sabato 26 dicembre 2015

Costa caro al comune il diniego di sub-ingresso nell'attività di acconciatore

N. 05076/2015REG.PROV.COLL.
N. 04062/2006 REG.RIC.



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4062 del 2006, proposto da:
Comune di Roma, in nome del sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso per legge dall'avv. Rosalda Rocchi, domiciliata in Roma, via del Tempio di Giove n. 21;

contro

D'Alessandro Gianluca, rappresentato e difeso dall'avv. Mario Occhipinti, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Belsiana n. 71;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA, SEZIONE II TER, n. 00203/2006, resa tra le parti, concernente autorizzazione per attività di acconciatore uomo-donna con condanna al risarcimento danni.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 settembre 2015 il Cons. Oreste Mario Caputo e uditi per le parti gli avvocati Giorgio Pasquali, in dichiarata sostituzione dell'avvocato Rosalda Rocchi, e Rocco Luigi Girolamo, in dichiarata delega dell'avvocato Mario Occhipinti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

D’Alessandro Gianluca ha impugnato il diniego opposto dal comune di Roma, Municipio 19, sulla domanda di rilascio d’autorizzazione amministrativa per l’esercizio dell’attività di acconciatore uomo-donna nel locale sito in Roma via De Carolis n. 97/d, di cui alla determina n. 1534 in data 28 giugno 2002.

In narrativa dell’atto introduttivo premetteva in fatto:

di aver acquistato l’azienda dal precedente esercente l’attività di acconciatore svolta negli stessi locali;

che sulla domanda intesa ad ottenere il subentro nell’esercizio la Commissione del Dipartimento VIII esprimeva parere contrario al rilascio dell’autorizzazione;

che né il parere negativo né la comunicazione d’avvio del procedimento di diniego gli erano stati correttamente comunicati;

che, a conclusione del procedimento, il dirigente dell’ufficio competente denegava l’autorizzazione inibendo l’esercizio dell’attività.

Conseguenti i motivi d’impugnazione, articolati nella violazione degli artt. 7, 8, 10 e 11 della l. n. 241/1990 e nell’eccesso di potere per insufficienza della motivazione e contraddittorietà.

Deduceva, oltre il difetto del contraddittorio nel procedimento, che la causa ostativa all’esercizio dell’attività, individuata dal Comune nella presenza di due esercizi congeneri a distanza di mt. 51 e mt. 85 dal locale compravenduto, non teneva conto della realtà commerciale della zona, interessata, come rilevato dalla polizia urbana, dalla presenza di “popolazione fluttuante”.

Sicché, secondo il ricorrente, si era in presenza della situazione di fatto che, ai sensi della deliberazione consiliare n. 2671/74, giustificava la deroga alle distanze minime.

Concludeva instando per l’annullamento del diniego e la condanna al risarcimento dei danni.

Si costituiva il comune di Roma negando la fondatezza del ricorso.

Il TAR accoglieva il ricorso, annullava gli atti impugnati e condannava il Comune al risarcimento del danno, circoscritto al danno emergente, demandando al procedimento previsto all’art. 35, comma 2, d.lgs. n. 80/1998, la quantificazione della somma spettante al ricorrente.

Motivava l’accoglimento delle domande rilevando: quanto all’impugnazione, l’assenza di motivazione sulla sussistenza delle condizioni che giustificavano la deroga alle distanze fra esercizi commerciali congeneri, attestata ex post dall’avvenuta emissione, da parte della Commissione competente, di un parere favorevole al rilascio della richiesta autorizzazione (nota di comunicazione del Comune dell’11.07.2003); e, quanto alla condanna, l’ingiustizia del danno – conseguente all’illegittimo diniego – sofferto dal ricorrente per le spese inutilmente sostenute per l’apertura dell’attività di cui, per l’omesso rilascio del titolo, non ha potuto conservare la disponibilità dei locali.

Appella la sentenza Roma Capitale (già comune di Roma), resiste D’Alessandro Gianluca, depositando e scambiando memorie.

Alla pubblica udienza del 24.09.2015 la causa, su richiesta delle parti, è trattenuta in decisione.

Con unico complesso motivo d’appello Roma Capitale deduce, sotto plurimi profili, l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni.

I giudici di prime cure non avrebbero adeguatamente considerato che la deroga al rispetto delle distanze fra esercizi congeneri costituisce espressione di valutazione discrezionale, esclusivamente rimessa all’amministrazione procedente che, in relazione alla concreta situazione di fatto, comparati gli interessi coinvolti, può o meno rilasciare l’autorizzazione in deroga.

Di conseguenza, il privato, richiedente il titolo, non vanta(va) alcuna aspettativa o legittimo affidamento al rilascio dell’autorizzazione la cui sussistenza, sottolinea l’amministrazione appellante, sarebbe indefettibile presupposto del risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo pretensivo.

Aggiunge che l’illegittimità meramente formale, quale l’assenza di motivazione, che ha giustificato l’annullamento del diniego, non avrebbe dovuto dare causa al risarcimento del danno.

Che, oltretutto, essendo subordinato all’accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito, ossia alla dimostrazione della colpa dell’amministrazione, sarebbe stato disposto in assenza della relativa prova incombente sul ricorrente e quantificato in una misura non corrispondente alla posizione soggettiva incisa, al più circoscritta al mero ritardo nel rilascio del titolo richiesto.

L’appello è infondato.

L’annullamento del diniego, da cui scaturisce la condanna al risarcimento del danno, sortisce dalla mancanza di specifica motivazione sulla reale situazione di fatto della zona in cui s’insediava l’attività disimpegnata dal ricorrente. Come accertato dalla polizia municipale, la zona commerciale registrava – al momento della presentazione della domanda d’autorizzazione – “una popolazione fluttuante” che, secondo la disciplina generale, di cui l’amministrazione stessa s’è dotata (art. 5 delibera consiliare n. 2641/74), giustificava la deroga al regime ordinario delle distanze fra esercizi congeneri.

Tant’è che sulla richiesta di riesame, formulata dal ricorrente in pendenza di causa, il Comune, sulla base degli stessi elementi allegati all’originaria domanda – e di cui al diniego opposto ed oggetto di ricorso – ha radicalmente mutato indirizzo, comunicando il nuovo parere della Commissione competente favorevole al rilascio della richiesta autorizzazione.

In definitiva sebbene l’organo ispettivo, deputato al riscontro della situazione di fatto che giustifica la deroga, abbia individuato una delle cause che la giustificavano, l’amministrazione ha immotivatamente respinto la domanda di rilascio sul rilievo della presenza di due esercizi limitrofi “più che sufficienti per l’attuale popolazione”.

Così facendo non solo è venuta meno al dovere di motivazione ma è altresì incorsa nelle c.d. figure sintomatiche d’eccesso di potere per illogicità manifesta e contraddittorietà denunciate dal ricorrente: per un verso, ha ignorato, senza addurre alcuna giustificazione, gli accertamenti effettuati dalla polizia municipale; per l’altro, ha disatteso la disciplina regolamentare – dettata in via generale e, va sottolineato, integrante un vincolo per l’apparato burocratico procedente – relativa il rilascio delle autorizzazioni nelle zone commerciali “a popolazione fluttuante”.

Sicché, contrariamente a quanto deduce l’amministrazione appellante, il Tar, accogliendo la censura che ha dedotto li difetto di motivazione, non s’è affatto ingerito nelle valutazioni di esclusiva competenza del Comune; né ha circoscritto il decisum d’annullamento ad un vizio formale. Ha piuttosto accertato, nella cornice della situazione di fatto e di diritto scaturente dalla disciplina di settore presente al momento della domanda, la sussistenza in capo al ricorrente di un legittimo affidamento e/o di fondata aspettativa al rilascio del titolo.

La cui lesione, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale – come riconosce la stessa amministrazione resistente senza tuttavia trarne le dovute conseguenze applicative al caso in esame perché tradita dall’incompleta ricostruzione della controversia all’esame – dà luogo al risarcimento del danno (cfr., fra le molte, Cons. St., sez. IV, 4 settembre 2013 n. 4452).

In definitiva, alla stregua del giudizio prognostico, esperito in via congetturale, la pretesa del ricorrente volta a conseguire l’autorizzazione era fondata.

Sussistono altresì i presupposti per la condanna al risarcimento del danno.

L’elemento soggettivo colposo è reso manifesto dalla negligente valutazione della reale situazione in cui versava il ricorrente (cfr. Cons. St., sez. IV, 10 luglio 2013 n. 3661): la richiesta d’autorizzazione riguardava non l’apertura di un nuovo esercizio bensì il subentro in un’attività già operante in una zona che, come già precisato, non era affatto rigidamente assoggettata alle preclusioni sulle distanze fra esercizi congeneri.

Negligenza testimoniata altresì dal fatto che la stessa amministrazione, re melius perpensa, ha poi comunicato il parere favorevole al rilascio del titolo a conclusione del procedimento, attivato con istanza di riesame dal ricorrente, sulla base delle medesime condizioni già presenti al momento della presentazione della richiesta originaria.

Il ricorrente ha altresì dimostrato che il mancato tempestivo ottenimento dell’autorizzazione, impedendogli l’esercizio dell’attività, ha pregiudicato la sua situazione patrimoniale tanto da aver (dovuto) rinunciare alla disponibilità dei locali, ed il danno, effettivamente provato in giudizio, è consistito nelle spese inutilmente affrontate per l’apertura dell’attività.

Il pregiudizio economico, circoscritto al danno emergente, è stato oggetto di specifico giudizio del Tar Lazio sez. II ter che con sentenza n. 1831/2009, in sede di definizione del ricorso n. 6441/08 promosso per l’esecuzione della sentenza qui appellata, ha abbattuto il 10% delle spese documentate dal ricorrente, quantificandolo correttamente nell’importo complessivo di 9.517,20 euro, oltre rivalutazione monetaria dal settembre 2002, in coincidenza con la cessazione dell’attività. Sulle somme via via rivalutate, con decorrenza dalla stessa data, sono altresì dovuti gli interessi legali

Conclusivamente l’appello deve essere respinto.

Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.


P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna Roma Capitale alla rifusione delle spese di lite del presente grado di giudizio in favore del ricorrente che si liquidano in complessivi 3000,00 (tremila) euro, oltre diritti ed accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 settembre 2015 con l'intervento dei magistrati:



Carmine Volpe, Presidente
Doris Durante, Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere
Raffaele Prosperi, Consigliere
Oreste Mario Caputo, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE




DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 06/11/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)