ORDINANZA N. 276
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO,
Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI,
Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo
Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro
CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio
LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta
CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario
MORELLI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo
63, comma 1, numero 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267
(Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), promosso
dalla Corte d’appello di Trieste, nel procedimento vertente tra P. P. e
B. E. ed altri, con ordinanza del 1° febbraio 2012, iscritta al n. 128
del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 ottobre 2012 il Giudice relatore Paolo Grossi.
Ritenuto che, nel corso di un giudizio – promosso
da un cittadino elettore nei confronti del Sindaco di Azzano Decimo, per
accertarne l’incompatibilità sopravvenuta a mantenere tale carica e per
dichiararne la decadenza, in ragione della opposizione, da lui proposta
davanti al Giudice di pace di Pordenone, alla sanzione amministrativa
irrogatagli dalla Polizia municipale dello stesso Comune per violazione
del codice della strada – la Corte d’appello di Trieste, con ordinanza
emessa il 1° febbraio 2012, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 63, comma 1, numero 4, del decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali), per contrasto con gli articoli 3,
51 e 24 della Costituzione, «nella parte in cui esso non esclude [recte:
“nella parte in cui esso esclude”] le cause di opposizione ex lege
681/1989 dal novero di quelle che non determinano la decadenza ovvero
l’incompatibilità al pari di quelle tributarie»;
che – descritte analiticamente le vicende processuali
che hanno condotto, da un lato, il Tribunale ordinario di Pordenone ad
accogliere il ricorso in primo grado e, dall’altro lato, alla
riassunzione del giudizio di appello a seguito della cassazione, da
parte della Suprema Corte, della sentenza con cui la medesima Corte
d’appello aveva dichiarato l’estinzione del giudizio elettorale per
mancata integrazione del contraddittorio con altri soggetti – la
rimettente osserva che la legislazione in materia di incompatibilità
degli amministratori locali, nell’ipotesi di lite pendente, ha
progressivamente circoscritto l’ambito di applicazione dell’istituto
attenuandone i suoi effetti limitativi in relazione al diritto di
elettorato passivo, escludendo dal suo ambito diverse fattispecie (quali
la lite per fatto connesso con l’esercizio del mandato; la lite in
materia tributaria; la lite promossa nell’esercizio dell’azione
popolare; la semplice costituzione di parte civile nel processo penale;
la lite promossa in esito a sentenza di condanna, o ad essa conseguente,
in mancanza di affermazione di responsabilità con sentenza passata in
giudicato);
che – ritenuto peraltro che (come anche affermato dal
Tribunale ordinario di Pordenone nella impugnata decisione di primo
grado) la fattispecie dedotta in giudizio non rientra in alcuna delle
predette cause di esclusione e che (come chiarito dalla stessa Corte di
cassazione nella sentenza 24 febbraio 2006, n. 4252) il giudizio di
opposizione avverso ordinanza-ingiunzione costituisce “lite pendente”,
incompatibile con l’assunzione della carica di amministratore comunale o
provinciale, ai sensi della norma censurata, atteso che tale
procedimento va annoverato tra quelli civili di cognizione ordinaria –
la rimettente deduce (in termini di rilevanza della questione) che il
ricorso in appello (basato sulla tesi, non condivisibile, secondo la
quale la norma censurata andrebbe interpretata estensivamente nel senso
che anche una lite in materia di applicazione di sanzioni amministrative
non determinerebbe la sopravvenuta incompatibilità essendo
perfettamente ragguagliabile alla lite in materia tributaria) potrebbe
essere accolto solo ove venisse dichiarata l’incostituzionalità della
norma medesima;
che, in ordine alla non manifesta infondatezza, la
rimettente osserva che (diversamente da quanto affermato da questa Corte
nella sentenza n. 160 del 1997, relativamente alla legittimità della
mancata inclusione delle cause di lavoro) l’opposizione
all’ordinanza-ingiunzione è omologa alla lite tributaria, in quanto in
entrambi i casi si è alla presenza di un titolo, a fondamento di una
pretesa patrimoniale, dell’Ente pubblico, a fronte del quale il
cittadino non può che proporre l’annullamento o la riforma ed in
relazione al quale, per converso, l’Ente non potrebbe assumere un
atteggiamento processuale “affievolito” né provvedere a “rinunce”,
trattandosi di somme derivanti da un’obbligazione di diritto pubblico;
che, dunque, il Collegio a quo rileva che – essendo
pacifico che la disposizione censurata è norma di natura eccezionale, in
quanto pone una limitazione al diritto di elettorato passivo sancito
proprio dal predetto art. 51 Cost., e non potendo porsi in dubbio che le
ragioni ostative all’assunzione di cariche elettive debbono essere il
risultato di princìpi coerenti e di obbiettive necessità, consistenti
nell’impedire l’insorgere di un conflitto di interessi (potenziale o
attuale) tra l’eletto e l’ufficio che ricopre – se il legislatore ha
ritenuto di non impedire l’accesso alle cariche elettive di chi sia
parte in un contenzioso tributario, appare in contrasto con gli artt. 3 e
51 della Costituzione applicare un diverso trattamento alla fattispecie
regolata dalla legge n. 689 del 1981;
che, infine, secondo la rimettente, «escludere che la
proposizione di un ricorso per opposizione ex lege 689/81 impedisca la
decadenza o l’incompatibilità dalla carica elettiva, diversamente da
quanto accade invece nell’ipotesi di lite tributaria, appare altrettanto
irragionevolmente lesivo del principio del pieno diritto alla tutela
giurisdizionale (art. 24 Cost.), tenuto conto che la permanenza alla
carica elettiva non è un “diritto”, ma un munus, di tal che l’eletto non
può automaticamente e liberamente operare un “bilanciamento” tra la
permanenza alla carica pubblica e il diritto di opporsi all’ordinanza
ingiunzione, dovendo tener conto della responsabilità che egli assume
nei confronti dell’elettorato in caso di dimissioni (dimissioni la cui
ineludibilità, normativamente imposta, finisce con il determinare un
irragionevole vulnus al principio di rappresentatività democratica)»;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
che ha concluso per la non fondatezza della questione;
che – premesso che spetta al legislatore, nel
ragionevole esercizio della sua discrezionalità, attuare l’art. 51
Cost., stabilendo il regime delle cause di ineleggibilità e
incompatibilità – la difesa erariale (anche in una successiva memoria)
osserva che l’obbligazione tributaria ha natura e fondamento
completamente diversi rispetto all’obbligazione derivante
dall’ordinanza-ingiunzione, da ciò derivando la incomparabilità delle
situazioni messe a confronto e quindi, da un lato, la non praticabilità
dello scrutinio di uguaglianza tra fattispecie diverse; e, dall’altro
lato, l’esclusione delle denunciate violazioni: sia dell’art. 51 Cost.,
giacché nel giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione (che è un
giudizio ordinario di cognizione) sembra che la possibilità di un
conflitto di interessi tra l’eletto e l’ufficio che esso ricopre non
possa essere ragionevolmente escluso; sia dell’art. 24 Cost. in quanto
non sembra che possa ritenersi sussistente alcuna violazione del diritto
alla tutela giurisdizionale, così come prospettata dal giudice
remittente.
Considerato che il censurato articolo 63, comma 1,
numero 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico
delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), sotto la rubrica
“Incompatibilità”, dispone quanto segue: «Non può ricoprire la carica di
sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale o
circoscrizionale: […] 4) colui che ha lite pendente, in quanto parte di
un procedimento civile od amministrativo, rispettivamente, con il
comune o la provincia. La pendenza di una lite in materia tributaria
ovvero di una lite promossa ai sensi dell’articolo 9 del presente
decreto non determina incompatibilità. Qualora il contribuente venga
eletto amministratore comunale, competente a decidere sul suo ricorso è
la commissione del comune capoluogo di circondario sede di tribunale
ovvero sezione staccata di tribunale. Qualora il ricorso sia proposto
contro tale comune, competente a decidere è la commissione del comune
capoluogo di provincia. Qualora il ricorso sia proposto contro
quest’ultimo comune, competente a decidere è, in ogni caso, la
commissione del comune capoluogo di Regione. Qualora il ricorso sia
proposto contro quest’ultimo comune, competente a decidere è la
commissione del capoluogo di provincia territorialmente più vicino. La
lite promossa a seguito di o conseguente a sentenza di condanna
determina incompatibilità soltanto in caso di affermazione di
responsabilità con sentenza passata in giudicato. La costituzione di
parte civile nel processo penale non costituisce causa di
incompatibilità. La presente disposizione si applica anche ai
procedimenti in corso»;
che la Corte d’appello di Trieste censura tale norma,
«nella parte in cui […] non esclude [recte: “nella parte in cui esso
esclude”] le cause di opposizione ex lege 681/1989 dal novero di quelle
che non determinano la decadenza ovvero l’incompatibilità al pari di
quelle tributarie», per denunciato contrasto con gli articoli 3 e 51
della Costituzione, poiché, se il legislatore ha ritenuto di non
impedire l’accesso alle cariche elettive di chi sia parte in un
contenzioso tributario, appare in contrasto con tali parametri applicare
un diverso trattamento alla fattispecie regolata dalla legge 24
novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), tenuto conto della
equivalenza del giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione alla
lite tributaria; nonché con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, in
quanto «escludere che la proposizione di un ricorso per opposizione ex
lege 689/81 impedisca la decadenza o l’incompatibilità dalla carica
elettiva, diversamente da quanto accade invece nell’ipotesi di lite
tributaria, appare altrettanto irragionevolmente lesivo del principio
del pieno diritto alla tutela giurisdizionale, tenuto conto che la
permanenza alla carica elettiva non è un “diritto”, ma un munus, di tal
che l’eletto non può automaticamente e liberamente operare un
“bilanciamento” tra la permanenza alla carica pubblica e il diritto di
opporsi all’ordinanza ingiunzione, dovendo tener conto della
responsabilità che egli assume nei confronti dell’elettorato in caso di
dimissioni (dimissioni la cui ineludibilità, normativamente imposta,
finisce con il determinare un irragionevole vulnus al principio di
rappresentatività democratica)»;
che, in particolare – sul rilievo che la legislazione in
materia di incompatibilità degli amministratori locali, nell’ipotesi di
lite pendente, ha progressivamente circoscritto il campo di
applicazione dell’istituto attenuandone i suoi effetti limitativi in
relazione al diritto di elettorato passivo, escludendo dal suo ámbito
diverse fattispecie (quali la lite per fatto connesso con l’esercizio
del mandato; la lite in materia tributaria; la lite promossa
nell’esercizio dell’azione popolare; la semplice costituzione di parte
civile nel processo penale; la lite promossa in esito a sentenza di
condanna, o ad essa conseguente, in mancanza di affermazione di
responsabilità con sentenza passata in giudicato) – la denuncia di
incostituzionalità della norma impugnata viene fondata sull’assunto che
l’opposizione all’ordinanza-ingiunzione sia perfettamente omologa alla
lite tributaria e che la conseguente lesione del principio di
uguaglianza (per la differente previsione della operatività della causa
di incompatibilità per lite pendente) determini pertanto anche la
violazione del diritto all’elettorato passivo e alla tutela
giurisdizionale dell’eletto;
che va premesso, in termini generali, che costituisce
orientamento costante l’affermazione secondo cui, se l’art. 51 Cost.
assicura in via generale il diritto di elettorato passivo senza porre
discriminazioni sostanziali tra cittadini, è proprio tale precetto
costituzionale a svolgere il ruolo di garanzia generale di un diritto
politico fondamentale, riconosciuto ad ogni cittadino con i caratteri
dell’inviolabilità e dell’uguaglianza (ex artt. 2 e 3 della
Costituzione); e che, pertanto, le restrizioni del contenuto di tale
diritto sono ammissibili in presenza di situazioni peculiari ed in ogni
caso per motivi adeguati e ragionevoli, finalizzati alla tutela di un
interesse generale, che presuppone un bilanciamento che deve operare tra
il diritto individuale di elettorato passivo e la tutela delle cariche
pubbliche, cui possono accedere e permanere solo coloro che sono in
possesso delle condizioni che tali cariche, per loro natura, appunto
richiedono (sentenze n. 25 del 2008 e n. 288 del 2007);
che, dunque, spetta al legislatore, nel ragionevole
esercizio della sua discrezionalità, attuare l’art. 51 della
Costituzione, stabilendo il regime delle cause di ineleggibilità e
incompatibilità (sentenza n. 240 del 2008);
che, d’altronde, la stessa rimettente ricorda che questa
Corte – chiamata a scrutinare una questione del tutto analoga (anche se
prospettata in maniera diversa) riguardante la contestata mancata
inclusione delle cause di lavoro nelle ipotesi di litispendenza che sono
fonte di incompatibilità, anche in considerazione della esclusione dal
novero delle incompatibilità delle liti tributarie – ha affermato che
«l’aver escluso le liti tributarie dalle fattispecie di litispendenza
che sono causa di incompatibilità non vizia d’irragionevolezza la
disposizione: una cosa sono, invero, le liti tributarie, altra le cause
di lavoro» (sentenza n. 160 del 1997);
che, anche rispetto alla odierna questione non è
ravvisabile la dedotta omogeneità del giudizio di opposizione ad
ordinanza-ingiunzione rispetto alla lite in materia tributaria, che
dunque non può essere assunta quale idoneo tertium comparationis onde
operare il riscontro della asserita violazione del principio di
uguaglianza;
che, infatti, la rimettente trascura che questa Corte ha
costantemente affermato, e qui ribadisce, la peculiare natura della
giurisdizione tributaria, che «deve ritenersi imprescindibilmente
collegata» alla «natura tributaria del rapporto» (sentenze n. 130 e n.
64 del 2008); tant’è che la “materia tributaria”, che costituisce
elemento essenziale e caratterizzante la giurisprudenza speciale, non
può essere “snaturata” (per preciso limite costituzionale), dal
legislatore in caso di modifiche normative, se non a costo di violare il
divieto di istituzione di nuovi giudici speciali di cui all’art. 102
Cost. (sentenza n. 39 del 2010);
che, dall’altra parte, come anche sottolineato dalla
Corte d’appello, la giurisprudenza di legittimità (Cassazione 24
febbraio 2006, n. 4252) ha annoverato il procedimento di cui alla legge
n. 689 del 1981 tra quelli civili a cognizione ordinaria tendente
all’accertamento negativo della pretesa sanzionatoria da parte
dell’autorità competente e proponibili davanti al giudice di pace ovvero
al tribunale (come ora risulta ai sensi dell’art. 6, commi 1-5, del
decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150, recante «Disposizioni
complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e
semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi
dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69»);
che, pertanto, la natura speciale “a materia vincolata”
della giurisdizione tributaria implica una ontologica eterogeneità
rispetto alla natura di giudizio civile a cognizione ordinaria
attribuita alla opposizione ex lege n. 689 del 1981, determinando di
conseguenza l’incomparabilità delle situazioni poste a raffronto;
che, infine, quanto alla violazione dell’art. 24 Cost.
(denunciata sempre in combinato disposto con l’art. 3 Cost.), si osserva
che, come detto, è la previsione stessa della causa di incompatibilità
per causa pendente che rappresenta il risultato del complessivo
bilanciamento (spettante alla discrezionalità del legislatore: sentenza
n. 240 del 2008, citata) di valori aventi uguale rilievo costituzionale,
specificamente finalizzato alla attuazione dell’art. 51 Cost., onde
impedire che possano concorrere all’esercizio delle funzioni comunali
soggetti portatori di interessi confliggenti con quelli del Comune o i
quali comunque si trovino in condizioni che ne possano compromettere
l’imparzialità (sentenza n. 288 del 2007);
che, d’altronde, l’amministratore locale non soggiace
alla operatività della causa di incompatibilità, ma ha egli stesso la
facoltà di eliminarla, ai sensi dell’art. 69, commi 2-4, del d.lgs. n.
267 del 2000, mediante una scelta personale che, lungi dall’essere
normativamente coartata, consente al medesimo interessato – che si trova
in un contesto di inconciliabilità tra la permanenza nella carica e la
prosecuzione della lite – di essere arbitro di se stesso e di preservare
il valore costituzionale che egli ritiene prevalente come cittadino e
come eletto a cariche pubbliche;
che, di conseguenza, la questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo
1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 63, comma 1, numero 4, del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali), sollevata, in riferimento agli
articoli 3, 51 e 24 della Costituzione, dalla Corte d’appello di
Trieste, con l’ordinanza indicata il epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 dicembre 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
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