Legittima la Comunicazione di inefficacia della SCIA
NOTA
La sentenza ritiene legittima
la comunicazione di inefficacia emessa da Roma Capitale sulla SCIA
presentata dal ricorrente per l’apertura di un esercizio commerciale nel
Rione Testaccio (Roma).
A giudizio del Collegio, non sussistono – ex art. 19, L. 7 agosto 1990 n. 241 e s.m.i. – le condizioni (i.e.: attività meramente vincolata) per l’assenso dell’attività mediante mera SCIA.
Il Collegio si sofferma altresì – ai
fini del successivo, eventuale, esercizio del potere autorizzatorio da
parte dell’ente resistente – sugli obblighi incombenti sull’ente locale
di adeguamento alla normativa, europea e interna, in tema di
liberalizzazione di attività economiche.
* * *
N. 12534/2014 REG.PROV.COLL.
N. 02313/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda Ter)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2313 del 2014, proposto da:
Tiziana Monaldi, Franca Chiti, Francesca Monaldi e Mauro Monaldi, rappresentati e difesi dagli avv. Giovanni Gulina e Andrea Formiconi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Alberto Angeletti in Roma, Via G. Pisanelli, 2;
Tiziana Monaldi, Franca Chiti, Francesca Monaldi e Mauro Monaldi, rappresentati e difesi dagli avv. Giovanni Gulina e Andrea Formiconi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Alberto Angeletti in Roma, Via G. Pisanelli, 2;
contro
Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Rosalda Rocchi, domiciliata presso l’Avvocatura Capitolina in Roma, Via Tempio di Giove, 21;
nei confronti di
Li Jiao;
per l’annullamento
della comunicazione di inefficacia del
19 dicembre 2013 relativa alla s.c.i.a. 18 novembre 2013 per apertura
esercizio di vicinato in via Bodoni n. 53;
di ogni altro atto presupposto o conseguente tra cui, segnatamente, il verbale di accertamento di violazione 11 gennaio 2014.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del
giorno 12 novembre 2014 il dott. Roberto Caponigro e uditi per le parti i
difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. I ricorrenti espongono di essere
proprietari, in comunione pro indiviso, di un fondo commerciale sito in
Roma, via Bodoni n. 53, locato alla signora Li Jiao per l’esercizio di
un’attività di vendita al dettaglio di generi non alimentari secondo i
termini della segnalazione certificata di inizio attività presentata
dalla signora Li Jiao all’amministrazione in data 18 novembre 2013.
Roma Capitale, con provvedimento del 19
dicembre 2013, ha comunicato alla signora Li Jiao che la segnalazione
certificata di inizio attività di apertura esercizio di vicinato in data
18 novembre 2013 risulta priva di effetti e non costituisce titolo
giuridico per l’avvio e la prosecuzione dell’attività dichiarata,
eventualmente intrapresa, e, pertanto, ha inibito lo svolgimento
dell’attività medesima nel locale di via G. Bodoni n. 53/e angolo via
Ginori.
Di talché, i ricorrenti, evidenziando la
presenza delle condizioni soggettive dell’azione, hanno proposto il
presente ricorso, articolato nei seguenti motivi:
Eccesso di potere per difetto di
istruttoria e conseguente errore motivazionale in fatto; violazione
degli artt. 3 e 6 l. n. 241 del 1990.
I vincoli nel Rione Testaccio sarebbero
applicabili ai fondi commerciali aventi superficie inferiore ai mq 150,
mentre il fondo dei ricorrenti avrebbe dimensione di mq 184.
Eccesso di potere per
contraddittorietà dell’azione amministrativa e insufficienza
motivazionale; violazione degli artt. 3 e 6 l. n. 241 del 1990.
Il fondo di via Bodoni, per quanto in
passato adibito ad esercizio di vendita di generi alimentari, si
troverebbe oggi immediatamente confinante con altro fondo che tale
funzione effettivamente svolge.
Violazione degli artt. 3, 41 e 42 Cost.
I provvedimenti impugnati non
distinguerebbero situazioni diverse, ma imporrebbero con ingiusta
eguaglianza il medesimo destino tanto a fondi che commercialmente lo
possono effettivamente sopportare, quanto a fondi che non lo possono.
Violazione dell’art. 117 Cost., comma
2, lett. e), ulteriore violazione dell’art. 41 Cost.; violazione
dell’art. 31 d.l. n. 201 del 2011, convertito con modificazioni dalla l.
n. 214 del 2011.
Nella misura in cui invade competenze
proprie dello Stato centrale, il regolamento violerebbe il precetto
costituzionale e dovrebbe essere disapplicato dal Tribunale adito.
Roma Capitale ha contestato la fondatezza delle censure dedotte concludendo per il rigetto del ricorso.
All’udienza pubblica del 12 novembre 2014, la causa è stata trattenuta per la decisione.
2. Il ricorso è infondato e va di conseguenza respinto nei sensi di quanto in appresso indicato.
La signora Li Jiao, locataria del fondo
commerciale di proprietà dei ricorrenti, ha presentato segnalazione
certificata di inizio attività in data 18 novembre 2013 per apertura
esercizio di vicinato di commercio al minuto di settore non alimentare
(vendita di articoli per la casa, articoli da regalo, abbigliamento,
calzature e accessori).
Il provvedimento di inefficacia della
scia è stato adottato in quanto l’attività esercitata precedentemente in
via Bodoni n. 53/A-E, facente parte della Città Storica, colloca il
locale nella tipologia di cui alla deliberazione consiliare n. 36/2006,
così come integrata e modificata dalla deliberazione consiliare n.
86/2009, al punto 2 della quale si legge “qualora venga a cessare una
delle attività tutelate, negli stessi locali è consentita l’attivazione
esclusivamente di una o più delle medesime attività appartenente al
medesimo settore …”
Con la prima doglianza, i ricorrenti
hanno esposto che i vincoli nel Rione Testaccio sarebbero applicabili ai
fondi commerciali aventi superficie inferiore ai mq 150, mentre il
fondo dei ricorrenti avrebbe dimensione di mq 184.
In proposito – premesso che nella scia
del 18 novembre 2012 l’immobile di mq 225 avrebbe una superficie di 180
mq destinata alla vendita di prodotti del settore non alimentare –
occorre rilevare che, come indicato da Roma Capitale nella nota del
Municipio Roma I depositata in data 5 marzo 2014 nonché nella memoria
difensiva, nel locale risulta attivata la licenza amministrativa n.
817/1984 (documento 6 della produzione di Roma Capitale) tabella
merceologica V “prodotti ittici o carni delle specie ittiche” e nel 1994
l’aggiunta della tabella merceologica I “prodotti alimentari” pari
complessivamente a mq 130 cessata in data 29 novembre 2012 con
indicazione della data di cessazione al 7 maggio 2012 e contestuale
riconsegna delle licenze.
Ne consegue – essendo l’attività
alimentare fino a mq 150 nelle zone di rispetto di cui all’art. 11, tra
cui Rione Testaccio, attività tutelata – l’applicabilità dell’art. 6,
punto 2, della delibera C.C. n. 36 del 2006, secondo cui “qualora venga a
cessare una delle attività tutelate, negli stessi locali è consentita
l’attivazione esclusivamente di uno o più delle medesime attività
appartenente al medesimo settore alimentare o non alimentare”.
Il provvedimento impugnato, in assenza
di una delle deroghe di cui al successivo punto 3, costituisce pertanto
un atto meramente vincolato in ragione delle richiamate norme comunali.
L’art. 19 l. n. 241 del 1990 stabilisce
che ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva,
permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le
iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività
imprenditoriale, commerciale o artigianale “il cui rilascio dipenda
esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti
dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale”, e non sia
previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di
programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, è
sostituito da una segnalazione dell’interessato, con la sola esclusione
dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali
e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa
nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla
cittadinanza, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione
delle finanze.
Il terzo comma dell’art. 19 prevede che
l’amministrazione competente, “in caso di accertata carenza dei
requisiti e dei presupposti” di cui al primo comma, nel termine di
sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione, adotta motivati
provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione
degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia
possibile, l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente
detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato
dall’amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni.
Il Collegio pone in rilievo che, in
ragione del descritto corpus normativo, non ogni attività è esercitabile
sulla base di una segnalazione certificata di inizio attività, ma solo
quella il cui titolo abilitativo sia assentibile nell’esercizio di
un’attività amministrativa vincolata.
Infatti, l’ambito di applicabilità
dell’istituto di cui all’art. 19 l. n. 241 del 1990 si riferisce, come
detto, all’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o
artigianale il rilascio del cui titolo abilitativo “dipenda
esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti
dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale”, per cui è da
intendersi circoscritto all’attività amministrativa vincolata, e cioè
ai casi in cui, in presenza dei requisiti e dei presupposti previsti
dalla legge o da atti amministrativi generali, l’amministrazione deve
attribuire il “bene della vita” richiesto, mentre sono escluse da tale
ambito sia l’attività amministrativa discrezionale sia, a maggior
ragione, le ipotesi in cui il “bene della vita” non potrebbe in alcun
caso essere attribuito e, quindi, l’esercizio dell’attività non è
neanche astrattamente configurabile.
Nella fattispecie in esame, poiché
l’avvio della nuova attività non riguarda una attività tutelata, la
normativa comunale attualmente vigente impedisce che la stessa possa
essere esercitata.
Ne consegue che, non rientrando la
fattispecie in esame nel perimetro di applicazione dell’art. 19 l. n.
241 del 1990, la s.c.i.a. presentata deve sostanzialmente considerarsi
tamquam non esset.
Con riferimento alle altre doglianze
poste dai ricorrenti, il Collegio rileva che le stesse non sono idonee
di per sé sole a dare conto dell’illegittimità dell’attività
amministrativa in quanto, pur in presenza della normativa nazionale
sopravvenuta, non può ritenersi che l’esercizio commerciale possa essere
senz’altro aperto.
Tuttavia, il Collegio – nel ribadire,
come detto, che l’attività non rientra tra quelle il cui rilascio
dipende esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti
richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale,
vale a dire che il “bene della vita” non è attribuibile nell’esercizio
di un’attività amministrativa vincolata, sicché, comunque, la
fattispecie non potrebbe rientrare nell’ambito di applicazione di cui
all’art. 19 l. n. 241 del 1990 e nel precisare che la segnalazione
certificata di inizio attività non può costituire titolo giuridico per
l’avvio e la prosecuzione dell’attività in discorso – ritiene opportuno,
in quanto investito del sindacato di legittimità sul rapporto
disciplinato dal provvedimento impugnato, in linea con quanto già
chiarito per altre fattispecie (cfr. TAR Lazio, II ter, 3 luglio 2014,
n. 7045), precisare quanto segue a fini conformativi della eventuale
successiva attività amministrativa.
Il titolo IV del decreto legge 6
dicembre 2011, n. 201, convertito in legge, con modificazioni, dalla
legge 22 dicembre 2011, n. 214, contiene disposizioni per la promozione e
la tutela della concorrenza.
In tale ambito, l’art. 31, comma 2,
incluso nel capo I rubricato “liberalizzazioni”, stabilisce che, secondo
la disciplina dell’Unione Europea e nazionale in materia di
concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi,
costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di
apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti,
limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi
quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente,
ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali. La disposizione
indica altresì che le Regioni e gli enti locali adeguano i propri
ordinamenti a tali prescrizioni entro il 30 settembre 2012.
Il successivo art. 34, comma 3, incluso
nel capo II rubricato “concorrenza”, prevede inoltre l’abrogazione delle
seguenti restrizioni disposte dalle norme vigenti:
a) il divieto di esercizio di una
attività economica al di fuori di una certa area geografica e
l’abilitazione a esercitarla solo all’interno di una determinata area;
b) l’imposizione di distanze minime tra le localizzazioni delle sedi deputate all’esercizio di una attività economica;
c) il divieto di esercizio di una attività economica in più sedi oppure in una o più aree geografiche;
d) la limitazione dell’esercizio di una
attività economica ad alcune categorie o divieto, nei confronti di
alcune categorie, di commercializzazione di taluni prodotti;
e) la limitazione dell’esercizio di una
attività economica attraverso l’indicazione tassativa della forma
giuridica richiesta all’operatore;
f) l’imposizione di prezzi minimi o commissioni per la fornitura di beni o servizi;
g) l’obbligo di fornitura di specifici servizi complementari all’attività svolta.
Tali previsioni, sebbene genericamente
rivolte agli esercizi commerciali, rappresentano un’ulteriore spinta
impressa dal legislatore nazionale per consentire l’attuazione dei
principi comunitari e costituzionali di concorrenza, libertà di
stabilimento, libertà di prestazione di servizi e libertà di iniziativa
economica privata.
In tal senso, depone sia la formulazione
dell’art. 31, comma 2, d.l. n. 201 del 2011, che limita i vincoli
apponibili alla libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul
territorio a quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori,
dell’ambiente e dei beni culturali, laddove l’art. 64, comma 3, d.lgs.
n. 59 del 2010 fa riferimento a ragioni non altrimenti risolvibili di
sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità e, in ogni caso, alla
tutela e salvaguardia delle zone di pregio artistico, storico,
architettonico e ambientale, sia l’introduzione della norma di cui
all’art. 34 d.l. n. 201 del 2011 che abroga le restrizioni previste
dalle norme vigenti in relazione, tra l’altro, all’imposizione di
distanze minime tra le localizzazioni delle sedi deputate all’esercizio
di un’attività economica.
In tale direzione, si pongono altresì le
norme di cui all’art. 1 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1,
convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n.
27, rubricato “liberalizzazione delle attività economiche e riduzione
degli oneri amministrativi sulle imprese”.
Il legislatore del dicembre 2011,
proprio per rendere effettive le norme sulle liberalizzazioni e sulla
tutela della concorrenza, ha previsto che le Regioni e gli enti locali
adeguino i propri ordinamenti alle riportate prescrizioni entro il 30
settembre 2012 (il termine è fissato al 31 dicembre 2012 dall’art. 1,
comma 4, d.l. n. 1 del 2012 per l’adeguamento ai principi ed alle regole
nello stesso articolo contenute).
L’indicato termine ha natura
evidentemente ordinatoria, ma si presenta emblematico della volontà del
legislatore di sottoporre a revisione le previgenti regolamentazioni
degli enti locali e regionali al fine di renderle conformi, ove già non
lo fossero, ai principi cui è ispirata la normativa sulle
liberalizzazioni.
Di talché, in presenza di previsioni
legislative sopravvenute, che hanno imposto di rivalutare gli interessi
in gioco alla luce delle prescrizioni ivi dettate, il riferimento ad una
fonte normativa previgente non può ritenersi esaustivo.
D’altra parte, diversamente opinando, si
giungerebbe alla paradossale e non accettabile conclusione che le norme
introdotte dagli artt. 31 e 34 d.l. n. 201 del 2011 e dall’art. 1 d.l.
n. 1 del 2012 potrebbero, a discrezione dell’amministrazione locale
competente, non avere concreta attuazione.
In altri termini, in ragione dello ius superveniens,
l’amministrazione locale è tenuta a compiere un bilanciamento tra le
esigenze di liberalizzazione e di tutela della concorrenza e le esigenze
di tutela di valori quali la salute, l’ambiente ed i beni culturali,
potendo in teoria concludere per l’introduzione di vincoli e divieti per
zone territoriali laddove nessun’altra misura meno restrittiva ed
invasiva della libertà di iniziativa economica privata consenta di
tutelare efficacemente gli anzidetti valori della salute, dell’ambiente e
dei beni culturali.
Tale valutazione, però, una volta entrata in vigore la previsione normativa (25 marzo 2012), deve essere compiuta ex novo
dal Comune, sulla base di analisi aggiornate, onde compiere eventuali
adeguamenti dell’ordinamento interno alle prescrizioni di legge.
In ragione di tali argomentazioni – nel
rappresentare nuovamente che il provvedimento impugnato, in quanto
afferente ad un’attività commerciale non esercitabile a seguito di
s.c.i.a., resiste alle censure dedotte – il Collegio rappresenta che,
così come la s.c.i.a., non vertendosi nell’ambito di attività
amministrativa vincolata, non è comunque idonea a consentire l’esercizio
dell’attività, così non può ritenersi sussistere un vincolo
dell’amministrazione nel negare la variazione ipotizzata sulla base del
solo riferimento al dettato regolamentare del 2006, come integrato e
modificato nel 2009.
Ne consegue che, ove i soggetti
interessati presentassero un’istanza volta ad ottenere l’autorizzazione
per lo svolgimento dell’attività, l’amministrazione sarebbe obbligata ad
esaminare la stessa alla luce della portata conformativa della presente
sentenza, essendo insufficiente a sorreggere legittimamente un
eventuale provvedimento di diniego il mero riferimento ad un atto
regolamentare presupposto che deve per legge essere sottoposto a
revisione onde rinnovare, in ragione di una adeguata istruttoria e sulla
base della legislazione sopravvenuta, il detto bilanciamento tra gli
interessi in gioco, rilevanti su un piano comunitario e costituzionale.
Roma Capitale, in altre parole, non
potrebbe limitarsi a negare l’autorizzazione sulla base del mero
riferimento alla deliberazione di C.C. n. 36 del 2006 come integrata e
modificata dalla deliberazione di C.C. n. 86 del 2009, esercitando un
potere del tutto vincolato, ma dovrebbe compiere una valutazione
maggiormente analitica e svincolata da norme che, in assenza
dell’adeguamento di cui all’art. 31, comma 2, ultima parte, d.l. n. 201
del 2011 ed all’art. 1, comma 4, d.l. n. 1 del 2012, non possono
ritenersi più cogenti, tale da dare conto in maniere specifica delle
ragioni per le quali il titolo abilitativo può essere assentito o deve
essere denegato.
In definitiva, il ricorso è infondato e
va respinto, fermo restando che l’amministrazione di Roma Capitale dovrà
tenere conto nell’eventuale riesercizio del potere a seguito di un
eventuale specifica istanza di autorizzazione dei principi sopraesposti.
3. La complessità e la peculiarità della
fattispecie inducono a ritenere equa la compensazione delle spese del
giudizio tra le parti
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Seconda Ter, respinge il ricorso in epigrafe.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2014 con l’intervento dei magistrati:
Maddalena Filippi, Presidente
Roberto Caponigro, Consigliere, Estensore
Giuseppe Rotondo, Consigliere
| L’ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 11/12/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
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