martedì 17 giugno 2014

Mobilità obbligatoria

riforma P.A. - L. Oliveri commenta la mobilità obbligatoria

riformicchia buona solo per gli slogan
#riforma #PA Mobilità obbligatoria: riformicchia buona solo per gli slogan
Pubblicato il 15 giugno 2014 di rilievoaiaceblogliveri
La grande riforma della pubblica amministrazione, quella che per voce unanime dei giornali scardinerebbe (“finalmente”, esultano) il “posto fisso” dell’ignobile “travet”, sarebbe nella possibilità di porre in mobilità i dipendenti pubblici.
Tutti, dunque, ad esaltare in coro con esametri trocaici la nuova mobilità obbligatoria, con la quale – niente meno – i dipendenti potranno essere trasferiti, pensate, da un ufficio all’altro di una stessa amministrazione, collocato nello stesso comune!
L’arzigogolo per rendere i dipendenti pubblici meno “stabili” e più “mobili” consiste in una sorta di interpretazione autentica o, comunque, in una forzatura dell’articolo 2103 del codice civile, riservata solo la lavoro pubblico.
Detta disposizione stabilisce che il lavoratore dipendente “non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. Allora, un primo chiarimento va fatto. Poiché il rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche è regolato dal codice civile e dalle leggi sul lavoro nell’impresa, nonché, dalle disposizioni speciali contenute nel d.lgs 165/2001, non essendovi in tale ultima norma alcuna previsione particolare sui trasferimenti, l’articolo 2013 del codice civile si è sempre applicato al lavoro pubblico. Per meglio dire, il datore di lavoro pubblico ha da sempre avuto il potere di trasferire i dipendenti da un’unità produttiva all’altra, nel rispetto ovviamente dei vincoli normativi. Di questo potere datoriale tutte le amministrazioni con unità produttive diffuse nel territorio, province, regioni e Stato, ad esempio, si sono sempre regolarmente avvalsi.
Il decreto legge approvato il 13 giugno dal Governo vuole potenziare la mobilità “obbligatoria”, quella, cioè, attivata su iniziativa unilaterale del datore di lavoro, stabilendo che le sedi delle amministrazioni pubbliche collocate nel territorio del medesimo comune costituiscono medesima unità produttiva, proprio ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile.
Allo stesso modo, costituiscono medesima unità produttiva le sedi collocate a una distanza non superiore a 50 chilometri dalla sede in cui il dipendente è adibito alla prima assegnazione e non superiore a 50 chilometri da ciascuno spostamento di sede successivo, superiore ai 5 chilometri.
Se la riforma viene letta nel senso che, grazie ad essa, potrà essere attivata la mobilità obbligatoria interna, è solo pura apparenza. Come detto, il datore di lavoro pubblico ha sempre potuto, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva, spostare i propri dipendenti da una sede all’altra.
Da questo punto di vista, la riforma non contiene alcun passo in avanti o progresso della funzione datoriale della dirigenza pubblica. Estendendo, infatti, per fictio iuris l’unità produttiva agli uffici sedi di un medesimo comune od operanti in un raggio di 50 chilometri, si finisce per deresponsabilizzare i dirigenti nella gestione del personale e nella valutazione e dimostrazione delle esigenze tecniche, organizzative e produttive alla base dei trasferimenti. Sembra quasi di vedere una norma simmetrica alla recente riforma del lavoro a tempo determinato: un criterio geografico elimina la “causalità” del trasferimento che, dunque, una volta entrata in vigore la riforma potrà essere disposto, senza dover adempiere all’onere di dimostrare la necessità ed utilità del trasferimento stesso. Un avvertimento per i lavoratori privati, ai quali la previsione potrebbe estendersi molto presto.
Ma la portata innovatrice della previsione non può limitarsi a questa esclusione dell’obbligo di motivare le ragioni del trasferimento, davvero poca cosa.
Rileggendo con attenzione la norma (per quanto ancora in bozza) si nota che l’univocità dell’unità produttiva all’interno di un medesimo comune o di un raggio di 50 chilometri riguarda “le amministrazioni” al plurale, non una singola amministrazione.
C’è, allora, da ammettere che la mobilità obbligatoria non giustificata da ragioni tecniche, produttive ed organizzative, non riguardi solo i trasferimenti tra sedi/unità produttive di una medesima amministrazione, ma anche tra amministrazioni diverse.
Infatti, il decreto chiarisce che “i dipendenti possono prestare attività lavorativa nella stessa amministrazione o in altra, previo accordo tra le amministrazioni interessate”. Dunque, se tra amministrazione A ed amministrazione B si stipuli un accordo che regoli i trasferimenti d’ufficio, il dipendente di A può essere trasferito a B, come se questa seconda amministrazione fosse un’unità produttiva della prima, pur essendo un differente datore di lavoro.
Insomma, la mobilità nel raggio geografico di un territorio comunale o di 50 chilometri viene vista come sistema per la riallocazione del personale anche tra amministrazioni diverse. Infatti, si prevede che con successivo decreto del Ministro della Funzione pubblica (previa intesa, ove necessario, con la Conferenza unificata) si potranno fissare criteri per realizzare processi di mobilità obbligatoria anche con passaggi diretti tra amministrazioni diverse, ma senza preventivo accordo tra loro, purchè ciò sia utile a garantire l’esercizio delle funzioni istituzionali da parte delle amministrazioni che presentino carenze di organico.
In questi casi, si prevede un finanziamento (dotato di 15 milioni di euro nel 2014 e 30 milioni di euro a regime), da assegnare alle amministrazioni interessate dalle procedure di mobilità obbligatoria. L’avvio del funzionamento del fondo, volto evidentemente ad assicurare alle amministrazioni di destinazione la sostenibilità economica dei trasferimenti, privilegerà in particolare gli uffici giudiziari, considerati direttamente carenti di personale per legge.
Dunque, come si nota la riforma della mobilità obbligatoria non comporterà nessuno sconvolgimento della pubblica amministrazione.
Se limitato alla parte regolatrice dei trasferimenti di sede nell’ambito della medesima amministrazione, sarà solo acqua fresca e deresponsabilizzazione.
Più efficace ed utile, invece, la finalizzazione della riforma alla possibilità di rafforzare le dotazioni organiche di alcune amministrazioni sottodimensionate.
Tuttavia, la buona idea di utilizzare la mobilità obbligatoria per una migliore allocazione dei dipendenti si ferma sostanzialmente all’idea, data la debolezza con la quale viene attuata. Per assicurare una distribuzione del personale pubblico realmente più equilibrata ed efficiente, ci si sarebbe aspettati di vedere la fissazione rapidissima di criteri obbligatori per stabilire quando un’amministrazione risulta sovradimensionata o sotto dotata e, simmetricamente, obblighi entro tempi ristretti e certi per le amministrazioni al di sopra delle dotazioni standard per attivare trasferimenti d’ufficio verso le amministrazioni con accertate carenze di personale.
Ovviamente, il limite territoriale di 50 chilometri, per un verso volto ad evitare traumi rilevanti nella vita delle persone, costituisce un freno insuperabile alla reale efficacia di questa riforma, trasformandola in poco più di uno slogan. Gli squilibri nella distribuzione del personale pubblico sono certamente tra tipologie e tipologie di enti e indiscutibilmente gli uffici giudiziari sono in enorme difficoltà (se per questo, anche i centri per l’impiego, oggetto, però di analisi ed iniziative normative diverse e caotiche); tuttavia, ancora maggiori ed evidenti sono gli squilibri geografici, che vedono una sovrabbondanza chiarissima di personale pubblico nei territori del sud. Il raggio di azione di 50 chilometri della mobilità obbligatoria non sarà ovviamente in grado di porre rimedio a questa situazione. Sicchè, la mobilità è solo una riformetta, buona per esaltare solo la stampa generalista che può scatenarsi con titoli ad effetto e continuare nell’opera di captatio benevolentiae verso l’esecutivo, ma oggettivamente pochissimo utile alla maggiore efficienza dell’amministrazione pubblica