SUPREMA CORTE DI
CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 11 dicembre 2013,
n. 49832
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte di
legittimità, richiamata nella sentenza impugnata e anche nel ricorso “è
configurabile il furto con strappo quando la violenza è immediatamente rivolta
verso la cosa e solo in via del tutto indiretta verso la persona che la
detiene, anche se, a causa della relazione fisica intercorrente tra cosa
sottratta e possessore, può derivare una ripercussione indiretta e involontaria
sulla vittima, mentre ricorre la rapina allorché la “res” è particolarmente
aderente al corpo del possessore e questi, istintivamente e deliberatamente,
contrasta la sottrazione, cosicché la violenza necessariamente si estende alla
sua persona, dovendo l’agente vincerne la resistenza e non solo superare la
forza di coesione inerente al normale contatto della cosa con essa (Sez. 2,
Sentenza n. 34206 del 03/10/2006 Ud. (dep. 12/10/2006) Rv. 234776). Peraltro,
qualora la violenza sia esercitata simultaneamente sulla cosa e sulla persona
per vincere la resistenza opposta dalla vittima e protesa a difendere o
trattenere la cosa, ricorre il delitto di rapina e non quello di furto con
strappo (Sez. 2, Sentenza n. 3972 del 12/10/1987 Ud. (dep. 28/03/1988) Rv.
177978). Va, quindi, esclusa la possibilità di ravvisare la figura del furto
con strappo in tutte le ipotesi in cui la violenza, comunque “indirizzata”, sia
stata esercitata per vincere la resistenza della parte offesa, giacché in tal
caso sarebbe la violenza stessa – e non lo “strappo” – a costituire il mezzo
attraverso il quale si realizza la sottrazione, determinando automaticamente il
refluire del fatto nello schema tipico del delitto di rapina” (Cass. Sez. II,
23.11.2010, n. 41464). In questa sentenza è stato altresì precisato, con
riguardo alla concretezza del fatto, che “le modalità del fatto, come emerse
dalla stessa denuncia della parte offesa non sono contrastanti con l’ipotesi di
rapina aggravata contestata, in quanto risulta, con evidenza, che vi fu momento
in cui la donna cercò di trattenere la borsa, ma la sua resistenza fu vinta
dalla trazione violenta che fu adoperata, quindi, nei confronti della persona e
non esclusivamente sulla cosa”.
Alle stesse conclusioni deve giungersi nel caso
di specie, essendo stato ricostruito il fatto nel senso che dapprima l’imputato
afferrò con violenza la borsa portata dalla persona offesa cercando di vincere
la sua resistenza strappandola con forza; in tal modo faceva cadere per terra
sia la persona offesa che il di lei marito che l’accompagnava; a tal punto
proseguiva nel tentativo di strappare la borsa alla vittima mentre la stessa
era per terra, non riuscendo nel tentativo perché la borsa si era attorcigliata
al corpo della stessa.
Se la prima fase dell’azione – ossia lo strappo
tentato della borsa – avrebbe ancora potuto integrare il tentativo di furto
aggravato, il prosieguo dell’azione – ossia lo strappo tentato della borsa nei
confronti della vittima ormai caduta a terra a seguito della azione precedente
– integra evidentemente il delitto di tentata rapina aggravata giacché
l’imputato, tenendo la descritta condotta, ha cercato evidentemente di vincere
la resistenza passiva della vittima, a cui aveva già cagionato lesioni,
esercitando una ulteriore violenza sulla stessa nel pervicace tentativo di
impossessarsi della borsa; insistendo, va rimarcato, nell’azione di strappo
benché la borsa si forse attorcigliata intorno al corpo della vittima e dunque
senza preoccuparsi di arrecare ulteriori lesioni alla vittima, già ferita.
In conclusione, correttamente la Corte
territoriale ha ritenuto integrato il delitto di rapina tentata aggravata in
considerazione della resistenza passiva esercitata dalla vittima per il fatto
che la borsa avesse ormai aderito al corpo nel mentre l’imputato si ostinava
nel tentativo di strapparla via.
Circa l’ulteriore motivo, deve rilevarsi che
dell’art. 628, comma 3, n. 3 quater cod. pen. stabilisce un aggravamento di
pena se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di
fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito,
uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro.
Come esattamente rilevato dei giudici di appello,
il fondamento della norma è nella maggiore gravità del fatto commesso ai danni
di una persona intenta – e sorpresa – a prelevare denaro o che abbia appena
effettuato il prelievo. Così si è verificato nel caso di specie, giacché
soltanto pochi minuti prima dell’aggressione la vittima aveva prelevato del
denaro presso un ufficio postale, allontanandosi a piedi e percorrendo una via
parallela a quella in cui si trova detto ufficio.
Poiché nella descrizione della fattispecie astratta
si presta esclusiva attenzione al momento temporale e non alla collocazione
spaziale, poiché null’altro si richiede oltre alla stretta vicinanza nei tempi
tra prelievo e aggressione, come evidenza l’avverbio “appena” correttamente la
corte di appello ha motivato a pagina 9 e s. della sentenza impugnata
l’integrazione dell’aggravante in parola.
Quanto al trattamento sanzionatorio deve
rilevarsi che il giudice d’appello, con motivazione congrua ed esaustiva, anche
previo specifico esame degli argomenti difensivi attualmente riproposti, è
giunto a una valutazione di merito come tale insindacabile nel giudizio di
legittimità, quando – come nel caso di specie – il metodo di valutazione delle
prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi
logici (Cass. pen. sez. un., 24 novembre 1999, Spina, 214794), rilevando in
particolare la sussistenza di precedenti penali, la prognosi negativa sulla
personalità dell’imputato e la proporzione della pena inflitta alla gravità del
fatto commesso, e l’evidente inadeguatezza della somma offerta a risarcimento
del danno arrecato (come si legge nella sentenza di appello alla pagina 11).
Attesa la separatezza delle posizioni e la
diversità dei riti applicati manifestamente infondata è la doglianza con
riguardo alla comparazione tra pena comminata al ricorrente e pena comminata al
coimputato che ha ritenuto di fruire del patteggiamento.
Manifestamente infondata per insuperabile
genericità è infine la doglianza crea la quantificazione delle statuizioni
civili, non argomentandosi alcunché nel ricorso.
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616
c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali.