Appello
LORO SEDI
All’Ufficio I della Direzione Generale del Personale e della Formazione
e, per conoscenza,
Al Signor Capo di Gabinetto del Signor Ministro
Al Signor Capo del Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria, del Personale e dei Servizi
Oggetto: Mobilità individuale temporanea a tutela delle esigenze di assistenza ai soggetti disabili e di ricongiungimento del nucleo familiare. Disposizioni in tema di assegnazioni temporanee ai sensi della l. 5 febbraio 1992, n. 104 e dell’art. 42-bis, d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151.
Premessa
In ossequio ai principi costituzionali dei doveri di solidarietà economica e sociale, di pari dignità sociale e di tutela della salute (nonché, per i lavoratori essi stessi disabili, del diritto al lavoro come espressione di partecipazione operosa alla vita collettiva e di realizzazione delle proprie aspirazioni), l’ordinamento pone solidi presidi a tutela dei soggetti disabili, anche in merito alla loro integrazione ambientale sul lavoro. A quanto sancito dalla Carta occorre d’altronde affiancare la tutela “multilivello” che sorge dall’ordinamento sovranazionale e internazionale [1].
In particolare e per quanto qui rileva, secondo l’art. 1, l. 5 febbraio 1992, n. 104, legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, la Repubblica:
  • garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nel lavoro e nella società;
  • previene e rimuove le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività, nonché la realizzazione dei diritti civili e patrimoniali;
  • persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali e assicura i servizi e le prestazioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle minorazioni;
  • predispone interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione sociale della persona handicappata.
È opportuno precisare sin d’ora, richiamando letteralmente le riflessioni di tipo lessicale premesse alla Circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica n. 13/2010, come il dibattito circa la terminologia da utilizzare per indicare le persone con disabilità sia stato ampio e resti ancora vivace, nell’ottica precipua di evitare espressioni o definizioni che possano recare anche solo implicitamente un pregiudizio di disvalore rispetto alla disabilità, dovendosi invece promuovere locuzioni tali da mettere in risalto il valore derivante dalla diversità. Nondimeno, per evidenti ragioni di chiarezza espositiva, di seguito si farà riferimento alla locuzione, ormai logora e in gran parte inadeguata, di “persona in situazione di handicap”, o altre consimili, in aderenza al testo normativo di riferimento [2].
Ad ogni buon conto, secondo la suddetta legge-quadro “è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione. […] Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici” (art. 3).
Permessi e mobilità a tutela dei soggetti disabili
Secondo l’art. 33, l. 5 febbraio 1992, n. 104, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità ha diritto (oltre che ad usufruire dei permessi orari disciplinati dal comma 2 e dei distinti congedi retribuiti ex art. 42, d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151):
  • a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa (comma 3);
  • a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere (comma 5).
Analoghe tutele sono previste anche direttamente in favore del lavoratore portatore egli stesso di handicap in situazione di gravità (comma 6).
Parzialmente diverso il caso della persona handicappata (non in situazione di gravità ma comunque) con un grado di invalidità superiore ai due terzi ovvero con minorazioni iscritte alle categorie prima, seconda e terza della tabella A annessa alla legge 10 agosto 1950, n. 648, alla quale è riconosciuto il diritto di precedenza in sede di trasferimento a domanda (art. 21, comma 2, l. 104/1992).
Calando dunque i principi sopra ricordati nella concretezza del rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, le tutele offerte si sostanziano, in estrema sintesi, sia nella possibilità per il lavoratore (disabile egli stesso o che assista un congiunto disabile) di “assentarsi” ritualmente dal luogo di lavoro, sia nella possibilità – logicamente anteriore – di espletare la propria prestazione lavorativa nella sede geograficamente più favorevole alla fruizione dell’agevolazione.
L’oggetto della presente circolare è limitato alla mobilità interna e temporanea del personale dell’amministrazione della giustizia, quando la richiesta sia fondata su circostanze attinenti alla necessità di assistenza di un congiunto disabile ovvero, per ineliminabile completezza di disamina, di ricongiungimento familiare ai sensi dell’art. 42-bis, d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 [3].
Si dà atto dell’avvenuto espletamento del più ampio confronto sul punto con le Organizzazioni sindacali, ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett. b), CCNL Comparto Funzioni Centrali.
L’assistenza al soggetto disabile
Occorre in primo luogo definire compiutamente i requisiti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge per il concreto esercizio di questi diritti.
Nell’esame degli istituti che consentono al lavoratore di fruire di peculiari agevolazioni a tutela della disabilità propria o di un familiare, appare assolutamente opportuno richiamare la approfondita interpretazione offerta dal Dipartimento della Funzione Pubblica nella citata circolare n. 13/2010, emessa a seguito dell’ultimo rilevante intervento novellatore ad opera dell’art. 24, l. 4 novembre 2010, n. 183. Questa circolare, per quanto non recentissima, offre ancora un imprescindibile contributo, tenuto conto dell’autorevolezza della provenienza e della sua espressa finalità di fornire indicazioni di carattere generale omogenee per il settore del lavoro pubblico e privato, prospettando orientamenti per l’interpretazione e l’applicazione della nuova normativa, ferme restando le autonome determinazioni di ciascuna Amministrazione nell’esercizio del proprio potere organizzativo e gestionale.
In ogni caso, la tutela della disabilità è regolata in via primaria per quanto attiene al dipendente che sia egli stesso soggetto disabile. Su tale parametro, mediante espressi richiami normativi, è poi modulata la disciplina dei permessi e della mobilità al fine di assistere un proprio congiunto disabile.
I rapporti personali tra il disabile e il lavoratore
In quest’ultimo caso, tra il lavoratore e la persona handicappata bisognosa di assistenza deve intercorrere un rapporto di coniugio oppure una relazione di parentela [4] o affinità [5], entro il secondo grado (art. 33, commi 3-5, l. 104/1992).
Sono pertanto ricompresi in tale novero, ai sensi dell’art. 76 c.c., e quindi suscet-tibili di assistenza per quanto qui rileva:
  • la moglie o il marito;
  • l’altra parte di un unione civile ex art. 1, comma 2, l. 20 maggio 2016 n. 76 [6];
  • la convivente o il convivente di fatto ex art. 1, comma 36, l. 76/2016 [7];
  • i figli, anche adottivi [8];
  • i figli, anche adottivi, del coniuge o dell’altra parte di un’unione civile;
  • i nipoti in linea retta (figli dei figli);
  • la nuora o il genero;
  • i genitori;
  • i suoceri;
  • i nonni;
  • i nonni della moglie o del marito;
  • le sorelle e i fratelli, germani e unilaterali;
  • le cognate e i cognati (le sorelle e i fratelli della moglie o del marito o dell’altra parte di un’unione civile, ma non i loro coniugi).
In ragione della impossibilità a provvedere (presunta ex lege) da parte dei familiari più vicini al disabile, ovvero comunque della eccessiva onerosità personale dell’opera di assistenza, la relazione di parentela o affinità che consente di usufruire delle agevolazioni in questione è estesa sino al terzo grado, qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità
  • siano deceduti o mancanti;
  • abbiano compiuto i sessantacinque anni di età;
  • siano anche essi affetti da patologie invalidanti [9].
In questo caso, l’elenco che precede deve essere integrato anche da
  • i bisnonni;
  • i bisnonni della moglie o del marito;
  • i pronipoti (figli dei figli dei figli, ipotesi pressoché irrealizzabile in relazione all’età anagrafica del lavoratore in servizio)
  • i nipoti in linea collaterale (figli della sorella o del fratello)
  • i nipoti della moglie o del marito (figli della cognata o del cognato)
  • gli zii (le sorelle e i fratelli del padre o della madre, non i loro coniugi);
  • gli zii della moglie o del marito (non i loro coniugi).
Come risulta evidente da questo lungo elenco, il perimetro della cerchia dei congiunti tutelato dalla legge è notevolmente esteso, ben oltre la famiglia nucleare e persino oltre la “famiglia convivente” (intesa quale comunità di familiari che coabitano nella medesima residenza), in – solo apparente – contrasto con la progressiva perdita di coesione della famiglia parentale, gruppo di persone appartenenti a una comune discendenza, sempre meno interessato da specifica disciplina normativa.
Il referente unico
La legge non impone più il duplice requisito della “convivenza” e della “continuità ed esclusività dell’assistenza”.
Si stabilisce però espressamente che il diritto alla fruizione delle agevolazioni “non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità”. In qualche modo, dunque, il concetto di esclusività dell’assistenza deve essere tuttora tenuto di conto, nella peculiare declinazione secondo cui deve essere individuato per ciascun disabile un unico referente (da intendersi come il soggetto che assume il ruolo e la connessa responsabilità di porsi quale punto di riferimento della gestione generale dell’intervento, assicurandone il coordinamento e curando la costante verifica della rispondenza ai bisogni dell’assistito. Cfr.  il parere n. 5078/2008 del Consiglio di Stato).
Quindi, ai fini che qui interessano, un soggetto disabile può essere assistito da un solo lavoratore [10].
Al contrario, il dipendente ha diritto di prestare assistenza nei confronti di più persone in situazione di handicap grave, a condizione che si tratti del coniuge o di un parente o affine entro il primo grado (ovvero entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti).
Il prerequisito negativo del mancato ricovero a tempo pieno
La persona in situazione di handicap grave non deve essere ricoverata a tempo pieno.
Conformemente a quanto afferma sul punto la citata circolare della Funzione Pubblica, per ricovero a tempo pieno deve intendersi il ricovero per le intere ventiquattro ore, “presso le strutture ospedaliere o comunque le strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria” (ovvero, si ritiene, anche attività socio-assistenziale). Nondimeno, le agevolazioni possono essere riconosciute, previa produzione di compiuta prova documentale delle circostanze che si allegano, nei casi, affatto eccezionali, di
  • interruzione del ricovero per necessità del disabile di recarsi fuori della struttura che lo ospita per effettuare visite o terapie;
  • ricovero in coma vigile;
  • ricovero in situazione terminale;
  • ricovero di un minore in situazione di handicap grave laddove sia documentato dai sanitari della struttura il bisogno di assistenza da parte di un genitore o di un familiare.
L’elemento geografico
Il lavoratore portatore di handicap in situazione di gravità, come visto, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito in altra sede, senza il suo consenso.
L’avvicinamento ai fini della assistenza a un congiunto, invece, come espressamente previsto dal testo novellato dell’art. 33, comma 5, l. 104/1992, può essere ritualmente richiesto in relazione al domicilio della persona da assistere e non al domicilio del lavoratore, dal momento che queste agevolazioni costituiscono uno strumento per la più agevole assistenza del disabile.
L’inciso “ove possibile” – in ossequio alla prevalente giurisprudenza di merito e alla analoga esegesi del Dipartimento della Funzione Pubblica nella citata circolare – impone di prendere in considerazione soltanto circostanze oggettive di segno contrario (in primo luogo e soprattutto, la mancanza di una vacanza disponibile, nello specifico profilo professionale, nella pianta organica della sede richiesta).
Giova distinguere, ad ogni buon conto, la “sede” presso cui il dipendente presta servizio dall’Ufficio giudiziario ove concretamente tale servizio è svolto.
A tal fine, non emergono ragioni per discostarsi da quanto disposto con l’Accordo con le Organizzazioni Sindacali del 27 marzo 2007 sulla mobilità interna del personale giudiziario, a mente del quale (art. 1), per “sede” si intende
  1. il Comune dove sono ubicati l’ufficio giudiziario o l’ufficio Nep;
  2. gli Uffici dell’amministrazione centrale (Ministero della Giustizia, Corte di Cassazione, Procura Generale presso la Corte di Cassazione, Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, Direzione Nazionale Antimafia), senza specifica individuazione del Comune di ubicazione (Roma, evidentemente), di modo che per gli stessi occorrerà viceversa tenere conto del relativo indirizzo (via Arenula, piazza Cavour, etc.).
Sulla scorta di tali premesse, non può che concludersi sin d’ora per l’impossibilità di accogliere l’istanza del dipendente che assista un proprio congiunto, qualora
  • la sede richiesta sia la medesima presso cui si presta servizio (non potrà dunque richiedersi, ad esempio, il passaggio dal Tribunale alla relativa Procura della Repubblica, laddove invece, in forza del suddetto accordo sindacale, sarà possibile, ancora ad esempio, la mobilità da un Ufficio giudiziario romano di primo o di secondo grado alla Corte di Cassazione, se in tal modo si realizzi un reale avvicinamento al congiunto), tranne nel caso in cui tra l’uno e l’altro Ufficio vi sia una distanza superiore ai tre chilometri;
  • il soggetto disabile (quand’anche figlio minorenne), sia già con lui residente presso il luogo della attuale sede di servizio;
  • la sede richiesta sia comunque più lontana rispetto alla residenza del congiunto da assistere, rispetto all’attuale sede di servizio.
In tutti gli altri casi, ogni valutazione nel merito non potrà che muovere dal dato oggettivo della distanza chilometrica.
La tutela della famiglia ai sensi dell’art. 42-bis, d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151
L’art. 42-bis, d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) disciplina la “assegnazione temporanea dei lavoratori dipendenti alle amministrazioni pubbliche”, istituto che mira, in un’ottica solo parzialmente diversa, a tutelare l’unità del nucleo familiare in un momento particolarmente pregnante come quello immediatamente successivo alla nascita di un figlio. Per intuibili ragioni, esso viene talora a sovrapporsi, nella quotidianità amministrativa, agli strumenti di riavvicinamento previsti dalla l. 104/1992, di modo che appare opportuno averne adeguato riguardo anche in questa sede.
Nello specifico, il dipendente genitore con figli minori fino a tre anni di età può essere assegnato, a richiesta, anche in modo frazionato e per un periodo complessivamente non superiore a tre anni, ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione.
L’eventuale dissenso del datore di lavoro pubblico deve essere motivato e comunque limitato a “casi o esigenze eccezionali”.
La mobilità temporanea nell’Amministrazione della Giustizia
Ciò premesso quanto ai requisiti di fatto e diritto idonei a fondare una rituale istanza di assegnazione ad altra sede, occorre avere riguardo anche a profili più schiettamente procedimentali.
Appare di tutta evidenza la strettissima connessione tra la mobilità e gli aspetti organizzativi, riconducibili ai poteri e alle facoltà del datore di lavoro pubblico.
Il quadro normativo della mobilità del dipendente pubblico contrattualizzato è ricompreso nelle disposizioni di cui agli artt. 30-34-bis, d.lgs. 165/2001 (nonché nel precedente art. 23-bis, per quel che concerne la mobilità tra il settore pubblico e quello privato). Limitati spazi, in questa materia, sono assegnati, ex artt. 30, comma 2.2 e 40 del medesimo decreto legislativo, alla contrattazione collettiva.
Qui interessa, d’altronde, solo una particolare forma di mobilità interna, individuale, temporanea e volontaria che, in difetto di esplicita disciplina legislativa, la prassi, mutuandone i caratteri generali dall’istituto del comando laddove applicabili, indica tradizionalmente con il termine di distacco (atto di inequivoca natura privatistica, con quanto ne consegue anche in termini di giurisdizione del giudice ordinario).
È fondamentale notare come la tutela offerta dall’ordinamento non possa aprioristicamente pregiudicare le legittime aspettative di terzi, in particolare quando la condizione di disabilità posta a fondamento dell’istanza si ponga come necessariamente transeunte (ovverosia non riconducibile alla disabilità personale del dipendente, non suscettibile di miglioramenti).
Molte delle circostanze su cui si fondano le richieste di mobilità hanno invero natura intrinsecamente e marcatamente non definitiva (ad esempio, per la reversibilità di uno stato patologico, la possibilità/probabilità di un ricovero, l’indicazione successiva di altro “referente”, e così via; ai quali casi, in linea generale, non si può non aggiungere l’ulteriore e spesso assorbente riflessione secondo cui l’esistenza in vita dell’assistito, spesso di età avanzata, è già di per sé un dato di fatto precario).
D’altronde, il venire meno dei requisiti, pure inizialmente sussistenti, è ipotesi normativamente prevista: l’art. 33, comma 7-bis, l. 104/1992 dispone che, “ferma restando la verifica dei presupposti per l’accertamento della responsabilità disciplinare”, il lavoratore decade dai diritti di cui trattasi, “qualora il datore di lavoro o l’INPS accerti l'insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti” [11].
In questi casi, attribuire in via definitiva la nuova sede di lavoro, a discapito di altri dipendenti parimenti interessati e a prescindere da qualsiasi valutazione comparativa delle rispettive posizioni, rappresenterebbe non solo un irragionevole trattamento di favore ma anche un provvedimento idoneo a cagionare disequilibrio in una efficace gestione delle risorse umane e comunque non supportato da una congrua motivazione ed anzi in contrasto con la logica del sistema.
In definitiva, la peculiare mobilità in questione risulta sempre risolutivamente condizionata al venir meno delle circostanze su cui si fondava in origine.
Non può dunque essere ammessa, in forza delle necessità di altrui assistenza, una mobilità a titolo definitivo (ovvero il “trasferimento” in senso stretto, non più revocabile per circostanze sopravvenute) se non nell’ambito di procedure collettive, nell’ambito delle quali potranno essere ampiamente fatti valere eventuali titoli di preferenza.
L’unico strumento idoneo a contemperare ritualmente le esigenze di buona organizzazione della Pubblica Amministrazione (nonché la par condicio degli altri dipendenti interessati alla medesima sede) e le esigenze di assistenza e di cura è stato quindi individuato, secondo la prassi corrente, nell’istituto del distacco ovvero, dalla giurisprudenza più avvertita, in una sorta di “trasferimento provvisorio” [12].
Senza indugiare su riflessioni che potrebbero rivelare prevalenti connotati meramente nominalistici e comunque in ossequio ai dicta giurisprudenziali, si adotterà, d’ora in avanti la locuzione “assegnazione temporanea”.
Non può che prendersi atto di come, nella pratica, questa peculiare forma di mobilità provvisoria, nella astratta previsione normativa di applicazione statisticamente limitata rispetto alla generalità dei dipendenti, abbia avuto una diffusione enorme e di fatto abbia svolto anche una funzione acceleratoria rispetto alla ordinaria mobilità interna, in relazione soprattutto alla recente massiccia immissione di personale entrato in servizio a seguito del Concorso per 800 posti di assistente giudiziario.
Questa superfetazione dei provvedimenti di mobilità (pure legittimamente richiesti e concessi) è stata dunque di fatto causa di significative criticità per una razionale gestione delle risorse umane, per molteplici ordini di ragioni, variamente intersecantesi tra loro:
  • impossibilità di una efficace pianificazione (in particolari negli Uffici giudiziari di ridotte dimensioni, nell’ambito dei quali anche una sola scopertura può cagionare disservizi non irrilevanti);
  • effetti nocivi anche per tutti gli altri dipendenti che ambiscono alla medesima sede;
  • il flusso pressoché unidirezionale che, quale manifesta conseguenza della provenienza geografica della stragrande maggioranza dei nuovi assunti, contraddistingue l’oggetto delle istanze, quasi esclusivamente relative a sedi del Mezzogiorno;
  • questa mobilità provvisoria crea un duplice danno all’Ufficio di provenienza, dal momento che quest’ultimo perde di fatto un’unità di personale, che non può però essere rimpiazzata tramite ulteriori assegnazioni, perché l’istituto non dà luogo a una vacanza in senso stretto [13].
Razionalizzazione delle procedure amministrative di assegnazione temporanea
L’altissimo numero di richieste di mobilità ex l. 104/1992 (spesso prive di chiare indicazioni sulla situazione di fatto e diritto, nonché della minima documentazione di supporto necessaria a norma di legge) impone, ad oggi, di razionalizzare l’iter di presentazione, istruttoria e decisione delle relative pratiche, in un’ottica di efficienza nella trattazione, di omogeneità degli esiti e soprattutto di adeguata tutela delle effettive e più stringenti necessità di assistenza e di cura.
In primo luogo, si ribadisce come l’intera sequenza procedimentale si regga sul principio della domanda e sul correlato onere di allegazione e di documentazione.
Il dipendente interessato ha dunque l’onere di presentare apposita istanza – utilizzando esclusivamente la modulistica che si allega alla presente circolare – per la fruizione delle agevolazioni previste dalla legge e di dimostrare la sussistenza dei presupposti di legittimazione attraverso la produzione di idonea giustificazione documentale.
Come evidenziato dalla suddetta modulistica, al fine di porre in adeguato risalto gli alti principi di solidarietà che governano l’intera materia (che non devono lasciare adìto al dubbio che l’istanza possa avere viceversa il fine primario di ottenere una corsia preferenziale per il mutamento della sede di lavoro a detrimento di altri colleghi interessati), il dipendente che richieda l’assegnazione temporanea a fini di assistenza di un proprio congiunto dovrà premettere una dichiarazione formale, mutuata dalla citata Circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica, con cui dà esplicitamente atto, tra l’altro:
  • di essere consapevole che
    • le agevolazioni sono uno strumento di assistenza del disabile e, pertanto, il riconoscimento delle agevolazioni stesse postula la conferma dell'impegno, morale prima ancora che giuridico, a prestare effettivamente la propria opera di assistenza;
    • la possibilità di fruire delle agevolazioni comporta un onere per l'amministrazione e un impegno di spesa pubblica che lo Stato e la collettività sopportano solo per l'effettiva tutela dei disabile;
  • di impegnarsi a
    • comunicare tempestivamente ogni variazione della situazione di fatto e di diritto da cui consegua la perdita della legittimazione alle agevolazioni;
    • aggiornare la documentazione prodotta a supporto dell’istanza quando ciò si renda necessario, anche a seguito di specifica richiesta dell'amministrazione.
L’assunzione di responsabilità che consegue a tale formale impegno è di palmare evidenza.
A corredo dell'istanza, l’interessato deve necessariamente allegare
  • il verbale della commissione medica dal quale risulti l’accertamento della situazione di handicap grave;
  • idonea documentazione anagrafica (ovvero apposita dichiarazione sostitutiva, ai sensi degli artt. 46, 47 e 76, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445), che attesti il grado di parentela o di affinità con il soggetto disabile da assistere e la sua residenza o il suo domicilio;
  • nel caso di richiesta relativa ad un parente o affine di terzo grado, il certificato medico dal quale risulti la patologia invalidante dei genitori o del coniuge del congiunto di terzo grado con handicap in stato di gravità e/o documentazione anagrafica (ovvero apposita dichiarazione sostitutiva, ai sensi degli artt. 46, 47 e 76, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445), che attesti il decesso o la mancanza dei genitori o del coniuge suddetti;
  • dichiarazione proveniente dal disabile capace di intendere e di volere (ovvero dal tutore, in caso di interdizione) ex artt. 47 e 76, d.P.R. 445/2000, con cui si manifesta la volontà di ricevere assistenza esclusivamente da parte del dipendente istante e di non avere espresso analoga volontà in relazione ad altri soggetti (ovvero di avere espresso in precedenza una tale dichiarazione, specificando le generalità complete dei soggetti a suo tempo indicati, e di revocare ad ogni effetto tale precedente dichiarazione);
  • dichiarazione del dipendente istante in merito al mancato ricovero del soggetto disabile ovvero la attestazione del ricovero attuale, accompagnata dalla eventuale documentazione medica che attesti
    • l’avvenuta interruzione di un ricovero già in atto per necessità diagnostiche o terapeutiche del disabile;
    • il ricovero del disabile in condizione di coma vigile ovvero in situazione terminale;
    • Il ricovero a tempo pieno di un minore in situazione di handicap grave per il quale i sanitari della struttura abbiano attestato il bisogno di assistenza da parte di un genitore o un familiare;
  • dichiarazione del dipendente istante che attesti, per quanto consta, la mancanza di altri parenti o  affini che fruiscono dei benefici per il medesimo disabile;
  • attestazione della più breve distanza chilometrica (stradale o ferroviaria) tra la sede di servizio, la sede richiesta e la residenza o il domicilio del disabile, a mezzo dell’apposito servizio on line dell’Automobile Club d’Italia ovvero con altro idoneo strumento (ad esempio, schermata Google Maps).
L’ordine di priorità
Il dipendente, come accennato, può essere ritualmente assegnato in via provvisoria presso un altro Ufficio solo qualora quest’ultimo presenti almeno una vacanza in relazione alla qualifica professionale del dipendente stesso.
In altre parole, una singola vacanza non potrà legittimare che una sola assegnazione provvisoria (ragionando altrimenti si verrebbe a creare una irrazionale situazione di sovrannumero, tollerata dall’ordinamento in via transitoria solo per i casi in cui sia il dipendente stesso ad essere portatore di handicap in situazione di gravità, e fino al successivo riassorbimento), a mente di insuperabili considerazioni di ordine contabile, prima ancora che di razionale utilizzo delle risorse umane.
Pare in definitiva ragionevole e consono ai principi di solidarietà familiare e di tutela della disabilità, nonché adeguato all’attenzione che non può che riservarsi ai valori della funzione genitoriale e alla salvaguardia della integrità della famiglia nucleare, prevedere che in caso di plurime istanze di assegnazione temporanea in relazione al medesimo Ufficio, sia data, secondo l’ordine sotto specificato, priorità alle seguenti situazioni:
  1. Dipendente disabile in situazione di gravità;
  2. Famiglia nucleare
    1. Figlio disabile in stato di gravità;
    2. Coniuge/convivente/parte di unione civile disabile in situazione di gravità;
  3. Ricongiungimento familiare ex art. 42-bis, d.lgs. 151/2001;
  4. Discendenti sino al secondo grado e ascendenti di primo grado
    1. Genero/nuora disabile in situazione di gravità;
    2. Nipote in linea retta disabile in situazione di gravità;
    3. Genitore/suocero disabile in situazione di gravità;
  5. Secondo grado
    1. Fratello/sorella/cognato/cognata disabile in situazione di gravità;
    2. Nonno disabile in situazione di gravità;
  6. Terzo grado (nei limiti di legge)
    1. Nipote in linea collaterale disabile in situazione di gravità;
    2. Zio disabile in situazione di gravità;
    3. Bisnonno disabile in situazione di gravità.
Nel caso di più istanze riconducibili ad una medesima categoria (Disabilità del dipendente/Famiglia nucleare/Ricongiungimento familiare/Discendenti sino al secondo grado e ascendenti di primo grado/Secondo grado/Terzo grado), si avrà riguardo in primo luogo alla distanza chilometrica tra la sede di servizio e quella di residenza/domicilio del disabile, calcolata sulla tratta più breve ferroviaria ovvero stradale. Qualora la differenza tra le suddette distanze sia però inferiore a cinquanta chilometri, si darà preferenza al dipendente con maggiore anzianità di servizio.
Durata della assegnazione temporanea
La intrinseca e insuperabile temporaneità della assegnazione – come detto, ancorata alla perdurante sussistenza dei requisiti di legge – consente nondimeno di superare il precedente orientamento che prevedeva una rigida limitazione cronologica dell’efficacia del provvedimento di mobilità (solitamente individuata in un anno o, meno spesso, in periodi più brevi, con conseguenti – e spesso numerosi – successivi provvedimenti di proroga).
Per intuibili finalità di chiara enunciazione dei diritti e delle prospettive personali del dipendente beneficiario delle agevolazioni (oltre che di efficienza dell’azione amministrativa), il provvedimento espliciterà nella parte dispositiva la propria validità non rigidamente prefissata, ma subordinata al semplice permanere delle condizioni che ne hanno legittimato l’adozione. Al venir meno di queste condizioni, sarà comunicata al dipendente e agli Uffici di destinazione e di provenienza la cessazione della assegnazione e sarà fissato un termine congruo per il rientro nella sede originaria.
Controlli e sanzioni
I provvedimenti di assegnazione temporanea saranno dunque periodicamente monitorati da questa Direzione Generale, mediante espressa richiesta al dipendente, al fine di aggiornare la documentazione (ad esempio, in caso di documentazione sanitaria che attesti un handicap grave rivedibile) e verificare l’attualità delle dichiarazioni sostitutive prodotte a supporto dell'istanza.
Si potrà altresì procedere, anche a campione, alla verifica delle dichiarazioni sostitutive secondo le consuete modalità (artt. 71-72, d.P.R. n. 445/2000).
Qualora l’accertamento evidenziasse l’insussistenza originaria o sopravvenuta dei presupposti per la legittima fruizione dei permessi ovvero la mancata comunicazione di circostanze sopravvenute rilevanti, sarà immediatamente disposta la revoca della assegnazione temporanea [14].
Laddove, poi, emergessero gli estremi di una responsabilità disciplinare e/o penale [15], si procederà alla tempestiva contestazione degli addebiti e, se del caso, alla comunicazione all’Autorità giudiziaria.
Peraltro, le ipotesi di giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa sono punite (anche) con la sanzione disciplinarmente del licenziamento senza preavviso, e comportano l’obbligo del risarcimento del danno patrimoniale e del danno all’immagine subiti dall’Amministrazione.
L’avvio e l’esito dei procedimenti disciplinari saranno comunicati all’Ispettorato per la funzione pubblica, come richiesto dalla Direttiva del Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione del 6 dicembre 2007, n. 8.
Si prega le Signorie Loro di voler comunicare a tutto il personale in servizio presso codesti Uffici, la presente circolare.
Roma, 31 gennaio 2020
Il Direttore Generale
Alessandro Leopizzi


NOTE
Nota 1 - Valga qui solo la pena di richiamare la Dichiarazione dei diritti delle persone disabili promossa il 9 dicembre 1975 e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 (che, superando i precedenti approcci di natura assistenziale, medica o sociale, si fonda sull’ottica dei diritti umani; ratificata in Italia con legge 3 marzo 2009, n. 18), la Convenzione sulla riqualificazione professionale e sull’impiego delle persone disabili n. 159/1983 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la concezione “dinamica” della disabilità fatta propria dalla Carta dei diritti dell’Unione europea (cfr., in particolare, gli artt. 26, 27 e 49), la fondamentale direttiva 2000/78/CE recepita nell’ordinamento italiano con il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, e la Comunicazione della Commissione sulla Strategia europea sulla disabilità 2010-2020.
Nota 2 - Per completezza, si sottolinea come la Corte di Giustizia europea, sulla scorta della citata Convenzione Onu, abbia inteso la disabilità, ai fini che qui rilevano, non più muovendo da un modello schiettamente medico (come nella precedente sentenza Chacòn Navas, causa C-13/2005, che segue percorsi esegetici battuti sino ad oggi anche dalla legislazione italiana), ma come una limitazione di lunga durata derivante in particolare da deficit fisici, mentali o psichici che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (sentenza HK Denmark, cause riunite C-335/2011 e C337/2011).
Nota 3 - Può pertanto prescindersi in questa sede da una pur sommaria disamina anche della l. 12 marzo 1999, n. 68, recante norme per il diritto al lavoro dei disabili, che muove dalla medesima ratio, ma attiene precipuamente alla disciplina del collocamento, dell’avviamento al lavoro e delle quote di riserva. Del pari, risultano ultronei i richiami ad altre tipologie di distacco fondate sulla tutela della libertà sindacale o sull’espletamento di un mandato elettorale.
Nota 4 - La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da un capostipite comune, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo, tranne che nel caso di adozioni di maggiori di età ex art. 291ss c.c. (art. 74 c.c.).
Il rapporto di parentela è in linea retta quando intercorre tra un ascendente e i suoi discendenti e in linea collaterale quando, nonostante la comune discendenza, non c’è una serie di filiazioni dirette (art. 75 c.c.).
Nota 5 - L’affinità è il vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge. L’affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge (art. 78 c.c.).
Nota 6 - Al solo fine di assicurare l’effettività  della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti (art. 1, comma 20, l. 76/2016).
Nota 7 - In caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari” (art. 1, comma 39, l. 76/2016).
Devono intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile (art. 1 comma 36). L’accertamento della stabile convivenza potrà avvenire, per quanto interessa in questa sede, soltanto mediante la dichiarazione anagrafica di cui agli artt. 4 e 13, comma 1, lett. b), d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223.
Nota 8 - L’assistenza nei confronti del figlio in situazione di handicap grave invero gode di un regime più flessibile, anche in deroga all’obbligo di “referente unico”, potendo essere prestata alternativamente da entrambi i genitori (art. 33, comma 3, l. 104/1992).
Nota 9 - Nota, condivisibilmente, la citata circolare del Dipartimento di Funzione Pubblica: «La legge non ha definito la nozione di “patologie invalidanti”. In mancanza di un'espressa scelta sul punto, sentito il Ministero della salute, un utile punto di riferimento per l'individuazione di queste patologie è rappresentato dall'art. 2, comma 1, lett. d), del decreto interministeriale - Ministero per la solidarietà sociale, Ministero del lavoro e della previdenza sociale, Ministero per le pari opportunità 21 luglio 2000, n. 278 (Regolamento recante disposizioni di attuazione dell'articolo 4 della L. 8 marzo 2000, n. 53, concernente congedi per eventi e cause particolari), che disciplina le ipotesi in cui è possibile accordare il congedo per gravi motivi di cui all'art. 4, comma 2, della l. n. 53 del 2000. In particolare, si tratta delle: “1) patologie acute o croniche che determinano temporanea o permanente riduzione o perdita dell'autonomia personale, ivi incluse le affezioni croniche di natura congenita, reumatica, neoplastica, infettiva, dismetabolica, post-traumatica, neurologica, neuromuscolare, psichiatrica, derivanti da dipendenze, a carattere evolutivo o soggette a riacutizzazioni periodiche; 2) patologie acute o croniche che richiedono assistenza continuativa o frequenti monitoraggi clinici, ematochimici e strumentali; 3) patologie acute o croniche che richiedono la partecipazione attiva del familiare nel trattamento sanitario”. In presenza di queste situazioni, che naturalmente debbono essere tutte documentate, la legge consente di allargare la cerchia dei famigliari legittimati a fruire [delle agevolazioni], stimando a priori che i soggetti affetti dalle patologie in esame non siano in grado di prestare un'assistenza adeguata alla persona in situazione di handicap grave. Pertanto, nel caso in cui il coniuge o i genitori della persona in situazione di handicap grave siano affetti dalle patologie rientranti in questo elenco, l'assistenza potrà essere prestata anche da parenti o affini entro il terzo grado. […]
Ai fini della disciplina in esame, si ritiene corretto ricondurre al concetto di assenza, oltre alle situazioni di assenza naturale e giuridica in senso stretto (celibato o stato di figlio naturale non riconosciuto), le situazioni giuridiche ad esse assimilabili, che abbiano carattere stabile e certo, quali il divorzio, la separazione legale e l’abbandono, risultanti da documentazione dell’autorità giudiziaria o di altra pubblica autorità.
È opportuno evidenziare che la possibilità di passare dal secondo al terzo grado di assistenza si verifica anche nel caso in cui uno solo dei soggetti menzionati (coniuge, genitore) si trovi nelle descritte situazioni (assenza, decesso, patologie invalidanti), poiché nella disposizione normativa è utilizzata la congiunzione disgiuntiva (“qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti”)».
Da queste logiche argomentazioni non vi è motivo per discostarsi.
Nota 10 - Si deroga a questa disposizione, come accennato, in relazione ai genitori di un soggetto con handicap in situazione di gravità, i quali possono fruire alternativamente delle agevolazioni in questione.
Nota 11 - La consolidata esegesi (cfr. in particolare la citata Circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica) e comunque insuperabili riflessioni di ordine sistematico, impongono impone di ritenere che, nonostante la lettera della legge faccia riferimento solo al lavoratore che fruisce dei permessi per assistere una persona in situazione di handicap grave, la regola espressa dalla disposizione non possa che riguardare «tutte le ipotesi in cui il soggetto apparentemente legittimato alle agevolazioni in realtà non è in possesso dei requisiti legali per la loro legittima fruizione. Infatti, la decadenza, ovvero la perdita della possibilità di continuare ad usufruire dei permessi, rappresenta l’effetto naturale dell'insussistenza dei presupposti per la legittimazione all’istituto e, come tale, essa è prevista nel menzionato Testo unico in materia di documentazione amministrativa a proposito delle dichiarazioni sostitutive non veritiere (l'art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 stabilisce che “qualora dal controllo di cui all'articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”). Quindi, a titolo di esempio, si può verificare la decadenza anche in capo al lavoratore in situazione di handicap grave che prende i permessi per le proprie esigenze o in capo al genitore che fruisce delle due ore di permesso al giorno ai sensi dell'art. 42 del d.lgs. n. 151 del 2001».
Nota 12 - Cfr. In termini CdS 5206/2017, 4671/2017; Trib. Barcellona P.d.G., ord. 8 ottobre 2019.
Appaiono sicuramente meno coerenti con il netto impianto sistematico, alcune pronunce dei Giudici di merito che hanno ritenuto plausibile identificare il bene della vita invocato dal ricorrente con un trasferimento definitivo (sia pure senza motivare espressamente questa conclusione, di fatto apodittica).
Nota 13 - Situazione normativamente esplicitata, peraltro, dall’art. 42-bis, comma 2, d.lgs. 151/2001 (“Il posto temporaneamente lasciato libero non si renderà disponibile ai fini di una nuova assunzione”).
Nota 14 - Ferma restando la verifica dei presupposti per l'accertamento della responsabilità disciplinare, il lavoratore decade dai diritti di cui al presente articolo, qualora il datore di lavoro o l’INPS accertino l’insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti (art. 33, comma 7-bis, l. 104/1992).
Nota 15 - A mero titolo di esempio, per i delitti di cui agli artt. 76, d.P.R. 445/2000 ovvero 55-quater, comma 1, lett. a), e 55-quinquies, commi 1 e 2, d.lgs. 165/2001