Di Valerio TALLINI http://www.rivistagiuridica.aci.it
1. L’art. 5, d.lgs. n. 28/2010 e l’ordinanza di rimessione del T.A.R. Lazio (12 aprile 2011, n. 3202)
La direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione Europea ha disciplinato alcuni aspetti della mediazione civile e commerciale. Siffatta direttiva veniva recepita con la legge 18 giugno 2009, n. 69 recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile” e, in particolare, con l’art. 60, il legislatore nazionale delegava il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale (comma 1), nel rispetto e in coerenza con la normativa comunitaria e in conformità ai principi e criteri direttivi enunciati al comma 3 (comma 2). Tra questi ultimi si stabiliva che la mediazione avesse ad oggetto controversie su diritti disponibili, senza tuttavia “precludere l’accesso alla giustizia” (comma 3, lett. a)) e, in ogni caso, si prevedeva che il procedimento non potesse avere una durata eccedente i quattro mesi (comma 3, lett. q)). La delega in oggetto – che si prefiggeva lo scopo di ridurre il peso del contenzioso civile ordinario – è stata esercitata con il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28[1], il quale all’art. 5, comma 1, prevede che colui che intenda esercitare in giudizio un’azione relativa ad una serie di diritti (tra cui le domande di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti)[2] è tenuto preliminarmente a esperire il tentativo di mediazione[3] (primo periodo); il quale costituisce “condizione di procedibilità della domanda giudiziale” (secondo periodo); inoltre, “l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza (terzo periodo). Sempre il giudice ove rilevi che la mediazione non è stata esperita (oppure è già iniziata, ma non si è ancora conclusa) assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e, contestualmente, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’art. 6 (quarto e quinto periodo). Tale ultima disposizione fissa in quattro mesi la durata massima del procedimento di mediazione (comma 1) e specifica altresì che esso non è soggetto a sospensione feriale (comma 2)[4]. In seguito, con decreto 18 ottobre 2010, n. 180 il Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, ha adottato un regolamento attuativo, andando a disciplinare una serie di profili che, tuttavia, costituiranno oggetto della nostra analisi soltanto marginalmente. Di fronte a tale impianto normativo (che per le materie “condominio” ed “R.C. auto” ha subito un ritardo di 12 mesi, entrando in vigore soltanto il 21 marzo 2012) – che aveva suscitato più di qualche perplessità tra i primi commentatori[5] – gli organi rappresentativi degli interessi dell’Avvocatura (nella specie, l’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana, alcuni Consigli dell’Ordine, oltre che diverse associazioni collegate al mondo forense) proponevano due ricorsi al T.A.R. Lazio affinché il medesimo annullasse l’anzidetto d.m. n. 180 e, altresì, rimettesse alla Corte costituzionale la questione relativa al predetto art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28, cit. per presunta violazione degli artt. 24 e 76 Cost.[6]. Secondo i ricorrenti, l’art. 5, cit. – nel prevedere che l’esperimento del procedimento di mediazione fosse una “condizione di procedibilità”, rilevabile anche d’ufficio, della domanda giudiziale con riguardo alle materie di cui alla nota 1 – avrebbe precluso “l’accesso diretto alla giustizia” (andando dunque a violare l’art. 24, primo comma, Cost.), oltre che disatteso le previsioni della legge delega e, in particolare, il suddetto principio e criterio direttivo di cui alla lett. a). Inoltre, si riteneva che l’art. 5 fosse del pari incostituzionale, giacché il Governo aveva introdotto l’obbligatorietà della mediazione, senza che ciò fosse tuttavia previsto nella legge delega[7]. Investito dei ricorsi, il giudice amministrativo, dopo averli riuniti, mostrava di condividere le argomentazioni proposte dai ricorrenti; e, pertanto, decideva – con un provvedimento molto articolato (nella specie, l’ordinanza 12 aprile 2011, n. 3202[8]) – di trasmettere i relativi atti alla Corte costituzionale.
2. La conciliazione obbligatoria nella giurisprudenza costituzionale: il diritto di azione ex art. 24, primo comma, Cost. tra “condizione di procedibilità” e “condizione di proponibilità”
Secondo una lettura critica, le argomentazioni dei ricorrenti, seppur pregevoli, non possono essere condivise: invero, esse sembrerebbero contrastare con il costante orientamento espresso dalla Corte costituzionale in materia di conciliazione obbligatoria. I) Più in particolare, nella sentenza n. 82/1992[9], la Corte costituzionale ha ritenuto conforme a Costituzione il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 5, l. n. 108/1990 (Disciplina dei licenziamenti individuali): anch’esso – al pari dell’art. 5, d.lgs. n. 28, cit. – costituiva una “condizione di procedibilità dell’azione”, andando, dunque, a rappresentare un chiaro esempio di “giurisdizione condizionata[10]”, ma ciononostante non si poneva in contrasto con il diritto di azione di cui all’art. 24, primo comma, Cost.[11]. Sul punto, occorre premettere quanto segue. La disposizione costituzionale de qua stabilisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”: ciò significa che all’attribuzione della titolarità di un diritto (o di un interesse) si accompagna il riconoscimento del potere di farlo valere innanzi a un giudice in un procedimento giurisdizionale[12]. In altri termini: se una situazione soggettiva si sostanzia in un diritto soggettivo (oppure in un interesse legittimo), allora essa dovrebbe essere immediatamente azionabile in giudizio[13]. E poiché il predetto tentativo obbligatorio di conciliazione impediva, di fatto, una siffatta possibilità, si riteneva allora che andasse a violare proprio l’art. 24, primo comma, Cost. Tuttavia, tale ricostruzione non veniva accolta dalla Corte costituzionale, giacché il binomio diritto-azione non era (e non può essere) inteso in senso assoluto: invero, sin dalla sentenza n. 47 del 1964, la Corte ha avuto modo di affermare che l’art. 24, primo comma, Cost. “non impone una correlazione assoluta tra il sorgere del diritto e la sua azionabilità quando ricorrano esigenze di ordine generale e superiori finalità di giustizia”. E, comunque, ove sussistano dette circostanze, il legislatore è semplicemente “tenuto ad osservare il limite imposto dall’esigenza di non rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa ovvero di non differirla irrazionalmente o sine die[14]”. Pertanto, sulla base di queste premesse, la Corte costituzionale precisava che il diritto di azione “non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento”: invero, le limitazioni che tendono a evitare “l’abuso del diritto alla tutela giurisdizionale” o “ancor meglio, l’eccesso della giurisdizione, in vista di un interesse della stessa funzione giurisdizionale”, altro non rappresentano che la ragion d’essere della “giurisdizione condizionata[15]”, la quale, a sua volta, costituisce un’esplicazione del principio di economia processuale. Alla luce di quanto asserito emerge che il legislatore debba contemperare due principi: egli può certamente imporre oneri (in senso lato) all’esperimento dei rimedi giurisdizionali (si pensi alla previa proposizione di un ricorso amministrativo), oneri che vadano a salvaguardare gli “interessi generali”, tuttavia senza che il diritto di azione venga eccessivamente sacrificato, potendo la tutela giurisdizionale – al limite – essere procrastinata[16]. Diversamente, se l’art. 5, d.lgs. n. 28, cit. anziché come “condizione di procedibilità” della domanda fosse stato invece previsto come “condizione di proponibilità” della stessa, non si sarebbe potuto realizzare quel punto di equilibrio tra l’effettiva garanzia dell’azione e il limite al suo condizionamento. Invero, mentre la condizione di procedibilità comporta che il giudice, dopo aver verificato che il tentativo di mediazione non è stato esperito, fissi alle parti un termine di quindici giorni per la presentazione della domanda (di mediazione) secondo quanto prevede l’art. 5, per cui la (eventuale) tutela giurisdizionale comunque si può sempre realizzare non pronunciando il giudice un’absolutio ad instantia con rigetto in rito della domanda[17]; in senso contrario, una qualsivoglia condizione di proponibilità, in un caso analogo, avrebbe precluso ogni attività giudiziale: a titolo esemplificativo, si pensi alla declaratorie di incostituzionalità nei riguardi dell’art. 10, r.d. n. 148/1931 nella parte cui sanciva l’improponibilità, anziché l’improcedibilità, dell’azione giudiziaria in caso di mancata o tardiva presentazione del reclamo gerarchico rispettivamente per le controversie di lavoro aventi per oggetto diritti patrimoniali (sent. n. 57/1972[18]) e per quelle concernenti ogni altro diritto non esclusivamente patrimoniale (sent. n. 93/1979[19]). II) L’istituto del tentativo obbligatorio di conciliazione era previsto anche nell’ambito delle controversie di lavoro tra privati e, segnatamente, all’art. 412-bis c.p.c.[20], secondo cui l’espletamento del tentativo medesimo costituiva “condizione di procedibilità della domanda” (primo comma). Con la sentenza n. 276/2000[21], la Corte costituzione, adita per presunta violazione del diritto di azione, rigettava – anche sulla scorta della precedente pronuncia del 1992 – le censure dei giudici rimettenti, specificando, tra l’altro, che il tentativo obbligatorio di conciliazione “tende a soddisfare l’interesse generale sotto un duplice profilo: da un lato, evitando che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento; dall’altro favorendo la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quella conseguita attraverso il processo” (Punto 3.4. del Considerato in diritto). III) L’istituto in esame caratterizzava anche le controversie di lavoro pubblico: in particolare l’art. 65, T.U. n. 165/2001[22] faceva un esplicito rinvio alle disposizioni previste dall’art. 410 c.p.c. in materia di controversie di lavoro tra privati (supra n. II). Anche in ordine a detta disposizione veniva lamentata una presunta violazione dell’art. 24, primo comma, Cost. Tuttavia, la Corte costituzionale, con sentenza n. 199/2003[23] non aveva difficoltà a respingere la questione, poiché la norma in esame rinviava ad altra disposizione, ritenuta – prima di allora – conforme a Costituzione. IV) Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca anche la sentenza n. 403/2007[24], in cui la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata una questione sollevata nei riguardi dell’art. 1, comma 11, l. n. 249/1997, in virtù della quale nelle controversie tra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze oppure fra soggetti autorizzati o destinatari di licenze fra loro “non può proporsi ricorso in sede giurisdizionale fino a che non sia stato esperito un tentativo di conciliazione da ultimare entro trenta giorni dalla proposizione dell’istanza” all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. L’unica eccezione è tuttavia costituita dai provvedimenti cautelari: in particolare, il mancato esperimento del predetto tentativo non preclude la concessione dei medesimi provvedimenti. Ciò perché la tutela cautelare, “in quanto preordinata ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, in particolare a non lasciare vanificato l'accertamento del diritto, è uno strumento fondamentale e inerente a qualsiasi sistema processuale, anche indipendentemente da una previsione espressa (Corte di giustizia delle Comunità Europee, sentenza del 19 giugno 1990, causa C-213/89, Factortame)”.
3. Segue: la conciliazione obbligatoria e la sua compatibilità con la legislazione U.E.
Dell’anzidetta disposizione (art. 1, co. 11, l. n. 249, cit.) si è occupata recentemente anche la Corte di giustizia europea (Quarta Sezione, sentenza 18 marzo 2010, C-317/08, C-318/08, C-319/08, C-320/08[25]): in particolare, essa veniva investita della domanda di pronuncia pregiudiziale con riguardo all’interpretazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva rispetto a una normativa (quella italiana, appunto) che prevedeva – come visto – un tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale, come condizione di procedibilità dei ricorsi giurisdizionali di cui al precedente capoverso. Secondo il Giudice di Lussemburgo, il fatto che una normativa nazionale “non solo abbia introdotto una procedura di conciliazione extragiudiziale, ma abbia per di più reso obbligatorio il ricorso a quest’ultima, prima del ricorso ad un organo giurisdizionale, non è tale da pregiudicare la realizzazione dell’obiettivo” (Punto 45), quale “una risoluzione equa e tempestiva delle controversie in cui sono coinvolti i consumatori” (Punto 38). Al contrario, una normativa del genere, proprio perché “garantisce il carattere sistematico del ricorso ad una procedura extragiudiziale di risoluzione delle controversie, tende a rafforzare l’effetto utile della direttiva” (Punto 45, ultimo capoverso), contemperandolo con “il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva” (Punto 46): invero, essa “non è tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai singoli[26]” (Punto 53). Ciò che conta – continua la Corte di giustizia – è che la procedura “non conduca ad una decisione vincolante per le parti, non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione dei diritti in questione e non generi costi, ovvero generi costi ingenti, per la parti…e sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone” (si v. Dispositivo). In sintesi: alla luce della giurisprudenza, sia della Corte costituzionale (supra n. 2), sia della Corte di giustizia europea, l’art. 5, d.lgs. n. 28, cit. non sembrerebbe contrastare con il diritto di azione (né con la legislazione dell’U.E.), come, per converso, ritiene il T.A.R. Lazio: invero, le decisioni richiamate – tutte concernenti uno “speculare” tentativo obbligatorio di conciliazione, in materia di licenziamenti, controversie private, pubblico impiego e telecomunicazioni – inducono a ritenere per la conformità della disposizione impugnata con l’art. 24, primo comma, Cost.[27].
4. Sempre sull’obbligatorietà della mediazione: il presunto eccesso di delega
Secondo il giudice amministrativo l’art. 5 del Decreto sarebbe altresì illegittimo con riguardo a un ulteriore profilo: a suo dire si sarebbe verificato un eccesso di delega[28], con conseguente violazione degli artt. 76 e 77 Cost., giacché il decreto aveva previsto l’obbligatorietà della mediazione, senza che ciò fosse tuttavia stabilito nella legge delega[29]. Tale argomentazione contrasta tuttavia con un puntuale pronunciamento della Corte costituzionale. In primo luogo, nella già richiamata decisione n. 276/2000 (supra n. 2) veniva sollevata una questione pressoché identica: anche allora, al pari di oggi, la legge delega (nella specie, l’art. 11, comma 4, lett. g), l. n. 59/1997) non prevedeva l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, ma ciononostante la Corte costituzionale rigettò la questione. Ciò in ragione del fatto che i principi e i criteri direttivi, secondo la costante giurisprudenza, sono sempre “da ricostruire tenendo conto del complessivo contesto normativo e delle finalità che ispirano la delega”: nella specie, quest’ultima faceva parte di un ampio disegno di riforma della pubblica amministrazione, con importanti ricadute sul riparto della giurisdizione fra il giudice ordinario e il giudice amministrativo. Sicché nel passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria delle controversie sul rapporto di impiego “privatizzato” con le pubbliche amministrazioni, vi era stata “la messa a punto di strumenti idonei ad agevolare a composizione stragiudiziale delle controversie”, allo scopo di limitare il ricorso al giudice ordinario “alle sole ipotesi di inutile sperimentazione del tentativo di conciliazione” (Punto 2.3. del Considerato in diritto). In seconda battuta – e venendo al “merito” della questione – quali sono, mutatis mutandis, le finalità che si propone di perseguire l’art. 60, l. n. 69, cit., cioè la legge delega da cui è scaturito l’art. 5 del d.lgs. n. 28, cit.? Secondo il T.A.R. Lazio “nessuno dei criteri e principi direttivi previsti e nessuna altra disposizione dell’articolo assume espressamente l’intento deflattivo del contenzioso giurisdizionale o configura l’istituto della mediazione quale fase pre-processuale obbligatoria”. Né, secondo il giudice rimettente, detto tema potrebbe costituire “un mero sviluppo delle scelte effettuate in sede di delega, né una fisiologica attività di riempimento o di coordinamento normativo”, con la conseguenza che, “tenendo conto del silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico tempo, occorrerebbe almeno che l’art. 60 lasci trasparire elementi in tal senso univoci e concludenti” (Punto 13.1. dell’ordinanza). Appare invece che l’intento deflattivo si ricavi non tanto (o non solo) dalla legge delega, bensì da un compiuto esame dei lavori preparatori della medesima: in proposito nella seduta delle Commissioni riunite I (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) e V (Bilancio) della Camera dei deputati del 22 settembre 2008 veniva approvata la proposta di parere del relatore in cui veniva sottolineato come gli interventi legislativi (tra cui l’istituzione della mediazione civile e commerciale) fossero, “singolarmente e nel loro complesso, apprezzabili, poiché idonei a migliorare l’efficienza della giustizia civile, nonché a determinare una chiara ed evidente accelerazione dello svolgimento del processo civile e, quindi, della sua conclusione” (Allegati 1 e 2). A ciò si aggiunge la circostanza che una proposta di parere di identico contenuto, quantomeno con riguardo al profilo della mediazione, veniva altresì presentata (e, all’unanimità, fatta propria dalla Commissione) da parte di un Deputato (nella specie, l’On. Di Pietro), il cui partito non aveva conferito la fiducia alla compagine governativa allora in carica (Allegato 5). I medesimi concetti venivano ribaditi anche nella discussione svoltasi in Assemblea il 16 marzo 2009: in quella sede, l’On. Bernini, che fungeva da Relatore per la I Commissione, ribadiva come il legislatore stesse “mostrando una particolare sensibilità…per strumenti di velocizzazione e deflazione del contenziosi praticati con successo in altri ordinamenti di settore”, tra i quali la mediazione e la conciliazione. Tali istituti, a dire della relatrice, producevano i loro effetti “fuori e dentro il processo, sia in una fase precontenziosa, per fermare il conflitto ad uno stadio per quanto possibile basso, sia come deterrente alla prosecuzione di un processo già radicato”. In conclusione: la circostanza che la legge delega non abbia previsto l’obbligatorietà della mediazione, secondo il nostro parere, non dovrebbe costituire un fattore decisivo a favore della tesi dell’incostituzionalità: invero, il fatto che la Corte costituzionale abbia rigettato una questione pressoché identica, nonché la finalità deflattiva perseguita dal legislatore (che si evince, peraltro con assoluta chiarezza, dall’analisi dei lavori parlamentari) rappresentano argomenti idonei a scongiurare la presunta violazione degli artt. 76 e 77 Cost.[30]. 5. Postilla. L’introduzione del contributo unificato per i ricorsi avverso le sanzioni amministrative per violazioni del C.d.s. ex art. 2, comma 212, l. n. 191/2009 (Legge Finanziaria 2010) e la sua compatibilità con il diritto di azione Per completezza si sottolinea che anche la materia dei ricorsi avverso le sanzioni amministrative per violazioni del C.d.s. e, segnatamente, l’introduzione del contributo unificato per l’esperimento dei medesimi ha suscitato non poche perplessità, sempre con riguardo alla paventata impossibilità di agire in giudizio ex art. 24, primo comma, Cost. Più in particolare, in materia di spese di giustizia, l’art. 2, comma 212, l. 23 dicembre 2009, n. 191 (c.d. Legge Finanziaria 2010) ha introdotto alcune modifiche al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115: nella specie, a partire dal 1 gennaio 2010, anche i procedimenti ex art. 23, l. 24 novembre 1981, n. 689 (tra i quali, appunto, le opposizioni avverso i verbali di violazione al C.d.S.) sono assoggettati al pagamento del contributo unificato, il cui importo è di (almeno) 37 €.[31]. In buona sostanza, dal 1 gennaio 2010, proporre ricorso innanzi al Giudice di pace, allo scopo di impugnare anche la più banale delle contravvenzioni, costa al cittadino non meno di 37 €. E’ evidente che il legislatore, attraverso siffatto provvedimento, si fosse prefisso come scopo quello di disincentivare il più possibile il contenzioso in un settore che, negli ultimi anni, ha avuto una crescita esponenziale. Si sarebbe potuto obiettare che la scelta operata giammai poteva essere idonea allo scopo, anzi che avrebbe avuto quale unica conseguenza di “traslare” il contenzioso dall’ambito giurisdizionale a quello amministrativo: in buona sostanza, il presunto trasgressore avrebbe utilizzato maggiormente il ricorso al Prefetto ex art. 203 C.d.s., giacché per detto rimedio non era (e non è) previsto alcun incombente di carattere pecuniario; e, con ragionevole probabilità, avrebbe avuto anche maggiori possibilità di successo, non foss’altro che l’incremento dei ricorsi avrebbe, di fatto, comportato molteplici accoglimenti per decorrenza dei termini, in virtù del principio del silenzio-assenso ex art. 204, comma 1-bis, C.d.s.[32]. Tutto ciò però non si è verificato, anche perché le Sezioni unite della Cassazione, con una decisione assai discutibile, hanno ridimensionato lo strumento amministrativo de quo. Sul punto è bene fare chiarezza. Come noto, in caso di rigetto del ricorso, il Prefetto, ai sensi dell’art. 204, comma 1, C.d.s., irroga, attraverso un’ordinanza-ingiunzione, il pagamento di una somma determinata, nel limite del doppio del minimo edittale. Tuttavia, secondo le Sezioni unite “i vizi motivazionali dell’ordinanza-ingiunzione non comportano la nullità del provvedimento e quindi l’insussistenza del diritto di credito derivante dalla violazione commessa, in quanto il giudizio susseguente investe il rapporto e non l’atto e, quindi sussiste la cognizione piena del giudice, che potrà (e dovrà) valutare le deduzioni difensive proposte in sede amministrativa e in ipotesi non esaminate o non motivatamente respinte, se riproposte nei motivi di opposizione e decidere su di esse con pienezza di poteri sia che le stesse investano questioni di diritto o questioni di fatto”[33]. In buona sostanza, la giurisprudenza di legittimità ha deciso di esonerare l’organo amministrativo (nella specie, il Prefetto) dall’obbligo legislativamente previsto dall’art. 3, l. n. 241/1990, che prevede la necessità di motivare il provvedimento amministrativo, ben potendo il trasgressore, secondo la Cassazione, far valere interamente le sue ragioni attraverso il (successivo) ricorso giurisdizionale[34]. Alla luce di quanto asserito, il presunto trasgressore, di fronte a una sanzione amministrativa per violazione del C.d.s. si trova di fronte a una sorta di “doppio binario”: a) può proporre ricorso all’autorità prefettizia, consapevole che l’eventuale provvedimento di condanna, alla luce della predetta giurisprudenza, non dovrà necessariamente essere motivato; con la conseguenza che l’amministrazione può ben utilizzare dei moduli prestampati e uniformi privi di alcun riferimento al caso prospettato con il ricorso. E’ evidente che avere, di fatto, autorizzato le amministrazioni a raddoppiare l’importo delle sanzioni senza in alcun modo motivare le ragioni di tale scelta ha comportato (e comporta) un disincentivo all’utilizzo del più snello ed economico rimedio amministrativo; b) è di fatto “costretto”, specie alla luce di quanto asserito nel capoverso sub a), a proporre immediatamente ricorso innanzi all’autorità giudiziaria, versando, in tal caso, una somma di denaro, quale appunto il contributo unificato. Nei riguardi di tale ultimo istituto venivano tuttavia sollevate alcune questioni di costituzionalità: più in particolare, a dire dei giudici rimettenti, il contributo unificato avrebbe comportato, tra le altre cose, “un ostacolo all’accesso alla giurisdizione”, con conseguente violazione dell’art. 24, primo comma, Cost., considerato che numerose sanzioni amministrative prevedevano (e prevedono) il pagamento di somme inferiori o uguali al contributo minimo (di 37 €.) e, dunque, si sarebbe vanificata la tutela giurisdizionale offerta con l’annullamento di dette sanzioni; vale a dire che, in caso di compensazione delle spese di lite, il ricorrente vittorioso avrebbe subito una depauperazione, seppur modesta, del proprio patrimonio; mentre il mancato pagamento del contributo, secondo i Giudici di pace, avrebbe precluso la (successiva) tutela giurisdizionale, al pari di quanto era avvenuto con la disciplina previgente (nella specie, il comma 3 dell’art. 204-bis C.d.s., disposizione introdotta dall’art. 4, comma 1-septies, d.l. n. 151/2003, aggiunto dalla legge di conversione n. 214/2003), la quale, prima di essere dichiarata incostituzionale con sentenza n. 114/2004[35], prevedeva – a carico di chi volesse proporre ricorso avverso il verbale di contestazione d’infrazione – l’onere di “versare, a pena di inammissibilità del ricorso, una somma pari alla metà del massimo edittale della sanzione inflitta dall’organo accertatore”. Investita delle questioni, la Corte costituzionale mostrava tuttavia di non condividere le predette argomentazioni, giungendo a dichiararle manifestamente inammissibili (ord. n. 143/2011): ciò in ragione del fatto che il mancato versamento del contributo unificato, a differenza della normativa dell’anno 2003, non costituiva (più) una condizione di ammissibilità o di procedibilità del giudizio, non comportando, dunque, alcuna menomazione della facoltà di agire in giudizio ex art. 24, primo comma, Cost., bensì la mera attivazione, da parte della cancelleria del magistrato, depositaria dell’atto introduttivo del giudizio, della procedura per la riscossione coattiva del contributo stesso ex artt. 16, 247 e 249, d.P.R. n. 115, cit.[36], oltre che l’applicazione della sanzione ex art. 71, d.P.R. n. 131/1986[37].
-----------------------------------------------------------------------------------------------------[1] Tra i primi commenti si v. M. Clarich, L’Avvocatura stretta nella crisi economica e alle prese con molte “partite aperte”, in Gui. dir., 2010, n. 12, p. 10 ss. [2] Quali “condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari”, oltre che, come asserito, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti. [3] Secondo l’art. 1, lett. a), per “mediazione” si intende “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”. L’accezione “conciliazione” invece si riferisce alla “composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione” ex art. 1, lett. c). Secondo L. Dittrich, Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, in Riv. dir. proc., 2010, p. 576 il termine “mediazione” identifica, dunque, il procedimento per giungere, ove possibile, alla “conciliazione”. [4] Più in particolare, esso si riferisce alla determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché all’approvazione delle indennità spettanti agli organismi. [5] Su cui si v. L. Dittrich, Il procedimento, cit., p. 594, il quale se da una parte ha salutato con favore l’introduzione dell’istituto in esame, dall’altra non ha condiviso l’introduzione dell’obbligatorietà della mediazione. A suo dire (si noti la sottile ironia), “la colpa…è di Voltaire, che nel 1742 lodò senza riserve l’istituto olandese dei faiseurs de paix, le cui caratteristiche erano l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione e il divieto per gli avvocati di assistere le parti. Da quelle righe ebbe origine una ininterrotta sequenza di fallimentari tentativi obbligatori di conciliazione, che spaziano dalla legge rivoluzionaria francese n. 16 del 1790 sull’organizzazione giudiziaria per giungere infine all’oggi abrogato art. 412-bis in materia di lavoro”. Alla luce “dei suoi illustri, e pur fallimentari precedenti”, l’A. è dell’avviso che nulla lascia presagire che il tentativo obbligatorio ex art. 5 possa avere migliore fortuna. [6] Per completezza si consideri che anche l’art. 16 del Decreto (in materia di organismi di mediazione) era ritenuto costituzionalmente illegittimo. Sul punto si permetta di rinviare a http://www.diritto24.ilsole24ore.com/istituzioniAssociazioni/2011/03/oua-le-sette-questioni-di-incostituzionalita-del-dlgs-282010.html. [7] In questo senso anche G. Scarselli, La nuova mediazione e conciliazione: le cose che non vanno, in For. it., 2010, V, c. 146 ss. secondo cui vi sarebbe altresì contrasto con le direttive comunitarie, nonché, in maniera meno netta, G. Canale, Il decreto legislativo in materia di mediazione, in Riv. dir. proc., 2010, p. 624 [8] Per completezza si veda il testo integrale dell’ordinanza, in http://www.giustizia-amministrativa.it/DocumentiGA/Roma/Sezione%201/2010/201010937/Provvedimenti/201103202_08.XML. Tra i primi commenti al provvedimento si v. D. Ponte, Il Tar Lazio rimanda alla Corte costituzionale il regolamento sulla “giustizia alternativa”. Continua il braccio di ferro sul nuovo istituto segnato un punto a favore di chi lo avversa, in Guid. dir., 2011, 17, p. 29 ss.; N. Soldati, Il Tar Lazio rimanda alla Corte costituzionale il regolamento sulla “giustizia alternativa”. Al vaglio l’obbligo del “previo esperimento”, ivi, 2011, p. 32 ss.; G. Finocchiaro, I primi dubbi di legittimità costituzionale del decreto legislativo in materia di mediazione, in Gius. civ., 2011, p. 1379 ss.; I. Pagni, La mediazione dinanzi alla Corte Costituzionale dopo l'ordinanza del TAR Lazio n. 3202/2011, in Corr. giur., 2011, p. 995 ss.; S. Viotti, Le questioni di legittimità costituzionale sulla mediazione civile e commerciale, in Giur. mer., 2011, p. 1944 ss.; C. Perago, Spunti di riflessione sulla compatibilità costituzionale della mediazione obbligatoria, in Resp. civ. prev., 2011, p. 1877 ss. [9] La si v. in For. it., 1992, I, c. 1023, con nota di G. Costantino. [10] Essa viene in essere quando la proponibilità della domanda è subordinata a determinate formalità previste dalla legge. Secondo F.P. Luiso, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 1999, I, pp. 380-383, la giurisdizione condizionata non va a contrastare con il diritto di azione purché vi sia l’indicazione di un periodo massimo di durata della fase conciliativa, oltre che l’anticipazione degli effetti della domanda giudiziale. [11] Sull’art. 24 Cost. si v. per tutti A. Police, Commento all’art. 24 della Costituzione, in Commentario alla Costituzione (a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti), I, Torino, 2006, p. 501 ss. [12] La dottrina processualista configura l’ordinamento e la giurisdizione in termini “statici” ovvero “dinamici”. La concezione statica si deve a G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, ristampa, Napoli, 1982, il quale era dell’avviso che “il processo serve non già a rendere concreta la volontà della legge, poiché questa volontà si è già formata come volontà concreta anteriore al processo, ma ad accertare quale sia la volontà di legge ed attuarla”. In altri termini, secondo tale autorevole tesi, il processo avrebbe dovuto soltanto verificare la sussistenza o meno del diritto. Propendono invece per una ricostruzione dinamica S. Satta, C. Punzi, Diritto processuale civile, Cedam, Padova, 2000, p. 11, per i quali “l’ordinamento non vive nell’astratto, bensì nel concreto, e questa concretezza trova ad ogni istante nell’azione umana che ad esso si adegua, e in quanto si adegua. Di qui l’inscindibilità assoluta dell’ordinamento dall’azione, più semplicemente unità dell’ordinamento, perché se è vero che l’ordinamento senza azione è mero flatus vocis, non è meno vero che l’azione senza ordinamento è puro fatto, privo di ogni rilevanza”. In buona sostanza, secondo questo autorevole orientamento “l’ordinamento è un perpetuo divenire attraverso l’azione”. [13] L’inscindibilità diritto-azione è stata affermata in modo pieno sin dalla decisione della Corte costituzionale n. 7 del 1962, in cui, con estrema nitidezza, si è affermato che “il potere di esperimento dell’azione giudiziaria, quale è garantito dall’art. 24 Cost., ha a suo presupposto il possesso in chi l’esercita della titolarità di un diritto o di un interesse legittimo, cioè di una situazione giuridica subiettiva di vantaggio, di carattere sostanziale, il cui riconoscimento, in caso di controversia sia posto ad oggetto della pretesa fatta valere in giudizio” (la si v. in Giur. cost., 1962, p. 73 ss., punto 5 del Considerato in diritto, con note di C. Esposito, La Corte costituzionale come giudice nella “non arbitrarietà” delle leggi, p. 78 ss. e M. Giorgianni, Le norme sull’affitto con canone in cereali. Controllo di costituzionalità o di “ragionevolezza” delle norme speciali?, p. 82 ss. Con la conseguenza che se “difetta positivamente la titolarità del diritto sostantivo che si vorrebbe far valere in giudizio” non si può invocare a giusta ragione il diritto processuale d’azione” (così Corte cost., 25 giugno 1981, n. 140, punto 6 del Considerato in diritto, ivi, 1981, p. 1348 ss., con nota di L. Carlassare, Dopo il monito al legislatore un invito ai giudici, p. 1353 ss.). [14] La si v. in Giur. cost., 1964, p. 586 ss., punto 3 del Considerato in diritto, con nota di C. Esposito, Onere del previo ricorso amministrativo e tutela giurisdizionale sui diritti, p. 590 ss., secondo la quale sono conformi a Costituzione le norme che subordinano, in casi determinati e per ragionevoli motivi, l'esercizio dell'azione giudiziaria all'esperimento di una previa procedura amministrativa. [15] Corte cost. n. 82/1992, cit., Punto 2 del Considerato in diritto. [16] Sul punto cfr. G. Armone, La mediazione civile: il procedimento, la competenza, la proposta, in Le soc., 2010, p. 627 secondo cui non sarebbero del tutto chiari i criteri utilizzati dalla Corte per distinguere tra le diverse ipotesi di filtri di accesso: a suo dire, le distinzioni usate dalla Corte assomiglierebbero a “paralogismi”, funzionali a mantenere in capo alla Corte un ampio margine di discrezionalità. [17] In senso simile si v. F. Murino, Prime considerazioni sulla mediazione nel sistema della tutela dei diritti, in Corr. mer., 2010, p. 594. Sul punto cfr. anche E. Fabiani, M. Leo, Prime riflessioni sulla “mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” di cui al d.lgs. n. 28/2010, in Riv. not., 2010, p. 893 ss.; P. Porreca, La mediazione e il processo civile: complementarietà e coordinamento, in Le soc., 2010, p. 634. [18] La si v. in For. it., 1972, I, c. 1172 ss. [19] La si v. in For. it., 1979, I, c. 2539 ss. [20] La disposizione è stata poi abrogata dall’art. 31, comma 9, l. n. 183/2010. [21] Su cui si v. la nota di L. De Angelis, E’ legittimo il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, in For. it., I, c. 2752 ss. [22] Anche siffatta disposizione è stata abrogata dall’art. 31, comma 9, l. n. 183, cit. [23] Su cui si v. M. Barbieri, La Corte costituzionale di fronte all’accertamento pregiudiziale sui contratti collettivi di lavoro pubblico: non tutti i problemi sono risolti, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2004, p. 123 ss. [24] Su cui si v. T. Guarnier, Ragionevolezza, interpretazione e dialogo tra giudici. Come la Corte risponde alle esigenze di flessibilità dell’ordinamento, in Giur. it., 2008, c. 1099 ss. [25] Su cui si v. i commenti di G. Finocchiaro, Un’interpretazione dei giudici di Lussemburgo in linea con i parametri costituzionali, in Guida dir., 2010, 14; nonché G. Armone, P. Porreca, La mediazione civile nel sistema costituzional-comunitario, in For. it., 2010, IV, c. 372 ss. [26] Si tratta dello stesso principio sancito dalla Corte costituzionale, sicché il dialogo multilivello tra le Corti apparirebbe in ottima salute, in tal senso G. Finocchiaro, Un’interpretazione, cit., p. 32. [27] Propende per la legittimità costituzionale della condizione di procedibilità e, più generale, dell’art. 5 del Decreto anche R. Masoni, L’esercizio della delega in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali di cui al d.lgs. n. 28 del 2010, in Giur. mer., 2010, p. 1212 ss. [28] Tale istituto, secondo autorevole dottrina, ma non sempre secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, andrebbe distinto dal c.d. “difetto di delega”, che si ha quando il decreto legislativo, pur non violando alcun principio della delega, va a disciplinare materie escluse dall’ambito oggettivo della medesima, in tal senso L. Paladin, Commento agli artt. 76 e 77, in Commentario della Costituzione (a cura di G. Branca), Bologna-Roma, 1979, p. 30. [29] Sulla legge delega si v. per tutti F. Sorrentino, Le fonti del diritto italiano, 2009, p. 169 ss. [30] Secondo G. Dalfino, La giustizia civile alle prova della mediazione (a proposito del d.leg. 4 marzo 2010 n. 28). III. Mediazione, conciliazione e rapporti con il processo, in For. it., 2010, V, c. 144 invece l’eccesso di delega sarebbe confermato facendo riferimento alla lett. n) della legge n. 69, cit., il quale menziona il dovere dell’Avvocato di informare il cliente della possibilità, e non della necessità, di avvalersi del procedimento di mediazione, il quale dunque non potrebbe assolvere alla funzione di “filtro”. [31] Si intende far riferimento alle controversie il cui valore non supera 1.100 €., secondo quanto stabilisce l’art. 13, d.P.R. 30 maggio 2002, cit. All’inizio si prevedeva altresì il pagamento di una marca (pari a 8 €.), a titolo di rimborso forfettario delle spese processuali. Tra i primi commenti a questa normativa si v. R. Amoroso, Problemi applicativi a seguito della introduzione del contributo unificato per i ricorsi avverso le sanzioni amministrative per violazioni al Codice della Strada, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=48681, 11 gennaio 2010, il quale si sofferma, in particolare, su problemi di carattere procedurale (quale sia la misura del contributo quando il valore della causa non sia facilmente riscontrabile e, inoltre, quale debba essere il trattamento da applicare a un ricorso spedito, attraverso il servizio postale, anteriormente al 1 gennaio 2010, ma pervenuto all’ufficio dopo detta data). [32] Il quale prevede che “I termini di cui ai commi 1-bis e 2 dell'articolo 203 e al comma 1 del presente articolo sono perentori e si cumulano tra loro ai fini della considerazione di tempestività dell'adozione dell'ordinanza-ingiunzione. Decorsi detti termini senza che sia stata adottata l'ordinanza del prefetto, il ricorso si intende accolto”. [33] In tal senso Cass., Sez. un., 28 gennaio 2010, n. 1786, in questa rivista, 2010, fasc. 1, http://www.rivistagiuridica.aci.it/uploads/tx_userdoc/1786__01.pdf. Sulle critiche alla pronuncia in esame si permetta di rinviare al dettagliato contributo di G. Poli, Ordinanza ingiunzione del Prefetto e obbligo di motivazione in riferimento alle casistiche conseguenti alle infrazioni al Codice della strada, in questa rivista, 2010, fasc. 5, http://www.rivistagiuridica.aci.it/uploads/tx_userdoc/Ordinanza_ingiuzione_del_Prefetto_e_obbligo_di_motivazion_.pdf. [34] Come noto, contro l’ordinanza-ingiunzione è possibile esperire ricorso ex art. 205 C.d.s., tuttavia esso è assoggettato al versamento del contributo unificato, in quanto il procedimento, in tal caso, si svolge innanzi all’autorità giudiziaria. [35] La si v. in Giur. it., 2005, c. 458. Secondo la Corte, nel valutare l’idoneità di una tassa a ledere il diritto alla tutela giurisdizionale, occorre distinguere tra “oneri razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio”, la cui previsione non determina un ostacolo alla tutela giudiziaria, ma ne costituisce solo il costo, e quelli che invece “tendono alla soddisfazione di interessi del tutto estranei alle finalità predette”, i quali conducono al risultato “di precludere o ostacolare gravemente l’esperimento della tutela giurisdizionale”. [36] Ai sensi dell’art. 16 T.U. in caso di omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato, entro 30 giorni dal deposito del ricorso, a norma dell’art. 248 T.U., la cancelleria notifica alla parte, ai sensi dell’art. 137 c.p.c., l’invito al pagamento dovuto, quale risulta dal raffronto tra il valore della causa dichiarato e il corrispondente scaglione indicato dall’art. 13 T.U., con espressa avvertenza che si procederà a iscrizione a ruolo, con addebito degli interessi al saggio legale, in caso di mancato pagamento entro trenta giorni. [37] Esso stabilisce che se il valore definitivamente accertato, ridotto di un quarto, supera quello dichiarato, si applica la sanzione amministrativa dal 100 al 200% della maggiore imposta dovuta.
La direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione Europea ha disciplinato alcuni aspetti della mediazione civile e commerciale. Siffatta direttiva veniva recepita con la legge 18 giugno 2009, n. 69 recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile” e, in particolare, con l’art. 60, il legislatore nazionale delegava il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale (comma 1), nel rispetto e in coerenza con la normativa comunitaria e in conformità ai principi e criteri direttivi enunciati al comma 3 (comma 2). Tra questi ultimi si stabiliva che la mediazione avesse ad oggetto controversie su diritti disponibili, senza tuttavia “precludere l’accesso alla giustizia” (comma 3, lett. a)) e, in ogni caso, si prevedeva che il procedimento non potesse avere una durata eccedente i quattro mesi (comma 3, lett. q)). La delega in oggetto – che si prefiggeva lo scopo di ridurre il peso del contenzioso civile ordinario – è stata esercitata con il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28[1], il quale all’art. 5, comma 1, prevede che colui che intenda esercitare in giudizio un’azione relativa ad una serie di diritti (tra cui le domande di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti)[2] è tenuto preliminarmente a esperire il tentativo di mediazione[3] (primo periodo); il quale costituisce “condizione di procedibilità della domanda giudiziale” (secondo periodo); inoltre, “l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza (terzo periodo). Sempre il giudice ove rilevi che la mediazione non è stata esperita (oppure è già iniziata, ma non si è ancora conclusa) assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e, contestualmente, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’art. 6 (quarto e quinto periodo). Tale ultima disposizione fissa in quattro mesi la durata massima del procedimento di mediazione (comma 1) e specifica altresì che esso non è soggetto a sospensione feriale (comma 2)[4]. In seguito, con decreto 18 ottobre 2010, n. 180 il Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, ha adottato un regolamento attuativo, andando a disciplinare una serie di profili che, tuttavia, costituiranno oggetto della nostra analisi soltanto marginalmente. Di fronte a tale impianto normativo (che per le materie “condominio” ed “R.C. auto” ha subito un ritardo di 12 mesi, entrando in vigore soltanto il 21 marzo 2012) – che aveva suscitato più di qualche perplessità tra i primi commentatori[5] – gli organi rappresentativi degli interessi dell’Avvocatura (nella specie, l’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana, alcuni Consigli dell’Ordine, oltre che diverse associazioni collegate al mondo forense) proponevano due ricorsi al T.A.R. Lazio affinché il medesimo annullasse l’anzidetto d.m. n. 180 e, altresì, rimettesse alla Corte costituzionale la questione relativa al predetto art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28, cit. per presunta violazione degli artt. 24 e 76 Cost.[6]. Secondo i ricorrenti, l’art. 5, cit. – nel prevedere che l’esperimento del procedimento di mediazione fosse una “condizione di procedibilità”, rilevabile anche d’ufficio, della domanda giudiziale con riguardo alle materie di cui alla nota 1 – avrebbe precluso “l’accesso diretto alla giustizia” (andando dunque a violare l’art. 24, primo comma, Cost.), oltre che disatteso le previsioni della legge delega e, in particolare, il suddetto principio e criterio direttivo di cui alla lett. a). Inoltre, si riteneva che l’art. 5 fosse del pari incostituzionale, giacché il Governo aveva introdotto l’obbligatorietà della mediazione, senza che ciò fosse tuttavia previsto nella legge delega[7]. Investito dei ricorsi, il giudice amministrativo, dopo averli riuniti, mostrava di condividere le argomentazioni proposte dai ricorrenti; e, pertanto, decideva – con un provvedimento molto articolato (nella specie, l’ordinanza 12 aprile 2011, n. 3202[8]) – di trasmettere i relativi atti alla Corte costituzionale.
2. La conciliazione obbligatoria nella giurisprudenza costituzionale: il diritto di azione ex art. 24, primo comma, Cost. tra “condizione di procedibilità” e “condizione di proponibilità”
Secondo una lettura critica, le argomentazioni dei ricorrenti, seppur pregevoli, non possono essere condivise: invero, esse sembrerebbero contrastare con il costante orientamento espresso dalla Corte costituzionale in materia di conciliazione obbligatoria. I) Più in particolare, nella sentenza n. 82/1992[9], la Corte costituzionale ha ritenuto conforme a Costituzione il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 5, l. n. 108/1990 (Disciplina dei licenziamenti individuali): anch’esso – al pari dell’art. 5, d.lgs. n. 28, cit. – costituiva una “condizione di procedibilità dell’azione”, andando, dunque, a rappresentare un chiaro esempio di “giurisdizione condizionata[10]”, ma ciononostante non si poneva in contrasto con il diritto di azione di cui all’art. 24, primo comma, Cost.[11]. Sul punto, occorre premettere quanto segue. La disposizione costituzionale de qua stabilisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”: ciò significa che all’attribuzione della titolarità di un diritto (o di un interesse) si accompagna il riconoscimento del potere di farlo valere innanzi a un giudice in un procedimento giurisdizionale[12]. In altri termini: se una situazione soggettiva si sostanzia in un diritto soggettivo (oppure in un interesse legittimo), allora essa dovrebbe essere immediatamente azionabile in giudizio[13]. E poiché il predetto tentativo obbligatorio di conciliazione impediva, di fatto, una siffatta possibilità, si riteneva allora che andasse a violare proprio l’art. 24, primo comma, Cost. Tuttavia, tale ricostruzione non veniva accolta dalla Corte costituzionale, giacché il binomio diritto-azione non era (e non può essere) inteso in senso assoluto: invero, sin dalla sentenza n. 47 del 1964, la Corte ha avuto modo di affermare che l’art. 24, primo comma, Cost. “non impone una correlazione assoluta tra il sorgere del diritto e la sua azionabilità quando ricorrano esigenze di ordine generale e superiori finalità di giustizia”. E, comunque, ove sussistano dette circostanze, il legislatore è semplicemente “tenuto ad osservare il limite imposto dall’esigenza di non rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa ovvero di non differirla irrazionalmente o sine die[14]”. Pertanto, sulla base di queste premesse, la Corte costituzionale precisava che il diritto di azione “non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento”: invero, le limitazioni che tendono a evitare “l’abuso del diritto alla tutela giurisdizionale” o “ancor meglio, l’eccesso della giurisdizione, in vista di un interesse della stessa funzione giurisdizionale”, altro non rappresentano che la ragion d’essere della “giurisdizione condizionata[15]”, la quale, a sua volta, costituisce un’esplicazione del principio di economia processuale. Alla luce di quanto asserito emerge che il legislatore debba contemperare due principi: egli può certamente imporre oneri (in senso lato) all’esperimento dei rimedi giurisdizionali (si pensi alla previa proposizione di un ricorso amministrativo), oneri che vadano a salvaguardare gli “interessi generali”, tuttavia senza che il diritto di azione venga eccessivamente sacrificato, potendo la tutela giurisdizionale – al limite – essere procrastinata[16]. Diversamente, se l’art. 5, d.lgs. n. 28, cit. anziché come “condizione di procedibilità” della domanda fosse stato invece previsto come “condizione di proponibilità” della stessa, non si sarebbe potuto realizzare quel punto di equilibrio tra l’effettiva garanzia dell’azione e il limite al suo condizionamento. Invero, mentre la condizione di procedibilità comporta che il giudice, dopo aver verificato che il tentativo di mediazione non è stato esperito, fissi alle parti un termine di quindici giorni per la presentazione della domanda (di mediazione) secondo quanto prevede l’art. 5, per cui la (eventuale) tutela giurisdizionale comunque si può sempre realizzare non pronunciando il giudice un’absolutio ad instantia con rigetto in rito della domanda[17]; in senso contrario, una qualsivoglia condizione di proponibilità, in un caso analogo, avrebbe precluso ogni attività giudiziale: a titolo esemplificativo, si pensi alla declaratorie di incostituzionalità nei riguardi dell’art. 10, r.d. n. 148/1931 nella parte cui sanciva l’improponibilità, anziché l’improcedibilità, dell’azione giudiziaria in caso di mancata o tardiva presentazione del reclamo gerarchico rispettivamente per le controversie di lavoro aventi per oggetto diritti patrimoniali (sent. n. 57/1972[18]) e per quelle concernenti ogni altro diritto non esclusivamente patrimoniale (sent. n. 93/1979[19]). II) L’istituto del tentativo obbligatorio di conciliazione era previsto anche nell’ambito delle controversie di lavoro tra privati e, segnatamente, all’art. 412-bis c.p.c.[20], secondo cui l’espletamento del tentativo medesimo costituiva “condizione di procedibilità della domanda” (primo comma). Con la sentenza n. 276/2000[21], la Corte costituzione, adita per presunta violazione del diritto di azione, rigettava – anche sulla scorta della precedente pronuncia del 1992 – le censure dei giudici rimettenti, specificando, tra l’altro, che il tentativo obbligatorio di conciliazione “tende a soddisfare l’interesse generale sotto un duplice profilo: da un lato, evitando che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento; dall’altro favorendo la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quella conseguita attraverso il processo” (Punto 3.4. del Considerato in diritto). III) L’istituto in esame caratterizzava anche le controversie di lavoro pubblico: in particolare l’art. 65, T.U. n. 165/2001[22] faceva un esplicito rinvio alle disposizioni previste dall’art. 410 c.p.c. in materia di controversie di lavoro tra privati (supra n. II). Anche in ordine a detta disposizione veniva lamentata una presunta violazione dell’art. 24, primo comma, Cost. Tuttavia, la Corte costituzionale, con sentenza n. 199/2003[23] non aveva difficoltà a respingere la questione, poiché la norma in esame rinviava ad altra disposizione, ritenuta – prima di allora – conforme a Costituzione. IV) Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca anche la sentenza n. 403/2007[24], in cui la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata una questione sollevata nei riguardi dell’art. 1, comma 11, l. n. 249/1997, in virtù della quale nelle controversie tra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze oppure fra soggetti autorizzati o destinatari di licenze fra loro “non può proporsi ricorso in sede giurisdizionale fino a che non sia stato esperito un tentativo di conciliazione da ultimare entro trenta giorni dalla proposizione dell’istanza” all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. L’unica eccezione è tuttavia costituita dai provvedimenti cautelari: in particolare, il mancato esperimento del predetto tentativo non preclude la concessione dei medesimi provvedimenti. Ciò perché la tutela cautelare, “in quanto preordinata ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, in particolare a non lasciare vanificato l'accertamento del diritto, è uno strumento fondamentale e inerente a qualsiasi sistema processuale, anche indipendentemente da una previsione espressa (Corte di giustizia delle Comunità Europee, sentenza del 19 giugno 1990, causa C-213/89, Factortame)”.
3. Segue: la conciliazione obbligatoria e la sua compatibilità con la legislazione U.E.
Dell’anzidetta disposizione (art. 1, co. 11, l. n. 249, cit.) si è occupata recentemente anche la Corte di giustizia europea (Quarta Sezione, sentenza 18 marzo 2010, C-317/08, C-318/08, C-319/08, C-320/08[25]): in particolare, essa veniva investita della domanda di pronuncia pregiudiziale con riguardo all’interpretazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva rispetto a una normativa (quella italiana, appunto) che prevedeva – come visto – un tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale, come condizione di procedibilità dei ricorsi giurisdizionali di cui al precedente capoverso. Secondo il Giudice di Lussemburgo, il fatto che una normativa nazionale “non solo abbia introdotto una procedura di conciliazione extragiudiziale, ma abbia per di più reso obbligatorio il ricorso a quest’ultima, prima del ricorso ad un organo giurisdizionale, non è tale da pregiudicare la realizzazione dell’obiettivo” (Punto 45), quale “una risoluzione equa e tempestiva delle controversie in cui sono coinvolti i consumatori” (Punto 38). Al contrario, una normativa del genere, proprio perché “garantisce il carattere sistematico del ricorso ad una procedura extragiudiziale di risoluzione delle controversie, tende a rafforzare l’effetto utile della direttiva” (Punto 45, ultimo capoverso), contemperandolo con “il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva” (Punto 46): invero, essa “non è tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai singoli[26]” (Punto 53). Ciò che conta – continua la Corte di giustizia – è che la procedura “non conduca ad una decisione vincolante per le parti, non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione dei diritti in questione e non generi costi, ovvero generi costi ingenti, per la parti…e sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone” (si v. Dispositivo). In sintesi: alla luce della giurisprudenza, sia della Corte costituzionale (supra n. 2), sia della Corte di giustizia europea, l’art. 5, d.lgs. n. 28, cit. non sembrerebbe contrastare con il diritto di azione (né con la legislazione dell’U.E.), come, per converso, ritiene il T.A.R. Lazio: invero, le decisioni richiamate – tutte concernenti uno “speculare” tentativo obbligatorio di conciliazione, in materia di licenziamenti, controversie private, pubblico impiego e telecomunicazioni – inducono a ritenere per la conformità della disposizione impugnata con l’art. 24, primo comma, Cost.[27].
4. Sempre sull’obbligatorietà della mediazione: il presunto eccesso di delega
Secondo il giudice amministrativo l’art. 5 del Decreto sarebbe altresì illegittimo con riguardo a un ulteriore profilo: a suo dire si sarebbe verificato un eccesso di delega[28], con conseguente violazione degli artt. 76 e 77 Cost., giacché il decreto aveva previsto l’obbligatorietà della mediazione, senza che ciò fosse tuttavia stabilito nella legge delega[29]. Tale argomentazione contrasta tuttavia con un puntuale pronunciamento della Corte costituzionale. In primo luogo, nella già richiamata decisione n. 276/2000 (supra n. 2) veniva sollevata una questione pressoché identica: anche allora, al pari di oggi, la legge delega (nella specie, l’art. 11, comma 4, lett. g), l. n. 59/1997) non prevedeva l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, ma ciononostante la Corte costituzionale rigettò la questione. Ciò in ragione del fatto che i principi e i criteri direttivi, secondo la costante giurisprudenza, sono sempre “da ricostruire tenendo conto del complessivo contesto normativo e delle finalità che ispirano la delega”: nella specie, quest’ultima faceva parte di un ampio disegno di riforma della pubblica amministrazione, con importanti ricadute sul riparto della giurisdizione fra il giudice ordinario e il giudice amministrativo. Sicché nel passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria delle controversie sul rapporto di impiego “privatizzato” con le pubbliche amministrazioni, vi era stata “la messa a punto di strumenti idonei ad agevolare a composizione stragiudiziale delle controversie”, allo scopo di limitare il ricorso al giudice ordinario “alle sole ipotesi di inutile sperimentazione del tentativo di conciliazione” (Punto 2.3. del Considerato in diritto). In seconda battuta – e venendo al “merito” della questione – quali sono, mutatis mutandis, le finalità che si propone di perseguire l’art. 60, l. n. 69, cit., cioè la legge delega da cui è scaturito l’art. 5 del d.lgs. n. 28, cit.? Secondo il T.A.R. Lazio “nessuno dei criteri e principi direttivi previsti e nessuna altra disposizione dell’articolo assume espressamente l’intento deflattivo del contenzioso giurisdizionale o configura l’istituto della mediazione quale fase pre-processuale obbligatoria”. Né, secondo il giudice rimettente, detto tema potrebbe costituire “un mero sviluppo delle scelte effettuate in sede di delega, né una fisiologica attività di riempimento o di coordinamento normativo”, con la conseguenza che, “tenendo conto del silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico tempo, occorrerebbe almeno che l’art. 60 lasci trasparire elementi in tal senso univoci e concludenti” (Punto 13.1. dell’ordinanza). Appare invece che l’intento deflattivo si ricavi non tanto (o non solo) dalla legge delega, bensì da un compiuto esame dei lavori preparatori della medesima: in proposito nella seduta delle Commissioni riunite I (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) e V (Bilancio) della Camera dei deputati del 22 settembre 2008 veniva approvata la proposta di parere del relatore in cui veniva sottolineato come gli interventi legislativi (tra cui l’istituzione della mediazione civile e commerciale) fossero, “singolarmente e nel loro complesso, apprezzabili, poiché idonei a migliorare l’efficienza della giustizia civile, nonché a determinare una chiara ed evidente accelerazione dello svolgimento del processo civile e, quindi, della sua conclusione” (Allegati 1 e 2). A ciò si aggiunge la circostanza che una proposta di parere di identico contenuto, quantomeno con riguardo al profilo della mediazione, veniva altresì presentata (e, all’unanimità, fatta propria dalla Commissione) da parte di un Deputato (nella specie, l’On. Di Pietro), il cui partito non aveva conferito la fiducia alla compagine governativa allora in carica (Allegato 5). I medesimi concetti venivano ribaditi anche nella discussione svoltasi in Assemblea il 16 marzo 2009: in quella sede, l’On. Bernini, che fungeva da Relatore per la I Commissione, ribadiva come il legislatore stesse “mostrando una particolare sensibilità…per strumenti di velocizzazione e deflazione del contenziosi praticati con successo in altri ordinamenti di settore”, tra i quali la mediazione e la conciliazione. Tali istituti, a dire della relatrice, producevano i loro effetti “fuori e dentro il processo, sia in una fase precontenziosa, per fermare il conflitto ad uno stadio per quanto possibile basso, sia come deterrente alla prosecuzione di un processo già radicato”. In conclusione: la circostanza che la legge delega non abbia previsto l’obbligatorietà della mediazione, secondo il nostro parere, non dovrebbe costituire un fattore decisivo a favore della tesi dell’incostituzionalità: invero, il fatto che la Corte costituzionale abbia rigettato una questione pressoché identica, nonché la finalità deflattiva perseguita dal legislatore (che si evince, peraltro con assoluta chiarezza, dall’analisi dei lavori parlamentari) rappresentano argomenti idonei a scongiurare la presunta violazione degli artt. 76 e 77 Cost.[30]. 5. Postilla. L’introduzione del contributo unificato per i ricorsi avverso le sanzioni amministrative per violazioni del C.d.s. ex art. 2, comma 212, l. n. 191/2009 (Legge Finanziaria 2010) e la sua compatibilità con il diritto di azione Per completezza si sottolinea che anche la materia dei ricorsi avverso le sanzioni amministrative per violazioni del C.d.s. e, segnatamente, l’introduzione del contributo unificato per l’esperimento dei medesimi ha suscitato non poche perplessità, sempre con riguardo alla paventata impossibilità di agire in giudizio ex art. 24, primo comma, Cost. Più in particolare, in materia di spese di giustizia, l’art. 2, comma 212, l. 23 dicembre 2009, n. 191 (c.d. Legge Finanziaria 2010) ha introdotto alcune modifiche al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115: nella specie, a partire dal 1 gennaio 2010, anche i procedimenti ex art. 23, l. 24 novembre 1981, n. 689 (tra i quali, appunto, le opposizioni avverso i verbali di violazione al C.d.S.) sono assoggettati al pagamento del contributo unificato, il cui importo è di (almeno) 37 €.[31]. In buona sostanza, dal 1 gennaio 2010, proporre ricorso innanzi al Giudice di pace, allo scopo di impugnare anche la più banale delle contravvenzioni, costa al cittadino non meno di 37 €. E’ evidente che il legislatore, attraverso siffatto provvedimento, si fosse prefisso come scopo quello di disincentivare il più possibile il contenzioso in un settore che, negli ultimi anni, ha avuto una crescita esponenziale. Si sarebbe potuto obiettare che la scelta operata giammai poteva essere idonea allo scopo, anzi che avrebbe avuto quale unica conseguenza di “traslare” il contenzioso dall’ambito giurisdizionale a quello amministrativo: in buona sostanza, il presunto trasgressore avrebbe utilizzato maggiormente il ricorso al Prefetto ex art. 203 C.d.s., giacché per detto rimedio non era (e non è) previsto alcun incombente di carattere pecuniario; e, con ragionevole probabilità, avrebbe avuto anche maggiori possibilità di successo, non foss’altro che l’incremento dei ricorsi avrebbe, di fatto, comportato molteplici accoglimenti per decorrenza dei termini, in virtù del principio del silenzio-assenso ex art. 204, comma 1-bis, C.d.s.[32]. Tutto ciò però non si è verificato, anche perché le Sezioni unite della Cassazione, con una decisione assai discutibile, hanno ridimensionato lo strumento amministrativo de quo. Sul punto è bene fare chiarezza. Come noto, in caso di rigetto del ricorso, il Prefetto, ai sensi dell’art. 204, comma 1, C.d.s., irroga, attraverso un’ordinanza-ingiunzione, il pagamento di una somma determinata, nel limite del doppio del minimo edittale. Tuttavia, secondo le Sezioni unite “i vizi motivazionali dell’ordinanza-ingiunzione non comportano la nullità del provvedimento e quindi l’insussistenza del diritto di credito derivante dalla violazione commessa, in quanto il giudizio susseguente investe il rapporto e non l’atto e, quindi sussiste la cognizione piena del giudice, che potrà (e dovrà) valutare le deduzioni difensive proposte in sede amministrativa e in ipotesi non esaminate o non motivatamente respinte, se riproposte nei motivi di opposizione e decidere su di esse con pienezza di poteri sia che le stesse investano questioni di diritto o questioni di fatto”[33]. In buona sostanza, la giurisprudenza di legittimità ha deciso di esonerare l’organo amministrativo (nella specie, il Prefetto) dall’obbligo legislativamente previsto dall’art. 3, l. n. 241/1990, che prevede la necessità di motivare il provvedimento amministrativo, ben potendo il trasgressore, secondo la Cassazione, far valere interamente le sue ragioni attraverso il (successivo) ricorso giurisdizionale[34]. Alla luce di quanto asserito, il presunto trasgressore, di fronte a una sanzione amministrativa per violazione del C.d.s. si trova di fronte a una sorta di “doppio binario”: a) può proporre ricorso all’autorità prefettizia, consapevole che l’eventuale provvedimento di condanna, alla luce della predetta giurisprudenza, non dovrà necessariamente essere motivato; con la conseguenza che l’amministrazione può ben utilizzare dei moduli prestampati e uniformi privi di alcun riferimento al caso prospettato con il ricorso. E’ evidente che avere, di fatto, autorizzato le amministrazioni a raddoppiare l’importo delle sanzioni senza in alcun modo motivare le ragioni di tale scelta ha comportato (e comporta) un disincentivo all’utilizzo del più snello ed economico rimedio amministrativo; b) è di fatto “costretto”, specie alla luce di quanto asserito nel capoverso sub a), a proporre immediatamente ricorso innanzi all’autorità giudiziaria, versando, in tal caso, una somma di denaro, quale appunto il contributo unificato. Nei riguardi di tale ultimo istituto venivano tuttavia sollevate alcune questioni di costituzionalità: più in particolare, a dire dei giudici rimettenti, il contributo unificato avrebbe comportato, tra le altre cose, “un ostacolo all’accesso alla giurisdizione”, con conseguente violazione dell’art. 24, primo comma, Cost., considerato che numerose sanzioni amministrative prevedevano (e prevedono) il pagamento di somme inferiori o uguali al contributo minimo (di 37 €.) e, dunque, si sarebbe vanificata la tutela giurisdizionale offerta con l’annullamento di dette sanzioni; vale a dire che, in caso di compensazione delle spese di lite, il ricorrente vittorioso avrebbe subito una depauperazione, seppur modesta, del proprio patrimonio; mentre il mancato pagamento del contributo, secondo i Giudici di pace, avrebbe precluso la (successiva) tutela giurisdizionale, al pari di quanto era avvenuto con la disciplina previgente (nella specie, il comma 3 dell’art. 204-bis C.d.s., disposizione introdotta dall’art. 4, comma 1-septies, d.l. n. 151/2003, aggiunto dalla legge di conversione n. 214/2003), la quale, prima di essere dichiarata incostituzionale con sentenza n. 114/2004[35], prevedeva – a carico di chi volesse proporre ricorso avverso il verbale di contestazione d’infrazione – l’onere di “versare, a pena di inammissibilità del ricorso, una somma pari alla metà del massimo edittale della sanzione inflitta dall’organo accertatore”. Investita delle questioni, la Corte costituzionale mostrava tuttavia di non condividere le predette argomentazioni, giungendo a dichiararle manifestamente inammissibili (ord. n. 143/2011): ciò in ragione del fatto che il mancato versamento del contributo unificato, a differenza della normativa dell’anno 2003, non costituiva (più) una condizione di ammissibilità o di procedibilità del giudizio, non comportando, dunque, alcuna menomazione della facoltà di agire in giudizio ex art. 24, primo comma, Cost., bensì la mera attivazione, da parte della cancelleria del magistrato, depositaria dell’atto introduttivo del giudizio, della procedura per la riscossione coattiva del contributo stesso ex artt. 16, 247 e 249, d.P.R. n. 115, cit.[36], oltre che l’applicazione della sanzione ex art. 71, d.P.R. n. 131/1986[37].
-----------------------------------------------------------------------------------------------------[1] Tra i primi commenti si v. M. Clarich, L’Avvocatura stretta nella crisi economica e alle prese con molte “partite aperte”, in Gui. dir., 2010, n. 12, p. 10 ss. [2] Quali “condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari”, oltre che, come asserito, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti. [3] Secondo l’art. 1, lett. a), per “mediazione” si intende “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”. L’accezione “conciliazione” invece si riferisce alla “composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione” ex art. 1, lett. c). Secondo L. Dittrich, Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, in Riv. dir. proc., 2010, p. 576 il termine “mediazione” identifica, dunque, il procedimento per giungere, ove possibile, alla “conciliazione”. [4] Più in particolare, esso si riferisce alla determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché all’approvazione delle indennità spettanti agli organismi. [5] Su cui si v. L. Dittrich, Il procedimento, cit., p. 594, il quale se da una parte ha salutato con favore l’introduzione dell’istituto in esame, dall’altra non ha condiviso l’introduzione dell’obbligatorietà della mediazione. A suo dire (si noti la sottile ironia), “la colpa…è di Voltaire, che nel 1742 lodò senza riserve l’istituto olandese dei faiseurs de paix, le cui caratteristiche erano l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione e il divieto per gli avvocati di assistere le parti. Da quelle righe ebbe origine una ininterrotta sequenza di fallimentari tentativi obbligatori di conciliazione, che spaziano dalla legge rivoluzionaria francese n. 16 del 1790 sull’organizzazione giudiziaria per giungere infine all’oggi abrogato art. 412-bis in materia di lavoro”. Alla luce “dei suoi illustri, e pur fallimentari precedenti”, l’A. è dell’avviso che nulla lascia presagire che il tentativo obbligatorio ex art. 5 possa avere migliore fortuna. [6] Per completezza si consideri che anche l’art. 16 del Decreto (in materia di organismi di mediazione) era ritenuto costituzionalmente illegittimo. Sul punto si permetta di rinviare a http://www.diritto24.ilsole24ore.com/istituzioniAssociazioni/2011/03/oua-le-sette-questioni-di-incostituzionalita-del-dlgs-282010.html. [7] In questo senso anche G. Scarselli, La nuova mediazione e conciliazione: le cose che non vanno, in For. it., 2010, V, c. 146 ss. secondo cui vi sarebbe altresì contrasto con le direttive comunitarie, nonché, in maniera meno netta, G. Canale, Il decreto legislativo in materia di mediazione, in Riv. dir. proc., 2010, p. 624 [8] Per completezza si veda il testo integrale dell’ordinanza, in http://www.giustizia-amministrativa.it/DocumentiGA/Roma/Sezione%201/2010/201010937/Provvedimenti/201103202_08.XML. Tra i primi commenti al provvedimento si v. D. Ponte, Il Tar Lazio rimanda alla Corte costituzionale il regolamento sulla “giustizia alternativa”. Continua il braccio di ferro sul nuovo istituto segnato un punto a favore di chi lo avversa, in Guid. dir., 2011, 17, p. 29 ss.; N. Soldati, Il Tar Lazio rimanda alla Corte costituzionale il regolamento sulla “giustizia alternativa”. Al vaglio l’obbligo del “previo esperimento”, ivi, 2011, p. 32 ss.; G. Finocchiaro, I primi dubbi di legittimità costituzionale del decreto legislativo in materia di mediazione, in Gius. civ., 2011, p. 1379 ss.; I. Pagni, La mediazione dinanzi alla Corte Costituzionale dopo l'ordinanza del TAR Lazio n. 3202/2011, in Corr. giur., 2011, p. 995 ss.; S. Viotti, Le questioni di legittimità costituzionale sulla mediazione civile e commerciale, in Giur. mer., 2011, p. 1944 ss.; C. Perago, Spunti di riflessione sulla compatibilità costituzionale della mediazione obbligatoria, in Resp. civ. prev., 2011, p. 1877 ss. [9] La si v. in For. it., 1992, I, c. 1023, con nota di G. Costantino. [10] Essa viene in essere quando la proponibilità della domanda è subordinata a determinate formalità previste dalla legge. Secondo F.P. Luiso, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 1999, I, pp. 380-383, la giurisdizione condizionata non va a contrastare con il diritto di azione purché vi sia l’indicazione di un periodo massimo di durata della fase conciliativa, oltre che l’anticipazione degli effetti della domanda giudiziale. [11] Sull’art. 24 Cost. si v. per tutti A. Police, Commento all’art. 24 della Costituzione, in Commentario alla Costituzione (a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti), I, Torino, 2006, p. 501 ss. [12] La dottrina processualista configura l’ordinamento e la giurisdizione in termini “statici” ovvero “dinamici”. La concezione statica si deve a G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, ristampa, Napoli, 1982, il quale era dell’avviso che “il processo serve non già a rendere concreta la volontà della legge, poiché questa volontà si è già formata come volontà concreta anteriore al processo, ma ad accertare quale sia la volontà di legge ed attuarla”. In altri termini, secondo tale autorevole tesi, il processo avrebbe dovuto soltanto verificare la sussistenza o meno del diritto. Propendono invece per una ricostruzione dinamica S. Satta, C. Punzi, Diritto processuale civile, Cedam, Padova, 2000, p. 11, per i quali “l’ordinamento non vive nell’astratto, bensì nel concreto, e questa concretezza trova ad ogni istante nell’azione umana che ad esso si adegua, e in quanto si adegua. Di qui l’inscindibilità assoluta dell’ordinamento dall’azione, più semplicemente unità dell’ordinamento, perché se è vero che l’ordinamento senza azione è mero flatus vocis, non è meno vero che l’azione senza ordinamento è puro fatto, privo di ogni rilevanza”. In buona sostanza, secondo questo autorevole orientamento “l’ordinamento è un perpetuo divenire attraverso l’azione”. [13] L’inscindibilità diritto-azione è stata affermata in modo pieno sin dalla decisione della Corte costituzionale n. 7 del 1962, in cui, con estrema nitidezza, si è affermato che “il potere di esperimento dell’azione giudiziaria, quale è garantito dall’art. 24 Cost., ha a suo presupposto il possesso in chi l’esercita della titolarità di un diritto o di un interesse legittimo, cioè di una situazione giuridica subiettiva di vantaggio, di carattere sostanziale, il cui riconoscimento, in caso di controversia sia posto ad oggetto della pretesa fatta valere in giudizio” (la si v. in Giur. cost., 1962, p. 73 ss., punto 5 del Considerato in diritto, con note di C. Esposito, La Corte costituzionale come giudice nella “non arbitrarietà” delle leggi, p. 78 ss. e M. Giorgianni, Le norme sull’affitto con canone in cereali. Controllo di costituzionalità o di “ragionevolezza” delle norme speciali?, p. 82 ss. Con la conseguenza che se “difetta positivamente la titolarità del diritto sostantivo che si vorrebbe far valere in giudizio” non si può invocare a giusta ragione il diritto processuale d’azione” (così Corte cost., 25 giugno 1981, n. 140, punto 6 del Considerato in diritto, ivi, 1981, p. 1348 ss., con nota di L. Carlassare, Dopo il monito al legislatore un invito ai giudici, p. 1353 ss.). [14] La si v. in Giur. cost., 1964, p. 586 ss., punto 3 del Considerato in diritto, con nota di C. Esposito, Onere del previo ricorso amministrativo e tutela giurisdizionale sui diritti, p. 590 ss., secondo la quale sono conformi a Costituzione le norme che subordinano, in casi determinati e per ragionevoli motivi, l'esercizio dell'azione giudiziaria all'esperimento di una previa procedura amministrativa. [15] Corte cost. n. 82/1992, cit., Punto 2 del Considerato in diritto. [16] Sul punto cfr. G. Armone, La mediazione civile: il procedimento, la competenza, la proposta, in Le soc., 2010, p. 627 secondo cui non sarebbero del tutto chiari i criteri utilizzati dalla Corte per distinguere tra le diverse ipotesi di filtri di accesso: a suo dire, le distinzioni usate dalla Corte assomiglierebbero a “paralogismi”, funzionali a mantenere in capo alla Corte un ampio margine di discrezionalità. [17] In senso simile si v. F. Murino, Prime considerazioni sulla mediazione nel sistema della tutela dei diritti, in Corr. mer., 2010, p. 594. Sul punto cfr. anche E. Fabiani, M. Leo, Prime riflessioni sulla “mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” di cui al d.lgs. n. 28/2010, in Riv. not., 2010, p. 893 ss.; P. Porreca, La mediazione e il processo civile: complementarietà e coordinamento, in Le soc., 2010, p. 634. [18] La si v. in For. it., 1972, I, c. 1172 ss. [19] La si v. in For. it., 1979, I, c. 2539 ss. [20] La disposizione è stata poi abrogata dall’art. 31, comma 9, l. n. 183/2010. [21] Su cui si v. la nota di L. De Angelis, E’ legittimo il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, in For. it., I, c. 2752 ss. [22] Anche siffatta disposizione è stata abrogata dall’art. 31, comma 9, l. n. 183, cit. [23] Su cui si v. M. Barbieri, La Corte costituzionale di fronte all’accertamento pregiudiziale sui contratti collettivi di lavoro pubblico: non tutti i problemi sono risolti, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2004, p. 123 ss. [24] Su cui si v. T. Guarnier, Ragionevolezza, interpretazione e dialogo tra giudici. Come la Corte risponde alle esigenze di flessibilità dell’ordinamento, in Giur. it., 2008, c. 1099 ss. [25] Su cui si v. i commenti di G. Finocchiaro, Un’interpretazione dei giudici di Lussemburgo in linea con i parametri costituzionali, in Guida dir., 2010, 14; nonché G. Armone, P. Porreca, La mediazione civile nel sistema costituzional-comunitario, in For. it., 2010, IV, c. 372 ss. [26] Si tratta dello stesso principio sancito dalla Corte costituzionale, sicché il dialogo multilivello tra le Corti apparirebbe in ottima salute, in tal senso G. Finocchiaro, Un’interpretazione, cit., p. 32. [27] Propende per la legittimità costituzionale della condizione di procedibilità e, più generale, dell’art. 5 del Decreto anche R. Masoni, L’esercizio della delega in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali di cui al d.lgs. n. 28 del 2010, in Giur. mer., 2010, p. 1212 ss. [28] Tale istituto, secondo autorevole dottrina, ma non sempre secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, andrebbe distinto dal c.d. “difetto di delega”, che si ha quando il decreto legislativo, pur non violando alcun principio della delega, va a disciplinare materie escluse dall’ambito oggettivo della medesima, in tal senso L. Paladin, Commento agli artt. 76 e 77, in Commentario della Costituzione (a cura di G. Branca), Bologna-Roma, 1979, p. 30. [29] Sulla legge delega si v. per tutti F. Sorrentino, Le fonti del diritto italiano, 2009, p. 169 ss. [30] Secondo G. Dalfino, La giustizia civile alle prova della mediazione (a proposito del d.leg. 4 marzo 2010 n. 28). III. Mediazione, conciliazione e rapporti con il processo, in For. it., 2010, V, c. 144 invece l’eccesso di delega sarebbe confermato facendo riferimento alla lett. n) della legge n. 69, cit., il quale menziona il dovere dell’Avvocato di informare il cliente della possibilità, e non della necessità, di avvalersi del procedimento di mediazione, il quale dunque non potrebbe assolvere alla funzione di “filtro”. [31] Si intende far riferimento alle controversie il cui valore non supera 1.100 €., secondo quanto stabilisce l’art. 13, d.P.R. 30 maggio 2002, cit. All’inizio si prevedeva altresì il pagamento di una marca (pari a 8 €.), a titolo di rimborso forfettario delle spese processuali. Tra i primi commenti a questa normativa si v. R. Amoroso, Problemi applicativi a seguito della introduzione del contributo unificato per i ricorsi avverso le sanzioni amministrative per violazioni al Codice della Strada, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=48681, 11 gennaio 2010, il quale si sofferma, in particolare, su problemi di carattere procedurale (quale sia la misura del contributo quando il valore della causa non sia facilmente riscontrabile e, inoltre, quale debba essere il trattamento da applicare a un ricorso spedito, attraverso il servizio postale, anteriormente al 1 gennaio 2010, ma pervenuto all’ufficio dopo detta data). [32] Il quale prevede che “I termini di cui ai commi 1-bis e 2 dell'articolo 203 e al comma 1 del presente articolo sono perentori e si cumulano tra loro ai fini della considerazione di tempestività dell'adozione dell'ordinanza-ingiunzione. Decorsi detti termini senza che sia stata adottata l'ordinanza del prefetto, il ricorso si intende accolto”. [33] In tal senso Cass., Sez. un., 28 gennaio 2010, n. 1786, in questa rivista, 2010, fasc. 1, http://www.rivistagiuridica.aci.it/uploads/tx_userdoc/1786__01.pdf. Sulle critiche alla pronuncia in esame si permetta di rinviare al dettagliato contributo di G. Poli, Ordinanza ingiunzione del Prefetto e obbligo di motivazione in riferimento alle casistiche conseguenti alle infrazioni al Codice della strada, in questa rivista, 2010, fasc. 5, http://www.rivistagiuridica.aci.it/uploads/tx_userdoc/Ordinanza_ingiuzione_del_Prefetto_e_obbligo_di_motivazion_.pdf. [34] Come noto, contro l’ordinanza-ingiunzione è possibile esperire ricorso ex art. 205 C.d.s., tuttavia esso è assoggettato al versamento del contributo unificato, in quanto il procedimento, in tal caso, si svolge innanzi all’autorità giudiziaria. [35] La si v. in Giur. it., 2005, c. 458. Secondo la Corte, nel valutare l’idoneità di una tassa a ledere il diritto alla tutela giurisdizionale, occorre distinguere tra “oneri razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio”, la cui previsione non determina un ostacolo alla tutela giudiziaria, ma ne costituisce solo il costo, e quelli che invece “tendono alla soddisfazione di interessi del tutto estranei alle finalità predette”, i quali conducono al risultato “di precludere o ostacolare gravemente l’esperimento della tutela giurisdizionale”. [36] Ai sensi dell’art. 16 T.U. in caso di omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato, entro 30 giorni dal deposito del ricorso, a norma dell’art. 248 T.U., la cancelleria notifica alla parte, ai sensi dell’art. 137 c.p.c., l’invito al pagamento dovuto, quale risulta dal raffronto tra il valore della causa dichiarato e il corrispondente scaglione indicato dall’art. 13 T.U., con espressa avvertenza che si procederà a iscrizione a ruolo, con addebito degli interessi al saggio legale, in caso di mancato pagamento entro trenta giorni. [37] Esso stabilisce che se il valore definitivamente accertato, ridotto di un quarto, supera quello dichiarato, si applica la sanzione amministrativa dal 100 al 200% della maggiore imposta dovuta.
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