È legittimo il sequestro preventivo del manufatto abusivo eseguito dagli agenti di polizia municipale addetti al controllo del settore edilizio, essendo gli stessi, ai sensi dell'art. 5 L. n. 65 del 1986, ufficiali di polizia giudiziaria, indipendentemente dalla documentazione di tale qualifica comunque loro derivante dallo svolgimento effettivo della funzione di controllo.
Qui il commento critico a detta Sentenza da parte del Dott. Maurizio Santolocito del 15 novenmbre 2011 e la nota (condivisa) redatta dal Presidente dell'ANVU Dott. Luciano Mattarelli.
Cass. Sez. III n. 25606 del 6 luglio 2010 (Ud. 24 mar. 2010)
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. DE MAIO Guido - Presidente - del 24/03/2010
Dott. LOMBARDI Alfredo Maria - Consigliere - SENTENZA
Dott. GENTILE Domenico - Consigliere - N. 618
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. MULLIRI Guicla - rel. Consigliere - N. 38154/2009
ha pronunciato la seguente:
Dott. DE MAIO Guido - Presidente - del 24/03/2010
Dott. LOMBARDI Alfredo Maria - Consigliere - SENTENZA
Dott. GENTILE Domenico - Consigliere - N. 618
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. MULLIRI Guicla - rel. Consigliere - N. 38154/2009
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Capolino Rosalba, nata a Gela il 5.1.75;
Cosca Crocifisso, nato a Gela il 28.5.73;
imputati:
a) D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a);
b) D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64, 65 e 72;
c) D.P.R. n. 380 del 2001, art. 95;
d) art. 349 c.p.;
avverso la sentenza della Corte d'Appello di 19.2.09;
Sentita in pubblica udienza la relazione del Cons. Dr. MULLIRI Guicla;
Sentito il P.M., nella persona del P.G. Dr. Passacantando Guglielmo, che ha chiesto il rigetto di entrambi i ricorsi;
Sentito il difensore dell'imputato, avv. Ferrara Fabrizio, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso.
OSSERVA
1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso - Gli odierni ricorrenti sono stati condannati in primo grado alla pena di 3 anni e 3 mesi di reclusione e Euro 5.600 di multa, ciascuno, perché ritenuti responsabili della violazione di più norme edilizie e della infrazione di sigilli in relazione alla edificazione - senza il relativo permesso - di un fabbricato a piano terra di circa 150 mq, mediante la posa di fondazioni e pilastri in c.a., senza la direzione di un tecnico abilitato e senza il rispetto della normativa antisismica.
Con la decisione qui impugnata, la Corte d'Appello ha confermato il giudizio di responsabilità ma ha ridotto la pena ad anni 2 e mesi 6 di reclusione e Euro 1000 di multa, ciascuno, previo riconoscimento delle attenuanti generiche dichiarate equivalenti all'aggravante di cui all'art. 349 c.p..
Avverso tale decisione, gli imputati hanno proposto ricorso deducendo:
1) violazione di legge perché anche per il sequestro probatorio è previsto che vi provveda il P.M ovvero ufficiali di P.G. da lui delegati. Non è quanto avvenuto nella specie visto che, in entrambi i sequestri eseguiti (il 4 ed il 5 agosto 2006) la persona che ha operato "non rivestiva lo status di ufficiale";
2) violazione di legge e vizio di motivazione da rinvenire nell'assenza di una risposta adeguata da parte della Corte d'Appello alle critiche mosse nell'impugnazione circa l'esistenza di validi motivi per affermare la responsabilità degli imputati. Nel sostenere il proprio convincimento, la Corte si sarebbe, infatti, limitata ad evidenziare - quanto a Cosca - la condizione di coniugio che lo lega alla Capolino. È, inoltre, irragionevole il fatto che la Corte lamenti la mancata proposizione da parte dell'imputato Cosca di una tesi alternativa a quella dell'accusa quando, invece, nei motivi di appello, era stato evidenziato che egli era stato trovato sul posto in una sola occasione quando, comunque, non era intento a svolgere alcuna attività e gli stessi sigilli non erano visibili. Mentre, per quel che attiene all'imputata Capolino, sono state ignorate tutte le obiezioni mosse nei motivi di appello circa il fatto che la sua condizione di proprietaria non autorizza l'attribuzione dei reati contestati;
3) violazione di legge e vizio di motivazione in punto di pena visto che i ricorrenti avevano invocato le attenuanti generiche per pervenire ad una riduzione della pena che consentisse loro di beneficiare sulla sospensione condizionale laddove, invece, la Corte, pur accedendo alla richiesta difensiva ha, poi, calcolato la pena in pejus muovendo da un ammontare - base - per il reato non circostanziato - solo di poco inferiore al massimo edittale e, comunque, superiore alla pena base da cui era partito il giudice di primo grado (per l'art. 349 c.p., comma 2) uguale al minimo edittale. La motivazione sul punto sarebbe altresì contraddittoria nel momento in cui, da un lato, formula una prognosi favorevole di pericolosità sociale e riconosce le attenuanti generiche e, quindi, nel determinare la pena si attesta verso i massimi edittali sebbene la pericolosità sia un presupposto per il diniego o il riconoscimento della sospensione condizionale. Si fa, tra l'altro, notare che la scelta della Corte è censurabile anche sotto altro profilo con riferimento all'art. 3 cost. perché trascura il comportamento corretto tenuto dall'imputato nel periodo di sottoposizione alla misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla P.G.. Concludono i ricorrenti richiamando l'attenzione di questa S.C. sul fatto che l'operato dei giudici d'appello si pone in contrasto con principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di violazione del principio di legalità (sez. 6. 2.7.94, Caputo, n. 7505). I ricorrenti concludono invocando l'annullamento della sentenza impugnata.
Con memoria successiva e tempestiva, i ricorrenti hanno introdotto nuovi motivi con i quali si lamenta mancanza e contraddittorietà di una motivazione nella quale da un lato si riconoscono le attenuanti generiche e, dall'altro, si applica una sanzione quasi pari al massimo edittale. Delle due l'una: o il reato è di particolare gravità ed allora, a fronte dell'irrogazione del massimo edittale, è del tutto irrilevante l'assenza di pregiudizi penali con conseguente esclusione di tutti i benefici, incluse le attenuanti generiche, oppure la valutazione di circostanze diverse e favorevoli non può associarsi ad una pena che si attesta nel massimo. Oltretutto, si fa notare come la motivazione della Corte circa i criteri seguiti sia del tutto mancante limitandosi a generici richiami all'art. 133 c.p..
Con il secondo motivo si ribadisce che la Corte ha violato il principio del favor rei applicando, di fatto, una sanzione più grave.
Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge perché, in difetto di una specificazione circa l'aumento apportato alla pena base per la continuazione, è stato superato il cumulo materiale delle pene.
MOTIVI DELLA DECISIONE
2. - Tutti i motivi di ricorso sono infondati.
2.1. (quanto al primo motivo). Si constata, in primo luogo, la genericità dell'argomento che si risolve nella mera affermazione secondo cui "colui che ha provveduto al primo sequestro dell'immobile, datato 4.08.2006, a seguito dell'accertamento a ciò preposto... non rivestiva lo status di ufficiale".
In realtà, risulta dal provvedimento impugnato che i fatti si sono svolti nel senso che, come poi dallo stesso riferito in udienza in qualità di teste, Sanfilippo Stefano "agente in servizio presso il Corpo di Polizia Municipale del Comune di Gela - ... ha effettuato un sopralluogo in data 04.08.2006 in via Bramante di fronte al numero civico 33 e di avere notato la presenza di alcuni operai - successivamente identificati in Capolino Nunzio, Capolino Marco e Rodoti Serafino - che stavano eseguendo lavori edili". Si apprende, poi, dalla successiva narrativa, di quale fosse il tipo di lavori in corso e che Sanfilippo, avendo accertato l'"assenza del prescritto permesso di costruire", aveva "pertanto, proceduto a sequestrare il predetto fabbricato". La qual cosa - come ricordato nella decisione impugnata - non deve suscitare sorpresa essendo stato asserito, anche di recente, che è legittimo il sequestro preventivo, ex art. 321 del manufatto abusivo eseguito dai vigili urbani addetti al controllo del settore", posto che questi ultimi, ai sensi della L. 7 marzo 1986, n. 6, art. 5, "sono da considerarsi ufficiali di polizia giudiziaria, indipendentemente dalla documentazione di tale qualifica, che, comunque, deriva loro dallo svolgimento effettivo della funzione di controllo".
(sez. 3, 21.10.03, Magnotta, Rv. 226579; sez. 3, 7.5.97, Frascino, Rv. 2020290).
Nella specie, sono gli stessi ricorrenti ad affermare che il Sanfilippo ha operato "a seguito dell'accertamento a ciò preposto".
Ad ogni buon conto - visto il tenore letterale della disposizione (art. 253 c.p.p., comma 3) - anche ammesso che, nel caso in esame, si sia verificata una sua violazione per difetto della qualifica di ufficiale da parte degli operanti (si da invalidare il sequestro), è anche evidente che la censura, a questo punto, è priva di effettiva rilevanza. È, infatti, principio costante (sez. 6, 9.1.04, Scolio, Rv. 22780) quello secondo cui l'accertata illegittimità dell'atto ablatorio del bene (qualora vengano acquisite cose costituenti corpo di reato, o a questo pertinenti) non produce alcun rilievo preclusivo ai fini della sua utilizzabilità come elemento probatorio, "dovendosi considerare che il potere di sequestro, in quanto riferito a cose obbiettivamente sequestrabili, non dipende dalle modalità con le quali queste sono state reperite, ma è condizionato unicamente all'acquisibilità del bene e alla insussistenza di divieti probatori espliciti o univocamente enucleabili dal Sistema" (v. anche Sez. 6, 22.5.95, Mazzanti, Rv. 202589; Sez. 2, 5.12.94, Rv. 201267). Ed infatti, nella vicenda in esame, l'operato della p.g. di cui si discute la legittimità, riguardava proprio cose obbiettivamente sequestrabili come - del resto - acclarato anche aliunde dal prosieguo del processo in cui si sono susseguite due conformi pronunzie di responsabilità (divergenti solo in punto di pena) fondate su una pluralità di elementi ulteriori che sono stati bene illustrati in sentenza e che hanno legittimato affermazioni di sussistenza del reato e di responsabilità nemmeno fatti oggetto di impugnazione (essendo, quest'ultima, circoscritta a questioni procedurali e di rifinitura della pena).
2.2. (quanto al secondo motivo). Si osserva, in primo luogo che, il tipo di vizio denunciato deve essere individuato con riferimento ai contenuti del motivo, non certo con riguardo alla denominazione formale data allo stesso dal ricorrente.
Nello specifico, si assume essersi in presenza, sia, di violazione di legge, che, di vizio di motivazione da rinvenire nell'assenza di una risposta dettagliata e "punto per punto" a tutti gli argomenti difensivi svolti con l'atto d'appello.
L'assunto è erroneo per più motivi.
In primo luogo, perché "Il giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti ed a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso, devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata". In secondo luogo, deve ricordarsi che l'eventuale vizio della motivazione non da luogo a violazione di logge (art. 606 c.p.p., lett. b), tranne che nei casi di mancanza assoluta di motivazione o di motivazione meramente apparente. Invece, l'illogicità manifesta può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui all'art. 606 c.p.p., lett. e) (s.u, 28.1.04, Bevilacqua, Rv. 226710).
Evidente, quindi, che, nella specie, dovendo scartarsi anche per ragioni semplicemente obiettive e grafiche, che si versi in una ipotesi di motivazione assente o solo apparente, è chiaro che qui si confutano solo le risposte ed i contenuti della motivazione impugnata.
Essa, però, valutata nell'ottica di verificare che il giudice abbia indicato con puntualità, chiarezza e completezza tutti gli elementi di fatto e di diritto sui quali fonda la propria decisione e se, quindi, la motivazione presenti vizi logici.
A tale stregua, la decisione qui in esame risulta ineccepibile. Essa, infatti, fonda il proprio giudizio di responsabilità nei confronti di entrambi gli imputati non solo sul rapporto di coniugio, bensì - come percepibile anche in modo palmare fra i ff. 2 e 3 della sentenza impugnata - su molteplici ragioni elencate dalla lettera a) alla lettera f) "costituiti nella specie: a) dalla circostanza che la Capolino è proprietaria dell'area oggetto di edificazione (v. esame del teste Sanfilippo Stefano e l'atto di compravendita del 22/11/2005 in atti); b) dalla circostanza che, in tale veste, costei si pone quale destinataria finale della costruzione secondo le norme civilistiche dell'accessione; c) dalla presenza in loco della Capolino al momento del primo sopralluogo del 4/09/2006, a seguito del quale il fabbricato abusivo fu sottoposto a sequestro probatorio e la Capolino fu nominata custode (v. deposizione dell'agente Sanfilippo ed il verbale di sequestro del 4.8.06 e la fotografie ad esso allegate); d) dalla circostanza che Cosca Crocifisso, il 5/08/2006 fu trovato nel cantiere mentre era intento ad eseguire lavori edili (v. esame del teste Gandolfo Luigi e verbale dei sequestro del 5/08/2006); e) dal fatto che il Cosca è coniuga della Capolino, per cui tra di loro esiste sicuramente una stretta comunanza di interessi che rendono il coniuge ovviamente partecipe di tutte le decisioni di rilevanza familiare; f) dalla circostanza che i suddetti coniugi risultano convivere nello stesso territorio comunale dove è sita la costruzione abusiva con conseguenti concrete possibilità di controllo dell'attività edificatoria svolta". Ad onor del vero esiste anche un ulteriore punto g) indicato dalla Corte, relativo alla "mancata indicazione, da parte degli odierni appellanti di una tesi alternativa a quella formulata dall'organo della pubblica accusa".
È di lampante evidenza, però, che esso è solo uno dei molteplici altri argomenti su cui si fonda il giudizio di condanna; in ciò, smentendo la specifica doglianza difensiva intesa a dimostrare che la Corte si sarebbe basata solo su tale aspetto.
Peraltro, quanto a Cosca, in particolare, non si può nemmeno evitare di richiamare l'attenzione sul fatto che, a confutazione della doglianza del ricorrente, a suo carico non vi è solo il fatto di esser stato trovato sul luogo ma anche - come detto sopra - di essere stato "trovato nel cantiere mentre era intento ad eseguire lavori edili".
Come è, dunque, agevole constatare, la motivazione in esame, non solo, non presenta carenze, ma, al contrario, nella sua completezza è pienamente logicamente argomentata sulla base delle emergenze processuali.
Altrettanto dicasi per la giustificazione che la Corte da dell'aggravante, ritenuta sussistente sulla base di un pertinente richiamo alla giurisprudenza di questa S.C. (sez, 3, 30.5.03, waghih, Rv. 225878) secondo cui "la circostanza aggravante della qualità di custode, di cui all'art. 349 c.p., comma 2, si comunica ai concorrenti, con l'unico presupposto che i correi siano a conoscenza o ignorino colpevolmente tale qualità, atteso che non rientra tra quelle circostanze soggettive che a norma dell'art. 118 c.p.p., vanno valutate soltanto con riguardo alla persona cui si riferiscono". 2.3. (quanto al terzo motivo). Non si ravvisa alcuna reformatio in pejus nel calcolo della pena operato dai giudici di appello a seguito del riconoscimento delle attenuanti generiche. È opinione di questa S.C., risalente nel tempo (sez. 5, 14.3.90, Mariani, Rv. 184228; Sez. 4, 24.4.90, Stankovic, Rv. 184879; Sez. 3, 13.12.91, Rv. 190740) che il divieto della riforma peggiorativa per il giudizio in grado di appello afferisce soltanto al risultato finale dell'operazione di computo della pena, "non anche ai criteri di determinazione della medesima e ai relativi calcoli (di pena base o intermedi)". Il principio è stato ribadito anche di recente con la precisazione che il fatto che il giudice nella sentenza impugnata, abbia determinato taluni aumenti in modo diverso e meno favorevole per l'imputato, rispetto ai calcoli effettuati dal giudice di primo grado, non da luogo ad alcuna violazione del principio di cui si discute "in quanto il detto divieto concerne la parte dispositiva della sentenza e non si estende alla motivazione nella cui formulazione il giudice non può subire condizionamenti (Sez. 5, 25.2.05, De Finis, Rv. 231695).
Deve, poi rammentarsi che il computo della pena è esplicazione di un potere discrezionale del quale il giudicante deve dare conto al fine di consentire a questa S.C., di esercitare la funzione di controllo che le è propria. Una volta che, però, si rinvenga una motivazione aderente ai dati processuali e che giunga a conclusioni che non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico, esse non sono censurabili in Cassazione.
Del resto, nella specie, non vi è dubbio che la Corte abbia agito a ragion veduta tenendo conto dei criteri di cui all'art. 133 c.p. (espressamente richiamati) e, soprattutto del fatto che si fosse in presenza della commissione di due fatti di violazione dei sigilli. Nè si può ravvisare alcuna scorrettezza in tale sottolineatura perché, al contrario, erra il ricorrente quando sostiene che il richiamo alla doppia violazione rileverebbe solo ai fini della continuazione. L'assunto viene agevolmente smentito rammentando che, nell'esercizio del suo potere discrezionale, l'apprezzamento della gravità del fatto deve avvenire (art. 133 c.p., comma 1, n. 1) proprio tenendo conto delle sue complessive caratteristiche. A proposito della valutazione della personalità e della pericolosità sociale, del tutto inconferente è, poi, il richiamo del ricorrente Cosca alla condotta dallo stesso tenuta in occasione della sottoposizione alla misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla P.G. posto che la sua osservanza (o, ancor più, il fatto di non avere, in tale contesto, commesso altre violazioni di sigilli) rappresentava il risultato minimo cui tendeva la misura stessa sì che quella condotta non è espressiva di alcunché di peculiarmente meritorio.
2.4. (quanto ai motivi aggiunti ed alla memoria). Il giudizio di infondatezza fin qui espresso non muta nemmeno al cospetto della memoria e dei motivi aggiunti anche perché essi finiscono per essere sostanzialmente replicativi dei motivi principali e ribadire argomenti già svolti che sono stati fin qui già ampiamente commentati.
Nel respingere i ricorsi, segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Visti l'art. 637 c.p.p. e ss.;
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Pubblica udienza, il 24 marzo 2010. Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2010
sul ricorso proposto da:
Capolino Rosalba, nata a Gela il 5.1.75;
Cosca Crocifisso, nato a Gela il 28.5.73;
imputati:
a) D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a);
b) D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64, 65 e 72;
c) D.P.R. n. 380 del 2001, art. 95;
d) art. 349 c.p.;
avverso la sentenza della Corte d'Appello di 19.2.09;
Sentita in pubblica udienza la relazione del Cons. Dr. MULLIRI Guicla;
Sentito il P.M., nella persona del P.G. Dr. Passacantando Guglielmo, che ha chiesto il rigetto di entrambi i ricorsi;
Sentito il difensore dell'imputato, avv. Ferrara Fabrizio, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso.
OSSERVA
1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso - Gli odierni ricorrenti sono stati condannati in primo grado alla pena di 3 anni e 3 mesi di reclusione e Euro 5.600 di multa, ciascuno, perché ritenuti responsabili della violazione di più norme edilizie e della infrazione di sigilli in relazione alla edificazione - senza il relativo permesso - di un fabbricato a piano terra di circa 150 mq, mediante la posa di fondazioni e pilastri in c.a., senza la direzione di un tecnico abilitato e senza il rispetto della normativa antisismica.
Con la decisione qui impugnata, la Corte d'Appello ha confermato il giudizio di responsabilità ma ha ridotto la pena ad anni 2 e mesi 6 di reclusione e Euro 1000 di multa, ciascuno, previo riconoscimento delle attenuanti generiche dichiarate equivalenti all'aggravante di cui all'art. 349 c.p..
Avverso tale decisione, gli imputati hanno proposto ricorso deducendo:
1) violazione di legge perché anche per il sequestro probatorio è previsto che vi provveda il P.M ovvero ufficiali di P.G. da lui delegati. Non è quanto avvenuto nella specie visto che, in entrambi i sequestri eseguiti (il 4 ed il 5 agosto 2006) la persona che ha operato "non rivestiva lo status di ufficiale";
2) violazione di legge e vizio di motivazione da rinvenire nell'assenza di una risposta adeguata da parte della Corte d'Appello alle critiche mosse nell'impugnazione circa l'esistenza di validi motivi per affermare la responsabilità degli imputati. Nel sostenere il proprio convincimento, la Corte si sarebbe, infatti, limitata ad evidenziare - quanto a Cosca - la condizione di coniugio che lo lega alla Capolino. È, inoltre, irragionevole il fatto che la Corte lamenti la mancata proposizione da parte dell'imputato Cosca di una tesi alternativa a quella dell'accusa quando, invece, nei motivi di appello, era stato evidenziato che egli era stato trovato sul posto in una sola occasione quando, comunque, non era intento a svolgere alcuna attività e gli stessi sigilli non erano visibili. Mentre, per quel che attiene all'imputata Capolino, sono state ignorate tutte le obiezioni mosse nei motivi di appello circa il fatto che la sua condizione di proprietaria non autorizza l'attribuzione dei reati contestati;
3) violazione di legge e vizio di motivazione in punto di pena visto che i ricorrenti avevano invocato le attenuanti generiche per pervenire ad una riduzione della pena che consentisse loro di beneficiare sulla sospensione condizionale laddove, invece, la Corte, pur accedendo alla richiesta difensiva ha, poi, calcolato la pena in pejus muovendo da un ammontare - base - per il reato non circostanziato - solo di poco inferiore al massimo edittale e, comunque, superiore alla pena base da cui era partito il giudice di primo grado (per l'art. 349 c.p., comma 2) uguale al minimo edittale. La motivazione sul punto sarebbe altresì contraddittoria nel momento in cui, da un lato, formula una prognosi favorevole di pericolosità sociale e riconosce le attenuanti generiche e, quindi, nel determinare la pena si attesta verso i massimi edittali sebbene la pericolosità sia un presupposto per il diniego o il riconoscimento della sospensione condizionale. Si fa, tra l'altro, notare che la scelta della Corte è censurabile anche sotto altro profilo con riferimento all'art. 3 cost. perché trascura il comportamento corretto tenuto dall'imputato nel periodo di sottoposizione alla misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla P.G.. Concludono i ricorrenti richiamando l'attenzione di questa S.C. sul fatto che l'operato dei giudici d'appello si pone in contrasto con principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di violazione del principio di legalità (sez. 6. 2.7.94, Caputo, n. 7505). I ricorrenti concludono invocando l'annullamento della sentenza impugnata.
Con memoria successiva e tempestiva, i ricorrenti hanno introdotto nuovi motivi con i quali si lamenta mancanza e contraddittorietà di una motivazione nella quale da un lato si riconoscono le attenuanti generiche e, dall'altro, si applica una sanzione quasi pari al massimo edittale. Delle due l'una: o il reato è di particolare gravità ed allora, a fronte dell'irrogazione del massimo edittale, è del tutto irrilevante l'assenza di pregiudizi penali con conseguente esclusione di tutti i benefici, incluse le attenuanti generiche, oppure la valutazione di circostanze diverse e favorevoli non può associarsi ad una pena che si attesta nel massimo. Oltretutto, si fa notare come la motivazione della Corte circa i criteri seguiti sia del tutto mancante limitandosi a generici richiami all'art. 133 c.p..
Con il secondo motivo si ribadisce che la Corte ha violato il principio del favor rei applicando, di fatto, una sanzione più grave.
Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge perché, in difetto di una specificazione circa l'aumento apportato alla pena base per la continuazione, è stato superato il cumulo materiale delle pene.
MOTIVI DELLA DECISIONE
2. - Tutti i motivi di ricorso sono infondati.
2.1. (quanto al primo motivo). Si constata, in primo luogo, la genericità dell'argomento che si risolve nella mera affermazione secondo cui "colui che ha provveduto al primo sequestro dell'immobile, datato 4.08.2006, a seguito dell'accertamento a ciò preposto... non rivestiva lo status di ufficiale".
In realtà, risulta dal provvedimento impugnato che i fatti si sono svolti nel senso che, come poi dallo stesso riferito in udienza in qualità di teste, Sanfilippo Stefano "agente in servizio presso il Corpo di Polizia Municipale del Comune di Gela - ... ha effettuato un sopralluogo in data 04.08.2006 in via Bramante di fronte al numero civico 33 e di avere notato la presenza di alcuni operai - successivamente identificati in Capolino Nunzio, Capolino Marco e Rodoti Serafino - che stavano eseguendo lavori edili". Si apprende, poi, dalla successiva narrativa, di quale fosse il tipo di lavori in corso e che Sanfilippo, avendo accertato l'"assenza del prescritto permesso di costruire", aveva "pertanto, proceduto a sequestrare il predetto fabbricato". La qual cosa - come ricordato nella decisione impugnata - non deve suscitare sorpresa essendo stato asserito, anche di recente, che è legittimo il sequestro preventivo, ex art. 321 del manufatto abusivo eseguito dai vigili urbani addetti al controllo del settore", posto che questi ultimi, ai sensi della L. 7 marzo 1986, n. 6, art. 5, "sono da considerarsi ufficiali di polizia giudiziaria, indipendentemente dalla documentazione di tale qualifica, che, comunque, deriva loro dallo svolgimento effettivo della funzione di controllo".
(sez. 3, 21.10.03, Magnotta, Rv. 226579; sez. 3, 7.5.97, Frascino, Rv. 2020290).
Nella specie, sono gli stessi ricorrenti ad affermare che il Sanfilippo ha operato "a seguito dell'accertamento a ciò preposto".
Ad ogni buon conto - visto il tenore letterale della disposizione (art. 253 c.p.p., comma 3) - anche ammesso che, nel caso in esame, si sia verificata una sua violazione per difetto della qualifica di ufficiale da parte degli operanti (si da invalidare il sequestro), è anche evidente che la censura, a questo punto, è priva di effettiva rilevanza. È, infatti, principio costante (sez. 6, 9.1.04, Scolio, Rv. 22780) quello secondo cui l'accertata illegittimità dell'atto ablatorio del bene (qualora vengano acquisite cose costituenti corpo di reato, o a questo pertinenti) non produce alcun rilievo preclusivo ai fini della sua utilizzabilità come elemento probatorio, "dovendosi considerare che il potere di sequestro, in quanto riferito a cose obbiettivamente sequestrabili, non dipende dalle modalità con le quali queste sono state reperite, ma è condizionato unicamente all'acquisibilità del bene e alla insussistenza di divieti probatori espliciti o univocamente enucleabili dal Sistema" (v. anche Sez. 6, 22.5.95, Mazzanti, Rv. 202589; Sez. 2, 5.12.94, Rv. 201267). Ed infatti, nella vicenda in esame, l'operato della p.g. di cui si discute la legittimità, riguardava proprio cose obbiettivamente sequestrabili come - del resto - acclarato anche aliunde dal prosieguo del processo in cui si sono susseguite due conformi pronunzie di responsabilità (divergenti solo in punto di pena) fondate su una pluralità di elementi ulteriori che sono stati bene illustrati in sentenza e che hanno legittimato affermazioni di sussistenza del reato e di responsabilità nemmeno fatti oggetto di impugnazione (essendo, quest'ultima, circoscritta a questioni procedurali e di rifinitura della pena).
2.2. (quanto al secondo motivo). Si osserva, in primo luogo che, il tipo di vizio denunciato deve essere individuato con riferimento ai contenuti del motivo, non certo con riguardo alla denominazione formale data allo stesso dal ricorrente.
Nello specifico, si assume essersi in presenza, sia, di violazione di legge, che, di vizio di motivazione da rinvenire nell'assenza di una risposta dettagliata e "punto per punto" a tutti gli argomenti difensivi svolti con l'atto d'appello.
L'assunto è erroneo per più motivi.
In primo luogo, perché "Il giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti ed a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso, devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata". In secondo luogo, deve ricordarsi che l'eventuale vizio della motivazione non da luogo a violazione di logge (art. 606 c.p.p., lett. b), tranne che nei casi di mancanza assoluta di motivazione o di motivazione meramente apparente. Invece, l'illogicità manifesta può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui all'art. 606 c.p.p., lett. e) (s.u, 28.1.04, Bevilacqua, Rv. 226710).
Evidente, quindi, che, nella specie, dovendo scartarsi anche per ragioni semplicemente obiettive e grafiche, che si versi in una ipotesi di motivazione assente o solo apparente, è chiaro che qui si confutano solo le risposte ed i contenuti della motivazione impugnata.
Essa, però, valutata nell'ottica di verificare che il giudice abbia indicato con puntualità, chiarezza e completezza tutti gli elementi di fatto e di diritto sui quali fonda la propria decisione e se, quindi, la motivazione presenti vizi logici.
A tale stregua, la decisione qui in esame risulta ineccepibile. Essa, infatti, fonda il proprio giudizio di responsabilità nei confronti di entrambi gli imputati non solo sul rapporto di coniugio, bensì - come percepibile anche in modo palmare fra i ff. 2 e 3 della sentenza impugnata - su molteplici ragioni elencate dalla lettera a) alla lettera f) "costituiti nella specie: a) dalla circostanza che la Capolino è proprietaria dell'area oggetto di edificazione (v. esame del teste Sanfilippo Stefano e l'atto di compravendita del 22/11/2005 in atti); b) dalla circostanza che, in tale veste, costei si pone quale destinataria finale della costruzione secondo le norme civilistiche dell'accessione; c) dalla presenza in loco della Capolino al momento del primo sopralluogo del 4/09/2006, a seguito del quale il fabbricato abusivo fu sottoposto a sequestro probatorio e la Capolino fu nominata custode (v. deposizione dell'agente Sanfilippo ed il verbale di sequestro del 4.8.06 e la fotografie ad esso allegate); d) dalla circostanza che Cosca Crocifisso, il 5/08/2006 fu trovato nel cantiere mentre era intento ad eseguire lavori edili (v. esame del teste Gandolfo Luigi e verbale dei sequestro del 5/08/2006); e) dal fatto che il Cosca è coniuga della Capolino, per cui tra di loro esiste sicuramente una stretta comunanza di interessi che rendono il coniuge ovviamente partecipe di tutte le decisioni di rilevanza familiare; f) dalla circostanza che i suddetti coniugi risultano convivere nello stesso territorio comunale dove è sita la costruzione abusiva con conseguenti concrete possibilità di controllo dell'attività edificatoria svolta". Ad onor del vero esiste anche un ulteriore punto g) indicato dalla Corte, relativo alla "mancata indicazione, da parte degli odierni appellanti di una tesi alternativa a quella formulata dall'organo della pubblica accusa".
È di lampante evidenza, però, che esso è solo uno dei molteplici altri argomenti su cui si fonda il giudizio di condanna; in ciò, smentendo la specifica doglianza difensiva intesa a dimostrare che la Corte si sarebbe basata solo su tale aspetto.
Peraltro, quanto a Cosca, in particolare, non si può nemmeno evitare di richiamare l'attenzione sul fatto che, a confutazione della doglianza del ricorrente, a suo carico non vi è solo il fatto di esser stato trovato sul luogo ma anche - come detto sopra - di essere stato "trovato nel cantiere mentre era intento ad eseguire lavori edili".
Come è, dunque, agevole constatare, la motivazione in esame, non solo, non presenta carenze, ma, al contrario, nella sua completezza è pienamente logicamente argomentata sulla base delle emergenze processuali.
Altrettanto dicasi per la giustificazione che la Corte da dell'aggravante, ritenuta sussistente sulla base di un pertinente richiamo alla giurisprudenza di questa S.C. (sez, 3, 30.5.03, waghih, Rv. 225878) secondo cui "la circostanza aggravante della qualità di custode, di cui all'art. 349 c.p., comma 2, si comunica ai concorrenti, con l'unico presupposto che i correi siano a conoscenza o ignorino colpevolmente tale qualità, atteso che non rientra tra quelle circostanze soggettive che a norma dell'art. 118 c.p.p., vanno valutate soltanto con riguardo alla persona cui si riferiscono". 2.3. (quanto al terzo motivo). Non si ravvisa alcuna reformatio in pejus nel calcolo della pena operato dai giudici di appello a seguito del riconoscimento delle attenuanti generiche. È opinione di questa S.C., risalente nel tempo (sez. 5, 14.3.90, Mariani, Rv. 184228; Sez. 4, 24.4.90, Stankovic, Rv. 184879; Sez. 3, 13.12.91, Rv. 190740) che il divieto della riforma peggiorativa per il giudizio in grado di appello afferisce soltanto al risultato finale dell'operazione di computo della pena, "non anche ai criteri di determinazione della medesima e ai relativi calcoli (di pena base o intermedi)". Il principio è stato ribadito anche di recente con la precisazione che il fatto che il giudice nella sentenza impugnata, abbia determinato taluni aumenti in modo diverso e meno favorevole per l'imputato, rispetto ai calcoli effettuati dal giudice di primo grado, non da luogo ad alcuna violazione del principio di cui si discute "in quanto il detto divieto concerne la parte dispositiva della sentenza e non si estende alla motivazione nella cui formulazione il giudice non può subire condizionamenti (Sez. 5, 25.2.05, De Finis, Rv. 231695).
Deve, poi rammentarsi che il computo della pena è esplicazione di un potere discrezionale del quale il giudicante deve dare conto al fine di consentire a questa S.C., di esercitare la funzione di controllo che le è propria. Una volta che, però, si rinvenga una motivazione aderente ai dati processuali e che giunga a conclusioni che non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico, esse non sono censurabili in Cassazione.
Del resto, nella specie, non vi è dubbio che la Corte abbia agito a ragion veduta tenendo conto dei criteri di cui all'art. 133 c.p. (espressamente richiamati) e, soprattutto del fatto che si fosse in presenza della commissione di due fatti di violazione dei sigilli. Nè si può ravvisare alcuna scorrettezza in tale sottolineatura perché, al contrario, erra il ricorrente quando sostiene che il richiamo alla doppia violazione rileverebbe solo ai fini della continuazione. L'assunto viene agevolmente smentito rammentando che, nell'esercizio del suo potere discrezionale, l'apprezzamento della gravità del fatto deve avvenire (art. 133 c.p., comma 1, n. 1) proprio tenendo conto delle sue complessive caratteristiche. A proposito della valutazione della personalità e della pericolosità sociale, del tutto inconferente è, poi, il richiamo del ricorrente Cosca alla condotta dallo stesso tenuta in occasione della sottoposizione alla misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla P.G. posto che la sua osservanza (o, ancor più, il fatto di non avere, in tale contesto, commesso altre violazioni di sigilli) rappresentava il risultato minimo cui tendeva la misura stessa sì che quella condotta non è espressiva di alcunché di peculiarmente meritorio.
2.4. (quanto ai motivi aggiunti ed alla memoria). Il giudizio di infondatezza fin qui espresso non muta nemmeno al cospetto della memoria e dei motivi aggiunti anche perché essi finiscono per essere sostanzialmente replicativi dei motivi principali e ribadire argomenti già svolti che sono stati fin qui già ampiamente commentati.
Nel respingere i ricorsi, segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Visti l'art. 637 c.p.p. e ss.;
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Pubblica udienza, il 24 marzo 2010. Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2010