N. 02458/2012REG.PROV.COLL.
N. 11046/2003 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul
ricorso numero di registro generale 11046 del 2003, proposto dalla
Societa' B & C. Car Wash S.n.c., rappresentata e difesa dagli avv.
Mario Menghini e Francesco Majocco, con domicilio eletto presso il primo
in Roma, via Vittoria Colonna 32;
contro
Comune di Chiusa S. Michele;
Maritano Fabrizio e Carlo, rappresentati e difesi dagli avv. Mario Contaldi e Marco Coscia, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Pierluigi da Palestrina 63;
Maritano Fabrizio e Carlo, rappresentati e difesi dagli avv. Mario Contaldi e Marco Coscia, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Pierluigi da Palestrina 63;
per la riforma
della
sentenza del T.A.R. PIEMONTE – TORINO, SEZIONE I, n. 1870/2002, resa
tra le parti, concernente CONCESSIONE EDILIZIA PER REALIZZAZIONE BASSI
FABBRICATI - VIOLAZIONE N.T.A. PRGC
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore
nell'udienza pubblica del giorno 20 marzo 2012 il Cons. Nicola Gaviano e
uditi per le parti gli avvocati Mario Menghini, (nella fase preliminare
e di discussione), nonché Marco Coscia e Mario Contaldi (nella fase
preliminare);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Il
Comune di Chiusa S. Michele rilasciava ai sigg. Carlo e Fabrizio
Maritano le concessioni edilizie nn. 11 e 12 del 22 settembre 1995, con
le quali veniva assentita la costruzione di un fabbricato ad uso
magazzino artigianale.
Contro tali provvedimenti
insorgeva dinanzi al TAR per il Piemonte la s.n.c. B & C Car Wash,
esercente un’attività di autolavaggio su un appezzamento confinante con
quello interessato dal manufatto, l’edificazione del quale aveva
separato il fondo di parte ricorrente dalla strada statale coprendolo
dalla relativa visuale, e così danneggiando l’attività della società.
Con il ricorso veniva assunta l’illegittimità dei titoli concessori impugnati, in quanto il manufatto, in sintesi :
- non rispettava le distanze imposte dallo strumento urbanistico vigente, per il fatto di essere stato assentito sul confine;
-
non poteva essere considerato alla stregua di un “basso fabbricato”, e
quindi fruire della più liberale disciplina comunale dettata per tale
categoria di interventi edilizi, in quanto a tal fine esso avrebbe
dovuto costituire la pertinenza di un’unità abitativa (o, in
alternativa, avere superficie contenuta entro i mq 25), ed avere,
altresì, un’altezza inferiore ai mt 2,50.
Resistevano
al gravame i controinteressati, che ne eccepivano l’inammissibilità
sotto più profili e, comunque, l’infondatezza nel merito.
Con la sentenza del T.A.R. adìto n. 1870/2002 in epigrafe il ricorso veniva respinto.
Da
qui l’appello dinanzi a questo Consiglio della medesima società
ricorrente, che riproponeva le proprie doglianze ed argomentazioni di
supporto dolendosi della decisione per averle disattese.
Resistevano
all’impugnativa anche in questo grado di giudizio i controinteressati,
che con le loro memorie reiteravano le eccezioni di inammissibilità
assorbite dal Tribunale e controdeducevano alle affermazioni e tesi
avversarie, concludendo per il rigetto dell’appello.
La
ricorrente, dal canto suo, replicava con i propri scritti alle difese
ed eccezioni avversarie, insistendo per l’accoglimento del gravame.
Alla pubblica udienza del 20 marzo 2012 la causa è stata trattenuta in decisione.
Rileva
preliminarmente la Sezione che i controinteressati, pur essendosi
costituiti in questo grado di giudizio depositando un atto denominato
“appello incidentale”, si sono limitati, con esso, a riproporre le
eccezioni in rito da loro già svolte in primo grado e dal Tribunale
considerate assorbite. Sicché il loro scritto integra gli estremi di una
comune memoria difensiva di costituzione in appello.
L’unico
gravame processualmente e sostanzialmente pendente in questa sede,
pertanto, è quello proposto dalla s.n.c. B & C Car Wash. E la sua
sicura infondatezza induce la Sezione a tralasciare l’esame delle
eccezioni in rito riproposte dai controinteressati per concentrarsi
senza indugio sui profili di merito della controversia.
1
La tesi di fondo svolta dalla società appellante è che la costruzione
realizzata dagli avversari non configurerebbe un “basso fabbricato”,
quale definito dalla specifica disciplina edilizia comunale, bensì un
normale edificio, conseguentemente soggetto alle regole generali vigenti
nel Comune, ed in primis a quella sulla distanza minima di mt. 5 dal confine.
La tesi non può essere condivisa.
2a
L’appellante, riferendosi al requisito dell’altezza massima di mt. 2,50
specificamente prevista per la categoria di costruzioni di cui si
tratta, deduce che questa figurerebbe rispettata solo sul lato esterno
della costruzione (precisamente, quello posto al confine con essa
ricorrente), laddove sul lato interno della proprietà, invece, l’altezza
giungerebbe a mt. 3.50. Ed il limite di altezza andrebbe rispettato
sull’intera estensione del fabbricato.
Questa impostazione, pur non implausibile sul piano della logica astratta, risulta tuttavia fuori fuoco.
Le
norme di attuazione del p.r.g. annoverano, infatti, una precisa regola
che ha proprio la funzione di definire le modalità da seguire per
calcolare l’altezza delle costruzioni. La regola (cfr. l’art. 3.2.4, ma
anche l’art. 7.3, ult. comma, delle NTA) impone di avere riguardo alla
differenza tra “la quota di estradosso del solaio di copertura e la
quota più bassa lungo il perimetro dopo la sistemazione del terreno” :
essa riflette, quindi, l’ingombro esterno del fabbricato, a partire dal
punto più basso della quota del terreno una volta sistemato, lungo il
perimetro dell’immobile.
A tale norma
l’Amministrazione si è riferita nel caso concreto, e ha dedotto, come
confermano qui i controinteressati, di averla fedelmente applicata. Ed è
alla stessa norma, pertanto, che il ricorrente avrebbe dovuto fare
riferimento nell’articolazione delle proprie deduzioni, le quali invece
finiscono, proprio per il fatto di non fare i conti con essa, per
risultare inconferenti.
Senza dire, inoltre, che la
motivazione della sentenza di primo grado è rimasta priva di
confutazione nel punto in cui il T.A.R. osservava che non doveva essere
preso in considerazione per il calcolo dell’altezza il timpano del
tetto, per essere esso un elemento accessorio aggiuntivo non
utilizzabile ma con una mera funzione estetica, e non un solaio di
copertura (in edilizia si usa comunemente indicare come “estradosso” la
faccia superiore delle superfici orizzontali).
Né risulta, d’altra parte, che i controinteressati fossero tenuti ad una copertura con soletta piana.
Donde l’infondatezza di questa prima doglianza della società in epigrafe.
2b
L’appellante deduce, inoltre, che la regola di altezza massima appena
illustrata sarebbe stata, in ogni caso, solo fittiziamente rispettata,
ma in realtà elusa, in quanto il fabbricato è stato parzialmente
interrato, abbassando di un metro il piano-pavimento interno al di sotto
del piano di campagna.
L’argomento, sul quale le
memorie della ricorrente non ritornano, ha trovato però confutazione,
per così dire, sin dall’origine, e cioè già dalla comunicazione del
Sindaco di Chiusa S. Michele del 25/10/1995 con cui era stata disattesa
la richiesta della ricorrente di un annullamento in autotutela delle
concessioni per cui è causa. Missiva che, dopo aver dato atto
dell’esistenza di due differenti disposizioni comunali in tema di
altezze, quella sull’ “altezza delle costruzioni” e quella sulla
“altezza minima dei vani abitabili”, rimarcava la sostanziale
coincidenza di testo con la prima di esse della regola specifica
sull’altezza massima dei “bassi fabbricati”. E ne desumeva, quindi, che
la regola dettata per i “bassi fabbricati” non poteva essere commisurata
all’altezza interna dei vani, bensì andava rapportata all’altezza
esterna del corpo di fabbrica, “essendo evidente che ciò che interessa è
l’ingombro esterno, in casi come questo: la stessa edificazione a
confine è ammessa proprio perché il fabbricato è incapace di causare
seri pregiudizi, non potendo superare l’altezza di due metri e mezzo,
all’esterno”.
Queste motivate osservazioni, che non
hanno trovato confutazione nelle deduzioni dell’appellante, impongono
dunque la reiezione anche di questo profilo dell’appello.
2c
Da quanto fin qui osservato si desume, pertanto, che nulla osta a
considerare il fabbricato in controversia, sotto il profilo della sua
altezza, come un “basso fabbricato”.
3
Dall’appellante viene altresì sostenuto che i “bassi fabbricati”
dovrebbero necessariamente costituire la pertinenza di un’unità
abitativa, o, in alternativa, avere superficie contenuta entro i mq 25,
condizioni che l’intervento assentito non soddisferebbe. La previsione,
quale destinazione d’uso della zona, anche di attività artigianali e
commerciali, atterrebbe alle caratteristiche generali dell’area, ma non
implicherebbe che tutte tali attività possano sempre svolgersi anche
all’interno di “bassi fabbricati”.
Il Tribunale ha
disatteso il rilievo, escludendo che questi ultimi manufatti dovessero
essere pertinenziali ad un’abitazione. Se la lett. f) dell’art. 7.3
delle NTA si occupa indubbiamente dei “bassi fabbricati” pertinenziali
ad immobile residenziale, per quelli che tali non siano è destinata a
valere, secondo il T.A.R., la previsione della lett. e) dello stesso
articolo, che si limita ad esigere il rispetto di un certo rapporto di
copertura complessiva (50 % ).
L’impostazione del Tribunale merita conferma.
Invero
l’art. 7.3, per non brillando per nitidezza testuale, non risulta
imporre alla categoria dei “bassi fabbricati” il gravoso vincolo di una
necessaria loro pertinenzialità rispetto ad unità abitative. L’articolo
si limita ad esigere, con la sua lett. f), ove una tale eventualità
ricorra, il rispetto di una certa soglia di superficie massima della
pertinenza rispetto all’unità principale (25 %), per gli altri casi
potendo invece valere la previsione sul rapporto di copertura di cui
alla precedente lett. e).
In altre parole, nel
sistema delle norme di attuazione dello strumento urbanistico non si
rinviene –tantomeno con la chiarezza che una limitazione così incisiva
richiederebbe- un vincolo quale quello presupposto dalla ricorrente.
Inoltre, nella zona in questione sono ammesse non solo destinazioni
residenziali, ma anche artigianali, commerciali, ricreative, ecc.,
(poste sullo stesso piano delle prime, tra l’altro, nel terzo paragr.
dell’art. 7.3, in merito alla facoltà di ampliamento del 20 % delle
superfici esistenti). Ne discende, in assenza di preclusioni, che anche
per tali ulteriori destinazioni ci si possa avvalere di “bassi
fabbricati”, e questo tanto in lotti liberi quanto in lotti già
(parzialmente) edificati.
A conforto
dell’interpretazione seguita dal primo Giudice vale richiamare, ancora
una volta, la comunicazione del Sindaco di Chiusa S. Michele del
25/10/1995, dove si attesta che la lettura esposta corrisponde alla
“linea interpretativa e la prassi precedentemente sempre applicate”, nel
senso che l’Ente aveva “sempre ritenuto” applicabile la disciplina
speciale in questione “per tutte quelle destinazioni d’uso che il Piano
ammette nella zona in questione”, in quanto “il PRG non pone altre
limitazioni, neppure di carattere funzionale, oltre a quelle elencate
nell’ult. co. dell’art. 7.3”.
La ricorrente non ha smentito che proprio in tal senso fosse la prassi costantemente seguita dal Comune in casi simili.
Essa,
di contro, vorrebbe trarre argomento, a favore della tesi che la
normativa sui “bassi fabbricati” non potrebbe riguardare quelli ad uso
artigianale/commerciale, dal vincolo di altezza massima di mt. 2,50
imposto alla speciale categoria di fabbricati di cui si tratta.
L’argomento non è però persuasivo. Mentre infatti, come si è visto nel
par. 2b, il limite appena ricordato riguarda l’ingombro esterno del
corpo di fabbrica, le regole sull’abitabilità attengono al diverso
aspetto dell’altezza interna dei vani.
Anche sotto
il profilo della sua destinazione, quindi, l’immobile in controversia è
ben suscettibile di essere considerato come un “basso fabbricato”.
4
L’immobile assentito rientra dunque effettivamente nella speciale
categoria di fabbricati più volte menzionata, e pertanto è soggetto alla
pertinente disciplina anche in tema di distanze.
Sotto
quest’ultimo profilo, l’appellante obietta che il rinvio alla
disciplina del Codice civile, operato dalla disciplina comunale per i
“bassi fabbricati” in tema di distanze, non toglie che le norme generali
di attuazione del piano (art. 3.3) esigano una distanza minima dai
confini di mt. 5.
Viene inoltre dedotto che la
decisione impugnata, nel ritenere legittime le concessioni sul
presupposto del rinvio che fanno, appunto, le norme comunali sulle
distanze dei “bassi fabbricati” alle regole del Codice civile,
conterrebbe un implicito riferimento al criterio codicistico della
prevenzione, laddove quest’ultimo istituto non potrebbe invece operare
nella fattispecie, per essere incompatibile con la previsione dell’art.
3.3.delle NTA.
Il ragionamento del primo Giudice resiste, però, anche a queste critiche.
Il
Tribunale ha posto invero in evidenza come la normativa comunale detti,
per i “bassi fabbricati”, pure in tema di distanze, una disciplina
derogatoria rispetto a quella generale.
L’art. 7.3
cit., alla lett. b), stabilisce, per la speciale categoria di manufatti
in discorso, che per le distanze dai confini debbano essere rispettate
le previsioni del Codice civile, precisando espressamente che possa
costruirsi anche in aderenza.
In tal modo la regola generale dettata in tema di distanze dall’art. 3.3 delle stesse NTA è stata quindi derogata.
Giustamente,
pertanto, il primo Giudice, dopo avere ricordato che la disciplina del
Codice civile ammette la costruzione sul confine, ha concluso anche per
questo aspetto per la legittimità delle concessioni.
A
conferma di tale conclusione vale osservare che l’art. 7.3, con il
richiamare senza limitazioni la disciplina codicistica, e con la propria
espressa precisazione che per i “bassi fabbricati” si possa costruire
anche in aderenza, richiama così, sempre in deroga alle regole comunali
generali dettate per i comuni fabbricati, anche la disciplina
codicistica sulla c.d. prevenzione.
L’insegnamento
della giurisprudenza della Suprema Corte in materia è difatti il
seguente. In tema di distanze nelle costruzioni, qualora gli strumenti
urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla
aggiungano sulla possibilità di costruire « in aderenza » od « in
appoggio », la preclusione di dette facoltà non consente l'operatività
del principio della prevenzione; nel caso in cui, invece, tali facoltà
siano previste, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella
disciplinata dagli art. 873 e ss. c.c., con la conseguenza che è
consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che
intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione
del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le
opzioni previste dagli art. 875 e 877, comma 2, c.c.), ovvero di
arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera
distanza imposta dallo strumento urbanistico (Cass. Civ., sez. II, 9
aprile 2010, n. 8465).
Le doglianze di parte ricorrente risultano perciò destituite di fondamento anche sotto il profilo delle distanze da rispettare.
5 In conclusione, l’appello deve essere respinto.
Le
spese processuali del presente grado, che possono essere compensate
nella misura del 50 % in ragione della limitata chiarezza della
normativa comunale, per il residuo sono liquidate secondo soccombenza
dal seguente dispositivo.
P.Q.M.
Il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta),
definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe, lo respinge,
confermando per l’effetto la sentenza impugnata.
Le
spese processuali del presente grado di giudizio sono compensate tra le
parti nella misura del 50 % , e per il residuo poste a carico della
società ricorrente e liquidate, a favore dei resistenti, nella misura
complessiva di euro duemilacinquecento, oltre gli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 20 marzo 2012 con l'intervento dei magistrati:
Luciano Barra Caracciolo, Presidente
Manfredo Atzeni, Consigliere
Antonio Amicuzzi, Consigliere
Nicola Gaviano, Consigliere, Estensore
Fabio Franconiero, Consigliere
L'ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 27/04/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)