Vecchie regole per nuove tendenze
Con la recente Sentenza n. 20 del 14
gennaio 2015, il T.A.R. Sardegna ha ritenuto illegittimo un regolamento
comunale che vietava agli esercizi di vendita l’uso di strutture
precarie, quali ad esempio gazebo e dehors, per lo stazionamento dei
clienti che scelgono di consumare sul posto, magari di fronte al
negozio, i prodotti alimentari acquistati un attimo prima. “Non si spiega – a detta del T.A.R.
– la limitazione posta dall’impugnato regolamento in relazione
all’attività di mera vendita, che può essere esercitata anche in locali
privi di quei particolari requisiti richiesti per la somministrazione”.
Al di là del caso singolo, la tendenza
al consumo immediato dei prodotti alimentari presso gli esercizi di
vendita, è un fenomeno relativamente recente ma già piuttosto diffuso
nelle città italiane, in linea con l’affermarsi di nuove abitudini di
acquisto che vedono il consumatore sempre più esigente in termini di
qualità di prodotti e servizi, oltre che di flessibilità degli orari. A
fronte di questa nuova filosofia di consumo, spesso incentrata sulla
valorizzazione della componente emozionale, si è sviluppata una risposta
in termini di offerta tesa a trasformare l’atto dell’acquisto in
un’esperienza sensoriale a tutto tondo, il cui scopo è soddisfare una
serie di aspettative della persona che solo in minima parte sono
riconducibili al bisogno di alimentarsi.
In questo scenario hanno preso vita
molteplici iniziative e progetti fondati sulla promozione di una
determinata “cultura del cibo”, spesso valendosi di situazioni e
contesti in cui convivono somministrazione e vendita di beni alimentari e
non. Di conseguenza, sono le tradizionali partizioni amministrative e
autorizzatorie tra negozi di vicinato, dediti alla sola vendita, e
pubblici esercizi, attrezzati per la somministrazione, ad essere entrate
in crisi, in quanto, come si vedrà, l’apparato normativo vigente non è
più adeguato all’evolversi delle dinamiche domanda/offerta.
Qualcosa si è mosso: la “tipologia unica” nei pubblici esercizi e il “consumo sul posto” nei negozi di alimentari
Una prima breccia nel muro dei
compartimenti stagni dell’offerta alimentare si trova nel superamento
delle vecchie quattro tipologie di pubblici esercizi, così come definite
dalla legge n. 287/1991 in ristoranti, bar, sale da ballo, gelaterie e
simili. Chi otteneva un’autorizzazione per bar non poteva fare attività
di ristorazione, chi apriva una gelateria non era abilitato per la
somministrazione di alcolici, ecc., con la sola possibilità, tutt’altro
che scontata, di cumulare le autorizzazioni per tipologie diverse. In
più, i contingenti numerici a cui soggiacevano le licenze, quasi sempre
esauriti, bloccavano i nuovi ingressi sul mercato.
Già a partire dal 2001, con la riforma
del Titolo V della Costituzione e il passaggio alle Regioni della
competenza legislativa esclusiva sul commercio, si assiste un po’
ovunque allo spuntare di nuove iniziative di legge sulla
somministrazione di alimenti e bevande, tutte sfociate nell’eliminazione
delle quattro tipologie presenti nella vecchia legge nazionale. Si
parla allora di tipologia unica di esercizi per la somministrazione di
alimenti e bevande, comprese quelle alcoliche di qualsiasi gradazione.
Alcuni anni dopo spariscono anche i contingenti e le “temute”
commissioni comunali e provinciali.
Altra spallata al modello dell’offerta
distinta viene inflitta nel 2006 dal d.l. n. 223/2006, convertito nella
l. n. 248, meglio noto come seconda legge Bersani. All’art. 3, comma 1,
lettera f)-bis, è scritto che “le attività commerciali (…) e quelle di somministrazione di alimenti e bevande sono svolte senza (…) il
divieto o l'ottenimento di autorizzazioni preventive per il consumo
immediato dei prodotti di gastronomia presso l'esercizio di vicinato,
utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con l'esclusione del
servizio assistito di somministrazione e con l'osservanza delle
prescrizioni igienico-sanitarie.”
In conseguenza alla forse eccessiva
laconicità del testo di legge, abbiamo assistito al fiorire di circolari
e note esplicative su cosa debba intendersi per prodotti di
gastronomia, locali e arredi aziendali, servizio assistito, prescrizioni
sanitarie, in piena aderenza, del resto, all’antica propensione italica
per le chiose, i distinguo e le interpretazioni, magari diverse da una
Regione all’altra se non da Comune a Comune.
I “prodotti di gastronomia”
Quando si parla di “prodotti di
gastronomia”, il fondamentale riferimento normativo si trova nella
vecchia legge nazionale n. 287/1991, secondo cui tale definizione
include tutti i prodotti che possono essere venduti o somministrati in
bar, caffè, gelaterie, pasticcerie ed esercizi similari. Il MISE ha
sempre offerto un’interpretazione costante di tale locuzione,
comprendendo panini, tramezzini, pizzette, toast, sandwiches e simili
(Risoluzioni n. 186958/1982, n. 1920144/1989 e comunicazioni prot.
507968/2002, 560280/2003, 4271/2005). In questa stessa direzione si è
mossa la Giurisprudenza del Consiglio di Stato (Sentenza n. 499/1998),
seguita da quella di merito, che ha ritenuto tali le tipologie di
prodotti non soggette a manipolazione e riscaldabili a seconda dei gusti
del consumatore. Se dunque la preparazione di tali prodotti non
costituisce manipolazione, gli stessi potranno essere riscaldati,
venduti e consumati sul posto anche negli esercizi di vicinato.
La Circolare MISE 3603/C del 28/09/2006,
in base ad una interpretazione letterale della norma di legge, ha
escluso dal consumo sul posto nei negozi la possibilità di prestare il
servizio assistito tipico della somministrazione tradizionale. Questa
conclusione rimane anche oggi, a distanza di tempo, l’unico punto fermo
su cui non esiste pressoché contrapposizione.
Altri pareri hanno rimarcato che
l’erogazione di bevande alla spina o l’uso di macchine da caffè
industriali sono pratiche più attinenti ai pubblici esercizi. In realtà,
non si comprende il perché di simili limitazioni aprioristiche, ben
potendo il cliente di un negozio consumare immediatamente un caffè o una
bevanda qualsiasi in un bicchiere a perdere, senza particolari
implicazioni dal punto di vista igienico-sanitario.
I servizi igienici per la clientela: obbligo o facoltà?
La piccola rivoluzione introdotta dalla
citata legge Bersani in tema di consumo sul posto, attiene in
particolare alla possibilità di utilizzare gli arredi dell’azienda.
Effetto immediato e palpabile di questa nuova chance, è l’introduzione
del concetto di stazionamento del pubblico all’interno degli esercizi di
vicinato. Che questa situazione si concretizzi mediante il ricorso a
piani di appoggio, mensole, tavoli o sedute di vario tipo è, come si
vedrà meglio in seguito, aspetto del tutto irrilevante, in quanto si
tratta pur sempre di strumenti finalizzati a trattenere per un tempo più
o meno lungo il cliente all’interno o nelle immediate adiacenze
dell’esercizio. Lo stazionamento rappresenta l’elemento da sempre
invocato a giustificazione del supposto obbligo di dotare bar e
ristoranti di idonei servizi per la clientela.
La norma nazionale tradizionalmente
invocata per affermare l’obbligo di servizi igienici per la clientela è
contenuta nell’art. 28 del D.P.R. n. 327/1980, secondo cui gli
stabilimenti e i laboratori di produzione, preparazione e
confezionamento di sostanze alimentari, nell’ambito dei quali sono
pacificamente ricompresi anche i pubblici esercizi, devono essere
dotati, tra l’altro, “di servizi igienici rispondenti alle
normali esigenze igienico-sanitarie non comunicanti direttamente con i
locali adibiti a lavorazione, deposito e vendita delle sostanze
alimentari. (…)
I gabinetti debbono essere in numero
adeguato al personale addetto alla lavorazione: dotati di acqua
corrente in quantità sufficiente e forniti di vaso a caduta di acqua, di
lavabo con erogazione a comando non manuale (a pedale o con altri
accorgimenti tecnici), con distributori di sapone liquido od in polvere e
con asciugamani elettrici o con asciugamani non riutilizzabili da
cestinare dopo l'uso.
Gli spogliatoi devono essere forniti
di armadietti individuali lavabili, disinfettabili e disinfestabili, a
doppio scomparto per il deposito, rispettivamente, degli indumenti
personali e di quelli usati per il lavoro.
Le docce debbono essere di numero adeguato a seconda del tipo di lavorazione ed al numero di persone addette alla lavorazione”.
Si noti che l’obiettivo della norma
riportata è assicurare che il ciclo di produzione all’interno di tali
attività soddisfi determinate garanzie igieniche poste a tutela della
sola sicurezza alimentare, senza alcun riferimento alle condizioni di
fruibilità delle strutture da parte degli avventori. Da ciò deriva che
in base alla richiamata disposizione, l’unico requisito imprescindibile
riguarda un’idonea dotazione di servizi per il personale, ma non per il
pubblico.
In proposito, la Regione Lombardia, con
nota della Direzione Sanità del 13/09/2010, ha chiarito che i servizi
igienici per la clientela non rispondono ad esigenze di igiene degli
alimenti, ma si fondano semmai su norme di pubblica sicurezza. L’Emilia
Romagna è rimasta molto in punta di penna nell’affrontare il problema
dei servizi igienici nei pubblici esercizi, ritenendo “vada valutata l’opportunità di prevedere (…) almeno un servizio igienico di cortesia”
a disposizione del pubblico (D.G.R. N. 1879/2009). Quindi si auspica da
parte dei Comuni la fissazione del requisito ma non si stabilisce alcun
vincolo.
Fatta salva la potestà legislativa
regionale, spetta alle Amministrazioni comunali, in sede di regolamento
d’igiene, RUE, o altro atto ad hoc, stabilire l’eventuale
obbligo di servizi igienici per la clientela nelle attività in cui è
ammesso, in qualsiasi forma, lo stazionamento del pubblico per la
consumazione immediata di alimenti e bevande. È dunque nella
responsabilità dei Comuni e delle Regioni scegliere di colmare il vuoto
normativo in materia fissando requisiti strutturali e di accesso
proporzionati agli interessi da tutelare, senza discriminazioni per le
nuove attività rispetto agli operatori già presenti sul mercato. Come
del resto sempre alla discrezionalità dei Sindaci è attribuita la scelta
di superare il problema della carenza di servizi igienici all’interno
degli esercizi, realizzando strutture pubbliche facilmente raggiungibili
dai siti ad alta frequentazione.
Se il criterio dello stazionamento può
indurre i Comuni ad esigere il requisito dei servizi per il pubblico
anche negli esercizi di vicinato attrezzati per il consumo sul posto, è
altresì possibile che, in senso opposto, null’altro si voglia aggiungere
a quanto sancito dalla norma nazionale per i soli dipendenti.
L’eventuale silenzio degli strumenti urbanistici comunali o dei
regolamenti d’igiene sul punto non si deve ripercuotere sulla libertà
degli imprenditori del settore, i quali altro non fanno che sfruttare
un’opportunità loro offerta dalla legge e, come si è visto, avallata da
quella Giurisprudenza che, quanto alle strutture per lo stazionamento
del pubblico, non ammette discriminazioni tra somministrazione e
semplice vendita.
D’altra parte, è la stessa legge Bersani a parlare di “prescrizioni sanitarie”,
legittimando così il riferimento ad ogni livello di regolamentazione
anche locale. Sono infatti molti i Comuni che hanno disciplinato con
norme ad hoc il fenomeno del consumo sul posto negli esercizi di vicinato.
Tuttavia, è bene ricordarlo, la scelta
legislativa di introdurre una disciplina fatta di soli principi,
lasciando ampia possibilità di integrare al livello locale quanto a
requisiti e modalità, comporta comunque l’effetto tipico degli
interventi a macchia di leopardo, le cui conseguenze più nefaste sono
percepibili in termini di distorsioni concorrenziali. È pertanto
auspicabile che, almeno per ambiti omogenei, le amministrazioni assumano
decisioni condivise.
Sedie e tavoli solo in bar e ristoranti?
La legge Bersani ammette il consumo sul
posto negli esercizi di vicinato mediante l’utilizzo degli arredi
dell’azienda. Subito è emerso il problema di individuare in cosa
potessero consistere queste attrezzature. Sempre il Ministero si è fatto
carico di dare indicazioni in proposito, dapprima con la Circolare
3603/C del 28/09/2006, con cui è stata esclusa una modalità analoga a
quella consentita negli esercizi di somministrazione, e successivamente
con altri interventi, più o meno allineati con quanto formulato in
precedenza. Ma è con la Circolare n. 75893 dell’8/05/2013 che, nel
tentativo di fornire un’interpretazione di “chiusura”, il MISE ha
assunto una posizione certo non esente da critiche. In particolare, si
sostiene che è esclusa “la possibilità di contemporanea presenza di
tavoli e sedie associati o associabili, fatta salva solo la necessità d
un’interpretazione ragionevole di tale vincolo, che non consente di
escludere, ad esempio, la presenza di un limitato numero di panchine o
altre sedute non abbinabili ad eventuali piani di appoggio”.
È di tutta evidenza come la soluzione
suggerita dal MISE si configuri di ardua applicazione alla casistica
concreta, essendo praticamente impossibile tracciare una linea di
demarcazione netta, oltre la quale il numero di panchine o altre sedute
risulti superiore al consentito. Anche l’espediente del divieto di
abbinare le sedute ai tavoli e viceversa si rivela del tutto inutile al
fine di estromettere il fattore stazionamento.
A nulla è valso che l’Autorità
Antitrust, con la Segnalazione AS900 del 4/01/2012, abbia ritenuto
anticoncorrenziale la regolamentazione adottata da un Comune che ha
vietato l’uso di sedie e tavoli per il consumo sul posto nei negozi.
È toccato alla Sentenza n. 20/2015 del
T.A.R. Sardegna, insieme ad altri precedenti dello stesso tenore,
chiarire che per quanto riguarda gli arredi non si può differenziare tra
somministrazione e vendita. Grazie a questo chiarimento possono
ritenersi ormai archiviabili tutte quelle manovre di aggiramento che,
facendo ricorso a mensole, panche e sgabelli, intendevano superare il
supposto divieto di utilizzare sedie e tavoli.
Stoviglie e posate a perdere o anche tazzine e calici di vetro?
Altro fronte insidioso riguarda l’uso di
stoviglie e posate per il consumo dei pasti. È ancora una volta il
Ministero, con la Circolare del settembre 2006, a fissare l’obbligo di
impiegare strumenti monouso, riservando piatti, bicchieri, posate e
tovaglioli durevoli alla somministrazione tradizionale. In realtà, anche
questa limitazione appare aprioristica e ingiustificatamente
discriminatoria. Nulla vieta infatti ad un negozio, spazio permettendo,
di dotarsi di una lavastoviglie quanto meno per tazzine e bicchieri.
Anche su questo versante la regolamentazione locale può dare utili
indicazioni.
Una prospettiva di riforma in senso pro concorrenziale
Il corretto inquadramento delle
problematiche esposte non può prescindere da una lettura del fenomeno in
senso pro concorrenziale, facendo riferimento al recente quadro
normativo di derivazione comunitaria che ha animato la stagione delle
liberalizzazioni nel settore del commercio e dei servizi (direttiva
Bolkestein n. 2006/123/CE, d.l. n. 223/2006, d. lgs. 59/2010, d.l.
138/2011, d.l. n. 201/2011, d.l. n. 1/2012, d.l. n. 5/2012). Alla base
di questi interventi, il principio secondo cui alle imprese deve essere
consentito tutto ciò che non è espressamente vietato. La libertà di fare
impresa, peraltro conosciuta dal nostro sistema fin dal 1948 (art. 41,
Cost.), può essere limitata solo se in contrasto con un “interesse
generale” ugualmente tutelato dalla Costituzione. Poiché la norma che
parla di consumo sul posto è stata esplicitamente adottata dallo Stato
nell’esercizio della propria competenza legislativa esclusiva in materia
di tutela della concorrenza e delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali (art. 117, comma 1, lett. e) ed m),
Cost.), toccherà sempre allo Stato stabilire se occorre salvaguardare un
interesse generale di segno opposto, introducendo i limiti e i divieti
ritenuti più opportuni.
Come è emerso diffusamente più sopra,
continuare a segmentare le attività economiche alimentari in
compartimenti stagni, implica un’ingiustificata coercizione delle
dinamiche domanda/offerta e impedisce alle amministrazioni di
concentrare la propria azione su ciò che è effettivamente importante ai
fini del controllo pubblico. In una prospettiva di riforma del quadro
normativo in senso pro concorrenziale, è auspicabile si superino certe
rigidità sul versante definitorio e autorizzatorio, estendendo il
modello della “tipologia unica” a tutte le varie sfaccettature che
caratterizzano la moderna offerta dei prodotti alimentari, fatto salvo
il rispetto dei requisiti eventualmente previsti per l’attività in
concreto esercitata. (Michele Deodati)
http://www.infocommercio.it
N. 00020/2015 REG.PROV.COLL.
N. 00079/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 79 del 2014, proposto da:
Roberto Luca Congiu, rappresentato e difeso dall'avv. Roberto Uras, con domicilio eletto presso il suo studio in Cagliari, Via Alghero n. 13;
Roberto Luca Congiu, rappresentato e difeso dall'avv. Roberto Uras, con domicilio eletto presso il suo studio in Cagliari, Via Alghero n. 13;
contro
Comune di Quartu Sant'Elena, rappresentato e difeso
dall'avv. Pietro Floris, con domicilio eletto presso la Segreteria del
T.A.R. Sardegna in Cagliari, via Sassari n. 17;
per l'annullamento
del provvedimento 12/11/2013 prot. 76842, con cui il
Dirigente del Settore Attività Produttive e SUAP del Comune di Quartu S.
Elena, ha vietato al ricorrente di utilizzare la maggior porzione di
suolo pubblico ottenuta in concessione per l’esercizio della propria
attività;
dell'art. 1 del “Regolamento disciplinante
l'installazione di strutture precarie ed amovibili su aree pubbliche e
private ad uso pubblico asservite esclusivamente all'esercizio di
attività di somministrazione di alimenti e bevande aperti al pubblico”,
approvato con delibera del Consiglio Comunale n. 20 del 27/5/2009.
Visti il ricorso e i relativi allegati.
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune intimato.
Viste le memorie difensive.
Visti tutti gli atti della causa.
Nominato relatore per l'udienza pubblica del giorno 10
dicembre 2014 il Consigliere Alessandro Maggio e uditi per le parti i
difensori come specificato nel verbale.
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Il sig. Roberto Luca Congiu - esercente l’attività di
produzione artigianale e vendita di gelati in un locale ubicato nel
Comune di Quartu Sant’Elena, nel viale Colombo nn. 184/186, e già
concessionario di uno spazio pubblico sul marciapiede antistante il
proprio locale – ha ottenuto, dal Dirigente del Settore Beni Ambientali e
Culturali, Servizi Tecnologici, Ufficio Difesa, Acqua, Suolo, Aria,
Sviluppo Sostenibile, l’autorizzazione ad ampliare l’area occupata, al
fine di potervi installare un gazebo da destinare agli avventori della
gelateria.
Sennonchè, con determinazione 12/11/2013 prot. n.
76842, il Dirigente del Settore Attività Produttive e SUAP, ha vietato
al sig. Congiu l'utilizzo della maggior porzione di suolo pubblico
ottenuta, ritenendo che il regolamento approvato con delibera del
Consiglio Comunale 27/5/2009 n. 20, disciplinante l’installazione di
strutture precarie su aree pubbliche e private, sia applicabile solo
alle attività di somministrazione di alimenti e bevande e non alle
attività, “artigianali o di vendita”.
Ritenendo il menzionato provvedimento negativo
illegittimo, il sig. Congiu lo ha impugnato chiedendone l’annullamento
per vizi di violazione di legge ed eccesso di potere.
Si è costituita in giudizio l’amministrazione intimata, depositando memoria con cui si è opposta all’accoglimento del ricorso.
Alla pubblica udienza del 10/12/2014 la causa, su richiesta delle parti, è stata posta in decisione.
DIRITTO
In via pregiudiziale va esaminata l’eccezione con cui
il Comune resistente deduce che sarebbe cessata la materia del
contendere in conseguenza dell’intervenuta adozione di un nuovo
regolamento che, sostanzialmente, consente l’installazione e l’utilizzo
dei gazebo anche in relazione all’attività esercitata dal ricorrente.
L’eccezione è palesemente infondata.
Al riguardo è sufficiente rilevare che il
provvedimento impugnato, non è stato ritirato dall’intimata
amministrazione, per cui la preclusione col medesimo posta e con essa
l’interesse al ricorso, permangono interamente.
Il ricorso va, quindi, esaminato nel merito.
Il primo e quarto motivo possono essere affrontati in un unico contesto.
Con le due censure in questione, il ricorrente deduce,
per un verso, che il regolamento approvato con la delibera consiliare
27/5/2009 n. 20, contrariamente da quanto ritenuto dall’intimata
amministrazione, non escluderebbe dal suo campo di applicazione le
attività artigianali e, per altro verso, che la detta norma secondaria
sarebbe illogica nella parte in cui consente l’installazione di
strutture precarie unicamente a vantaggio degli esercizi destinati allo
svolgimento dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande.
Le censure meritano accoglimento.
L’art. 1 del regolamento di cui alla citata delibera
consiliare n. 20/2009, intitolato “Ambito di applicazione”, dispone
espressamente: “Con il presente regolamento l’amministrazione comunale
intende disciplinare la collocazione su suolo pubblico o privato ad uso
pubblico di strutture precarie, temporanee e amovibili asservite
esclusivamente e direttamente alla ricezione di utenti di esercizi di
somministrazione di alimenti e bevande aperti al pubblico su tutto il
territorio comunale. Sono esclusi dall’applicazione del presente
regolamento gli interventi su aree del demanio marittimo o regionale”.
La trascritta disposizione, non esclude, quindi, dal
suo ambito di applicazione le attività che si estrinsecano nella
preparazione artigianale di alimenti (nella specie gelati), essendo
indifferente, ai suoi fini, che i cibi siano realizzati artigianalmente o
meno. Né il divieto si rinviene in altre disposizioni del medesimo
regolamento.
Quest’ultimo, peraltro, risulta illogico e quindi
illegittimo, laddove consente l’installazione di strutture precarie
solo per l’esercizio di attività di somministrazione di alimenti e
bevande, escludendo che le dette strutture possano essere utilizzate per
la vendita.
Ed invero, per somministrazione – ai sensi dell’art. 1
della L. 25/8/1991 n. 287 – “si intende la vendita per il consumo sul
posto che comprende tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i
prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al
pubblico, all’uopo attrezzati”.
Ciò che caratterizza la somministrazione è, quindi,
l’esistenza di strutture logistiche atte a consentire l’assunzione e il
consumo in loco di alimenti e bevande, caratteristica questa assente nel
caso di esercizi deputati alla mera vendita dei suddetti prodotti.
In tali esercizi, infatti, l’attività caratterizzante è
quella di vendita/acquisto di alimenti e bevande, mentre è del tutto
indifferente che l'acquirente, di sua iniziativa, consumi i prodotti
acquistati immediatamente o in prossimità dei locali di vendita o
produzione (come talvolta accade con riguardo ai prodotti di gelateria).
Da quanto sopra emerge che con riferimento agli
esercizi destinati alla somministrazione, sono richiesti particolari
requisiti, essenzialmente preordinati ad assicurare la presenza di spazi
idonei, soprattutto sotto il profilo igienico sanitario, che, invece,
non occorrono in relazione agli esercizi destinati alla mera vendita.
In quest’ottica non si spiega, quindi, la limitazione
posta dall’impugnato regolamento in relazione all’attività di mera
vendita, che può essere esercitata anche in locali privi di quei
particolari requisiti richiesti per la somministrazione.
L’acclarata illegittimità del regolamento di che
trattasi, si riflette sul provvedimento di divieto n. 76842, emesso dal
Dirigente del Settore Attività Produttive e SUAP in data 12/11/2013.
Il ricorso va, in definitiva, accolto.
Spese ed onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda)
definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe,
lo accoglie e per l’effetto annulla il regolamento approvato con
delibera consiliare n. 20/2009, nei limiti di quanto specificato in
motivazione, nonchè l’impugnato provvedimento negativo n. 76842/2013.
Condanna l’intimata amministrazione al pagamento delle
spese processuali in favore della parte ricorrente, liquidandole
forfettariamente in complessivi € 2.000/00 (duemila), oltre accessori di
legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 10 dicembre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Francesco Scano, Presidente
Alessandro Maggio, Consigliere, Estensore
Antonio Plaisant, Consigliere
L'ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/01/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)