mercoledì 20 marzo 2013

Non è anticostituzionale l'art. 186, c. 9° bis, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), aggiunto dall'art. 33, c. 1°, lett. d), della legge 29/07/2010, n. 120.

Ordinanza 43/2013
Giudizio
Presidente GALLO - Redattore FRIGO
Camera di Consiglio del 13/02/2013 Decisione del 11/03/2013
Deposito del 15/03/2013 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:Art. 186, c. 9° bis, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), aggiunto dall'art. 33, c. 1°, lett. d), della legge 29/07/2010, n. 120.
Massime:
Atti decisi:ord. 193/2012

ORDINANZA N. 43

ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 186, comma 9-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), aggiunto dall’articolo 33, comma 1, lettera d), della legge 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale), promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Benevento nel procedimento penale a carico di N.G. con ordinanza dell’11 giugno 2012, iscritta al n. 193 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2013 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto che, con ordinanza dell’11 giugno 2012, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Benevento ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 186, comma 9-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), aggiunto dall’art. 33, comma 1, lettera d), della legge 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale), nella parte in cui non prevede che anche il giudice dell’esecuzione possa sostituire con il lavoro di pubblica utilità le pene dell’arresto e dell’ammenda inflitte per i reati previsti dal medesimo art. 186, fuori dei casi indicati dal comma 2-bis, quando il condannato ne faccia richiesta prima dell’inizio dell’esecuzione della pena e il punto non abbia già formato oggetto di esame e di decisione da parte del giudice della cognizione;
che il rimettente riferisce di essere investito, quale giudice dell’esecuzione, dell’istanza proposta da una persona condannata, con decreto penale divenuto irrevocabile a seguito di rinuncia all’opposizione, alla pena di seimila euro di ammenda (di cui cinquemila in sostituzione di venti giorni di arresto), per il reato di guida sotto l’influenza dell’alcool (art. 186, commi 2, lettera b, e 2-sexies, cod. strada);
che il condannato ha chiesto che la pena inflittagli sia sostituita, ai sensi della norma censurata, con la sanzione del lavoro di pubblica utilità, producendo la dichiarazione di disponibilità e il programma di lavoro dell’ente che dovrebbe beneficiare delle proprie prestazioni (indicato nella Lega italiana per la lotta contro l’Aids);
che l’istante ha, altresì, precisato di non aver potuto formulare la richiesta di sostituzione nel corso del giudizio di cognizione, per difetto di positivi riscontri da parte degli altri centri di assistenza e di volontariato all’epoca contattati;
che, ad avviso del giudice a quo, l’istanza non sarebbe suscettibile di accoglimento, dovendosi escludere, in base all’univoco tenore letterale dell’art. 186, comma 9-bis, cod. strada, che la sostituzione richiesta possa essere disposta dal giudice dell’esecuzione in un momento successivo alla formazione del giudicato;
che, per questo verso, la norma denunciata si porrebbe tuttavia in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.;
che il lavoro di pubblica utilità costituirebbe, infatti, una pena «meno afflittiva, più socialmente utile ed economica, più moralmente accettabile e soprattutto più in linea con la funzione rieducativa» rispetto alle pene tradizionali dell’arresto e dell’ammenda;
che la norma censurata riconnette, inoltre, al regolare svolgimento dell’attività lavorativa gratuita in favore della collettività una serie di vantaggi (estinzione del reato, riduzione a metà del periodo di sospensione della patente, revoca della confisca del veicolo), atti a consentire un «più rapido ed agevole reinserimento dei condannati nella normale vita sociale e lavorativa»;
che il lavoro sostitutivo e i benefici in questione sarebbero strettamente collegati alla natura dei reati cui afferiscono (i diversi casi di guida sotto l’influenza dell’alcool) e alla personalità dei loro autori;
che la misura prevista dalla norma denunciata – al pari di quella analoga delineata dall’art. 187, comma 8-bis, cod. strada per i casi di guida sotto l’influsso di sostanze stupefacenti – si differenzierebbe, dunque, nettamente sia dalle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, previste dagli artt. 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), tra le quali non è compreso il lavoro di pubblica utilità; sia dalle altre ipotesi nelle quali è applicabile il lavoro di pubblica utilità, senza però che vi si colleghino l’estinzione del reato e gli altri vantaggi dianzi ricordati (quali quelle contemplate dall’art. 73, comma 5-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, recante il «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza»; dall’art. 54 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, recante «Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468»; dall’art. 224-bis cod. strada e dall’art. 1, comma 1-bis, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, recante «Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa», convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205);
che le considerazioni sulla cui base le norme ora indicate – che pure limitano l’applicazione del lavoro di pubblica utilità alla fase di cognizione – sono state ritenute costituzionalmente legittime non sarebbero, pertanto, estensibili alla norma oggi sottoposta a scrutinio;
che, per altro verso, sebbene la norma permetta la sostituzione anche senza la richiesta dell’imputato, essendo sufficiente che questi non si opponga, sarebbe, di fatto, improbabile che il giudice si attivi in tale direzione in assenza di una specifica richiesta;
che per «provvedere in modo efficace» il giudice dovrebbe, infatti, conoscere l’ente beneficiario delle prestazioni; essere certo della sua disponibilità o dell’esistenza di una convenzione tra esso e il Ministro della giustizia o il presidente del tribunale; sapere dove l’attività lavorativa sarà svolta e la sua natura; assicurarsi, infine, del fatto che l’imputato sia concretamente propenso ad effettuarla;
che potrebbe, peraltro, accadere che l’imputato e il suo difensore non chiedano l’applicazione della pena sostitutiva, o perché non consapevoli, al momento del giudizio, della sua convenienza (la legge non prevede un obbligo di informazione al riguardo da parte del giudice), ovvero perché – come dedotto dall’interessato nel caso di specie – non riescano a trovare un ente disposto a fruire della prestazione lavorativa gratuita;
che, a propria volta, il giudice potrebbe – anche alla luce di quanto dianzi osservato – non verificare di sua iniziativa l’opportunità di sostituire la pena da infliggere con il lavoro di pubblica utilità;
che, di conseguenza, la norma censurata, non prevedendo che la sostituzione possa essere disposta anche in fase esecutiva, sottoporrebbe casi sostanzialmente simili ad un trattamento sanzionatorio irragionevolmente differenziato, frustrando la finalità rieducativa della pena cui è ispirata la speciale disciplina della quale si discute;
che la questione di legittimità costituzionale andrebbe, peraltro, circoscritta ai casi in cui l’applicabilità del lavoro sostitutivo non abbia già formato oggetto di esame e di decisione da parte del giudice della cognizione: in caso contrario, l’imputato avrebbe avuto, infatti, l’onere di impugnare la decisione negativa, sicché consentire la riproposizione della richiesta al giudice dell’esecuzione contrasterebbe con il principio di intangibilità del giudicato;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.
Considerato che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Benevento dubita, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 186, comma 9-bis, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), aggiunto dall’art. 33, comma 1, lettera d), della legge 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale), nella parte in cui non consente anche al giudice dell’esecuzione di sostituire con il lavoro di pubblica utilità le pene dell’arresto e dell’ammenda inflitte per i reati previsti dal medesimo art. 186 (guida sotto l’influenza dell’alcool, purché non ricorra la circostanza aggravante della causazione di un incidente stradale, e rifiuto dell’accertamento di cui ai commi 3, 4 e 5), qualora il condannato ne faccia richiesta prima dell’inizio dell’esecuzione della pena e sul punto non si sia già espresso il giudice della cognizione;
che la premessa interpretativa che fonda il quesito di costituzionalità è pienamente condivisibile;
che dal dato testuale emerge, in effetti, univocamente che la sostituzione può essere disposta solo finché il decreto penale o la sentenza di condanna non siano divenuti irrevocabili e, dunque, non ad opera del giudice dell’esecuzione: come nota il rimettente, infatti, la norma denunciata richiede, ai fini della sostituzione, che non vi sia opposizione «da parte dell’imputato» (non anche del «condannato») e stabilisce, inoltre, che il giudice demandi agli organi competenti la verifica sull’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità «con il decreto penale o con la sentenza» (senza menzionare l’ordinanza del giudice dell’esecuzione);
che non consta, d’altra parte, alcuna specifica norma che – analogamente a quanto disposto, ad esempio, dagli artt. 671, 672 e 674 cod. proc. pen. – consenta al giudice dell’esecuzione di incidere sul giudicato ai fini considerati, sostituendo una pena irrevocabilmente inflitta con un’altra;
che, ciò posto, la preclusione ora indicata palesemente non lede alcuno dei parametri costituzionali invocati dal giudice a quo, risultando del tutto coerente, sul piano sistematico, con il ruolo che il lavoro di pubblica utilità è chiamato nel frangente ad assolvere: quello, cioè, di pena sostitutiva;
che analogamente a quanto avviene per le sanzioni sostitutive previste dagli artt. 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689, e per quella stessa del lavoro di pubblica utilità, prevista in rapporto a taluni reati in materia di stupefacenti dall’art. 73, comma 5-bis, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il potere di sostituzione rientra nel più generale potere discrezionale di determinazione della pena in concreto per il fatto oggetto di giudizio, spettante al giudice che pronuncia il decreto penale o la sentenza di condanna;
che, come risulta dall’impiego della voce verbale «può», l’applicazione della pena sostitutiva in questione non costituisce, infatti, oggetto di un diritto dell’imputato, ma è disposta discrezionalmente dal giudice sulla base di una valutazione di meritevolezza che ha quali parametri i criteri enunciati dall’art. 133 del codice penale – così come, del resto, è espressamente stabilito dall’art. 58 della legge n. 689 del 1981 – oltre che sulla base di una prognosi di positivo svolgimento del lavoro;
che la situazione non muta, sotto il profilo considerato, per il solo fatto che, nell’ipotesi oggetto di scrutinio, il legislatore abbia annesso particolari benefici alla regolare esecuzione della pena sostitutiva;
che l’interesse dell’autore del reato ad essere ammesso al lavoro sostitutivo andrà, dunque, fatto valere e apprezzato nell’ambito del giudizio di cognizione, senza che possa ravvisarsi alcuna esigenza costituzionale di estendere il relativo potere anche al giudice dell’esecuzione, oltre e contro il limite del giudicato (abbia o non abbia il punto formato oggetto di specifico esame in sede cognitiva);
che, nell’ipotesi in questione, non ricorrono, infatti, quelle situazioni eccezionali che hanno indotto il legislatore a prefigurare possibili modifiche, in sede esecutiva, delle determinazioni in ordine alla pena irrevocabilmente adottate in sede cognitiva: com’è, in specie, per la prevista applicabilità, da parte del giudice dell’esecuzione, della disciplina del concorso formale e del reato continuato (art. 671 cod. proc. pen.), finalizzata ad evitare irragionevoli sperequazioni fra chi è stato giudicato in un unico processo per i reati in concorso formale o in continuazione e chi è stato invece giudicato in processi distinti;
che non è probante, in senso contrario, l’argomento, svolto dal rimettente a sostegno della denunciata violazione dell’art. 3 Cost., in base al quale la mancata applicazione della misura sostitutiva in sede di cognizione potrebbe essere dipesa da ragioni contingenti, e segnatamente dal fatto che l’imputato non abbia richiesto la sostituzione nel corso del giudizio in quanto allora non consapevole della sua convenienza, o per non essere riuscito a reperire, in quel momento, un ente disposto ad avvalersi della propria prestazione lavorativa (così come sostenuto dal condannato nel caso oggetto del procedimento principale);
che, a prescindere da ogni altra possibile obiezione – e, in particolare, da quella che il riferimento all’eventuale carenza di consapevolezza circa la convenienza della sostituzione equivale a negazione della funzione della difesa tecnica – è dirimente il rilievo che le deduzioni del giudice a quo non risultano coerenti con il regime normativo della sostituzione;
che, come lo stesso rimettente riconosce, il lavoro di pubblica utilità previsto dalla norma censurata può essere, infatti, applicato anche d’ufficio dal giudice, indipendentemente da qualunque richiesta dell’imputato: condizione necessaria e sufficiente è soltanto che quest’ultimo non manifesti la propria opposizione;
che, correlativamente, in base al prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, nel caso in cui l’imputato non si sia opposto o abbia formulato espressa istanza di sostituzione, la legge non gli impone alcun onere di individuazione delle modalità di esecuzione della misura, trattandosi di compito demandato istituzionalmente al giudice;
che, in particolare, la legge non richiede che l’imputato indichi l’ente presso il quale intende svolgere l’attività lavorativa, né che dimostri la concreta disponibilità di quest’ultimo ad avvalersi delle proprie prestazioni;
che la norma censurata rinvia, infatti, per la disciplina della misura, all’art. 54 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, con conseguente applicabilità del decreto ministeriale 26 marzo 2001, adottato dal Ministro della giustizia ai sensi della norma ora citata, il quale prevede che sia appunto il giudice a individuare, con la sentenza di condanna, il tipo di attività, nonché l’amministrazione, l’ente o l’organizzazione presso il quale questa deve essere svolta, avvalendosi dell’elenco degli enti convenzionati (art. 3);
che il medesimo decreto ministeriale stabilisce, altresì, che le apposite convenzioni, stipulate dagli enti interessati con il Ministro della giustizia o, per sua delega, con il presidente del tribunale, debbano indicare «specificamente le attività in cui può consistere il lavoro di pubblica utilità», oltre ai soggetti incaricati di coordinare la prestazione lavorativa del condannato e di impartire a quest’ultimo le relative istruzioni (art. 2);
che cade, con ciò, anche l’ulteriore argomento del rimettente, relativo alle asserite remore del giudice ad attivarsi in assenza di una istanza dell’interessato, corredata da uno specifico «programma di lavoro»: argomento che si traduce, peraltro, nell’allegazione di una mera circostanza di fatto, estranea al contenuto precettivo della disposizione denunciata;
che quanto, infine, alla asserita violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., non è dubbio che il legislatore annetta alla prestazione del lavoro di pubblica utilità previsto dalla norma in esame un particolare finalismo rieducativo, correlato alla natura degli illeciti penali cui la misura accede, come si desume tanto dalla delimitazione del settore nel quale deve essere prioritariamente svolta l’attività lavorativa (sicurezza e educazione stradale), quanto dai benefici riconnessi al proficuo svolgimento della stessa (estinzione del reato, riduzione a metà del periodo di sospensione della patente e revoca della confisca del veicolo sequestrato);
che ciò non toglie, tuttavia, che l’individuazione del trattamento sanzionatorio più congruo nel caso concreto, anche nella prospettiva della rieducazione del condannato, e segnatamente la valutazione dell’opportunità di sostituire con la misura in questione le pene inflitte per il singolo fatto di reato – esse pure tendenti alla rieducazione – resti compito proprio del giudice della cognizione, senza che possa ritenersi costituzionalmente necessario duplicare la relativa competenza in capo al giudice dell’esecuzione, a scapito del principio di intangibilità del giudicato;
che, alla luce delle considerazioni che precedono, la questione va dunque dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 186, comma 9-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), aggiunto dall’art. 33, comma 1, lettera d), della legge 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Benevento con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 marzo 2013.

F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 marzo 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI