SOTTOPRODOTTO E NORMALE PRATICA INDUSTRIALE: FINALMENTE INTERVIENE LA CASSAZIONE
a cura di Gianfranco Amendola
Finalmente! Dopo 2 anni e
dopo 3 sentenze in cui il problema veniva eluso, la terza sezione penale
della Cassazione ha iniziato a fare chiarezza sull’ambigua definizione
di sottoprodotto recepita dall’art. 184 bis del D. Lgs 152/06,
introdotto con il D. Lgs 205/2010, che giova riportare per esteso:
Articolo 184-bis
(Sottoprodotto)
1. È un
sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1,
lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti
condizioni:
a) la
sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui
costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la
produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è
certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello
stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da
parte del produttore o di terzi;
c) la
sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun
ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d)
l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa,
per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i
prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a
impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.
2. Sulla
base delle condizioni previste al comma 1, possono essere adottate
misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare
affinché una sostanza o un oggetto specifico sia considerato
sottoprodotto e non rifiuto. All’adozione di tali criteri si provvede
con uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare, ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23
agosto 1988, n. 400, in conformità con quanto previsto dalla disciplina
comunitaria.
Come è noto, e come più
volte evidenziato anche su questo sito, il problema di fondo attiene
alla interpretazione della lettera c) che, escludendo ogni ulteriore
trattamento diverso dalla normale pretica industriale, non specifica in
alcun modo che cosa si intenda, appunto, per “normale pratica industriale”.
Oggi, finalmente, la Suprema Corte (Cass. pen., sez. 3, 17 aprile 2012, pres. Squassoni, est. Ramacci., n. 17453, pubblicata su questo sito)
chiarisce che “il concetto di “normale pratica industriale”
non può comprendere attività comportanti trasformazioni radicali del
materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura, nonché tutti
gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente
effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato”.
Trattasi di precisazione
del tutto condivisibile, che sintetizza e ricalca l’opinione della
migliore dottrina, chiudendo la porta a chi vorrebbe, invece, ampliare
l’ambito della normale pratica industriale a qualsiasi tipo di
trattamento. Non a caso, la stessa sentenza sottolinea che, nel caso di
specie, il trattamento effettuato consisteva in una vera e propria
attività di recupero di rifiuti, e, quindi, non poteva essere
considerato “normale pratica industriale”.
A questo proposito, peraltro, è ben vero che, come già evidenziato in altro lavoro precedente, la definizione di “trattamento” contenuta nella direttiva UE e nel D. Lgs 152/06 comprende <<operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento>>
(art. 3, n. 14 della direttiva e art. 183, lett. s del quarto
correttivo), riferendosi, quindi ad un rifiuto; ma è proprio per questo
che tale definizione non può essere riferita al sottoprodotto che, per
definizione, non è un rifiuto (ma una sostanza o un oggetto). Si deve allora concludere che nell’art. 184 bis il termine “trattamento”, riferito alla “normale pratica industriale”,
è usato in senso atecnico, diverso da quello contenuto nella
definizione normativa. Così come confermato dalla sentenza in esame.
Infine, va messo in
rilievo che l’interpretazione proposta dalla suprema Corte è in totale
sintonia con la giurisprudenza della Corte europea di giustizia, cui
peraltro, si deve la nozione di sottoprodotto. E infatti, essa parte
dalla premessa che <<il
termine «disfarsi» deve essere interpretato non solo alla luce della
finalità essenziale della direttiva la quale, stando al suo terzo
‘considerando’, è la «protezione della salute umana e dell’ambiente
contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del
trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti», bensì anche
dell’art. 174, n. 2, CE. Quest’ultimo dispone che la politica della
Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela,
tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della
Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione
preventiva (…). Ne consegue che il termine «disfarsi», e pertanto la
nozione di «rifiuto» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva,
non possono essere interpretati in senso restrittivo>> 1. Prosegue evidenziando che << per
comune esperienza, un rifiuto è ciò che viene prodotto accidentalmente
nel corso della lavorazione di un materiale o di un oggetto e che non è
il risultato cui il processo di fabbricazione mira direttamente. A tale
interpretazione potrebbe essere opposto l'argomento che un bene, un
materiale o una materia prima che deriva da un processo di fabbricazione
o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di «disfarsi»
ai sensi dell'art. 1, lett. a), comma 1, della direttiva 75/442, ma che
essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei
favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari.
Un'analisi del genere non contrasterebbe con le finalità della
direttiva 75/442. In effetti non vi è alcuna giustificazione per
assoggettare alle disposizioni di quest'ultima, che sono destinate a
prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o
materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti,
indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti.>> E conclude che, tuttavia, <<tenuto
conto dell'obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di
rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro
natura, occorre circoscrivere tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione>>2.
1 Da ultimo, Corte di giustizia europea (terza sezione), 18 dicembre 2007, causa c-263/05