riforma P.A. - L. Oliveri commenta la mobilità obbligatoria
riformicchia buona solo per gli slogan
Pubblicato il 15 giugno 2014 di rilievoaiaceblogliveri
La grande riforma della pubblica
amministrazione, quella che per voce unanime dei giornali scardinerebbe
(“finalmente”, esultano) il “posto fisso” dell’ignobile “travet”,
sarebbe nella possibilità di porre in mobilità i dipendenti pubblici.
Tutti, dunque, ad esaltare in coro con
esametri trocaici la nuova mobilità obbligatoria, con la quale – niente
meno – i dipendenti potranno essere trasferiti, pensate, da un ufficio
all’altro di una stessa amministrazione, collocato nello stesso comune!
L’arzigogolo per rendere i dipendenti
pubblici meno “stabili” e più “mobili” consiste in una sorta di
interpretazione autentica o, comunque, in una forzatura dell’articolo
2103 del codice civile, riservata solo la lavoro pubblico.
Detta disposizione stabilisce che il lavoratore dipendente “non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
Allora, un primo chiarimento va fatto. Poiché il rapporto di lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche è regolato dal codice
civile e dalle leggi sul lavoro nell’impresa, nonché, dalle disposizioni
speciali contenute nel d.lgs 165/2001, non essendovi in tale ultima
norma alcuna previsione particolare sui trasferimenti, l’articolo 2013
del codice civile si è sempre applicato al lavoro pubblico. Per meglio
dire, il datore di lavoro pubblico ha da sempre avuto il potere di
trasferire i dipendenti da un’unità produttiva all’altra, nel rispetto
ovviamente dei vincoli normativi. Di questo potere datoriale tutte le
amministrazioni con unità produttive diffuse nel territorio, province,
regioni e Stato, ad esempio, si sono sempre regolarmente avvalsi.
Il decreto legge approvato il 13 giugno
dal Governo vuole potenziare la mobilità “obbligatoria”, quella, cioè,
attivata su iniziativa unilaterale del datore di lavoro, stabilendo che
le sedi delle amministrazioni pubbliche collocate nel territorio del
medesimo comune costituiscono medesima unità produttiva, proprio ai
sensi dell’articolo 2103 del codice civile.
Allo stesso modo, costituiscono medesima
unità produttiva le sedi collocate a una distanza non superiore a 50
chilometri dalla sede in cui il dipendente è adibito alla prima
assegnazione e non superiore a 50 chilometri da ciascuno spostamento di
sede successivo, superiore ai 5 chilometri.
Se la riforma viene letta nel senso che,
grazie ad essa, potrà essere attivata la mobilità obbligatoria interna, è
solo pura apparenza. Come detto, il datore di lavoro pubblico ha sempre
potuto, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva,
spostare i propri dipendenti da una sede all’altra.
Da questo punto di vista, la riforma non
contiene alcun passo in avanti o progresso della funzione datoriale
della dirigenza pubblica. Estendendo, infatti, per fictio iuris l’unità
produttiva agli uffici sedi di un medesimo comune od operanti in un
raggio di 50 chilometri, si finisce per deresponsabilizzare i dirigenti
nella gestione del personale e nella valutazione e dimostrazione delle
esigenze tecniche, organizzative e produttive alla base dei
trasferimenti. Sembra quasi di vedere una norma simmetrica alla recente
riforma del lavoro a tempo determinato: un criterio geografico elimina
la “causalità” del trasferimento che, dunque, una volta entrata in
vigore la riforma potrà essere disposto, senza dover adempiere all’onere
di dimostrare la necessità ed utilità del trasferimento stesso. Un
avvertimento per i lavoratori privati, ai quali la previsione potrebbe
estendersi molto presto.
Ma la portata innovatrice della
previsione non può limitarsi a questa esclusione dell’obbligo di
motivare le ragioni del trasferimento, davvero poca cosa.
Rileggendo con attenzione la norma (per
quanto ancora in bozza) si nota che l’univocità dell’unità produttiva
all’interno di un medesimo comune o di un raggio di 50 chilometri
riguarda “le amministrazioni” al plurale, non una singola
amministrazione.
C’è, allora, da ammettere che la mobilità
obbligatoria non giustificata da ragioni tecniche, produttive ed
organizzative, non riguardi solo i trasferimenti tra sedi/unità
produttive di una medesima amministrazione, ma anche tra amministrazioni
diverse.
Infatti, il decreto chiarisce che “i
dipendenti possono prestare attività lavorativa nella stessa
amministrazione o in altra, previo accordo tra le amministrazioni
interessate”. Dunque, se tra amministrazione A ed amministrazione B si
stipuli un accordo che regoli i trasferimenti d’ufficio, il dipendente
di A può essere trasferito a B, come se questa seconda amministrazione
fosse un’unità produttiva della prima, pur essendo un differente datore
di lavoro.
Insomma, la mobilità nel raggio
geografico di un territorio comunale o di 50 chilometri viene vista come
sistema per la riallocazione del personale anche tra amministrazioni
diverse. Infatti, si prevede che con successivo decreto del Ministro
della Funzione pubblica (previa intesa, ove necessario, con la
Conferenza unificata) si potranno fissare criteri per realizzare
processi di mobilità obbligatoria anche con passaggi diretti tra
amministrazioni diverse, ma senza preventivo accordo tra loro, purchè
ciò sia utile a garantire l’esercizio delle funzioni istituzionali da
parte delle amministrazioni che presentino carenze di organico.
In questi casi, si prevede un
finanziamento (dotato di 15 milioni di euro nel 2014 e 30 milioni di
euro a regime), da assegnare alle amministrazioni interessate dalle
procedure di mobilità obbligatoria. L’avvio del funzionamento del fondo,
volto evidentemente ad assicurare alle amministrazioni di destinazione
la sostenibilità economica dei trasferimenti, privilegerà in particolare
gli uffici giudiziari, considerati direttamente carenti di personale
per legge.
Dunque, come si nota la riforma della
mobilità obbligatoria non comporterà nessuno sconvolgimento della
pubblica amministrazione.
Se limitato alla parte regolatrice dei
trasferimenti di sede nell’ambito della medesima amministrazione, sarà
solo acqua fresca e deresponsabilizzazione.
Più efficace ed utile, invece, la
finalizzazione della riforma alla possibilità di rafforzare le dotazioni
organiche di alcune amministrazioni sottodimensionate.
Tuttavia, la buona idea di utilizzare la
mobilità obbligatoria per una migliore allocazione dei dipendenti si
ferma sostanzialmente all’idea, data la debolezza con la quale viene
attuata. Per assicurare una distribuzione del personale pubblico
realmente più equilibrata ed efficiente, ci si sarebbe aspettati di
vedere la fissazione rapidissima di criteri obbligatori per stabilire
quando un’amministrazione risulta sovradimensionata o sotto dotata e,
simmetricamente, obblighi entro tempi ristretti e certi per le
amministrazioni al di sopra delle dotazioni standard per attivare
trasferimenti d’ufficio verso le amministrazioni con accertate carenze
di personale.
Ovviamente, il limite territoriale di 50
chilometri, per un verso volto ad evitare traumi rilevanti nella vita
delle persone, costituisce un freno insuperabile alla reale efficacia di
questa riforma, trasformandola in poco più di uno slogan. Gli squilibri
nella distribuzione del personale pubblico sono certamente tra
tipologie e tipologie di enti e indiscutibilmente gli uffici giudiziari
sono in enorme difficoltà (se per questo, anche i centri per l’impiego,
oggetto, però di analisi ed iniziative normative diverse e caotiche);
tuttavia, ancora maggiori ed evidenti sono gli squilibri geografici, che
vedono una sovrabbondanza chiarissima di personale pubblico nei
territori del sud. Il raggio di azione di 50 chilometri della mobilità
obbligatoria non sarà ovviamente in grado di porre rimedio a questa
situazione. Sicchè, la mobilità è solo una riformetta, buona per
esaltare solo la stampa generalista che può scatenarsi con titoli ad
effetto e continuare nell’opera di captatio benevolentiae verso l’esecutivo, ma oggettivamente pochissimo utile alla maggiore efficienza dell’amministrazione pubblica