(Pres. Teresi – Rel. Franco)
Svolgimento del processo
Con
l'ordinanza in epigrafe il tribunale del riesame di Ancona confermò il
decreto di sequestro preventivo di tre appartamenti siti in Ancona
ritenendo che sussistesse il fumus almeno del reato di cui all'art. 3,
n. 3, legge 20 febbraio 1958, n. 75, in quanto era assai probabile che
gli indagati tollerassero abitualmente la presenza di più persone che,
all'interno dei medesimi appartamenti, si davano alla prostituzione.
Ritenne altresì sussistente il periculum in mora perché era probabile
che gli indagati, per affittare più facilmente gli immobili, fossero
propensi a disinteressarsi dell'effettivo uso degli stessi.
Gli indagati propongono ricorso per cassazione deducendo:
1)
mancanza di motivazione sul fumus del reato ipotizzato. Lamentano che
il tribunale del riesame non ha risposto alle eccezioni sollevate con la
richiesta di riesame e comunque ha ritenuto il fumus in termini
meramente probabilistici e presuntivi, e con una deduzione incoerente ed
incompleta. Il tribunale ha altresì omesso di prendere in
considerazione le diffide inviate dai locatori alle inquiline.
2)
mancanza di motivazione in riferimento al periculum in mora ed al
rapporto pertinenziale tra i beni sequestrati ed il reato, in quanto è
provato che gli appartamenti non erano organicamente e stabilmente
strumentali alla attività illecita.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato.
Agli
indagati sembra essere stato contestato il fatto che, avendo la
proprietà o comunque la disponibilità di tre appartamenti, li avevano
concessi in locazione a scopo di esercizio di una casa di prostituzione
ovvero vi avevano tollerato abitualmente la presenza di più persone che,
all'interno dei medesimi appartamenti, si davano alla prostituzione,
comunque favorendone in tal modo la prostituzione.
Il
tribunale del riesame sembra aver ritenuto sussistente esclusivamente
il fumus del reato di cui all'art. 3, comma 3, legge 20 febbraio 1958,
n. 75, il quale riguarda la condotta di “chiunque, essendo proprietario,
gerente o preposto a un albergo, casa mobiliata, pensione, spaccio di
bevande, circolo, locale da ballo, o luogo di spettacolo, o loro annessi
e dipendenze o qualunque locale aperto al pubblico od utilizzato dal
pubblico, vi tollera abitualmente la presenza di una o più persone che,
all'interno del locale stesso, si danno alla prostituzione”.
È quindi decisivo il rilievo che il delitto di tolleranza abituale della prostituzione, quindi,
richiede per la sua configurabilità che si sia in presenza di un locale
aperto al pubblico od utilizzato dal pubblico (quale albergo, casa
mobiliata, pensione, spaccio di bevande, circolo, locale da ballo, o
luogo di spettacolo), nel cui interno il preposto, gerente o
proprietario tolleri abitualmente la presenza di persone che esercitino
la prostituzione.
Da
tale disposizione si ricava anche che la mera tolleranza dell'altrui
prostituzione in locali non aperti al pubblico o non utilizzati dal
pubblico, di per sé, non è prevista come reato.
Nella
specie, a quanto emerge dalla ordinanza impugnata, tale ipotesi
delittuosa - in riferimento alla quale soltanto il tribunale del riesame
ha confermato la misura cautelare reale - non è prospettabile nemmeno
in astratto non trattandosi di locali aperti al pubblico o utilizzati
dal pubblico.
L'ordinanza
impugnata, comunque, manca totalmente di motivazione anche in ordine
alla possibilità di configurazione del fumus del reato di cui all'art.
3, comma 2, legge 20 febbraio 1958, n. 75, ossia del reato di
concessione in locazione di una casa od altro a scopo di esercizio di
una casa di prostituzione. Secondo il prevalente e più convincente
orientamento di questa Corte, invero, “per integrare il concetto
di casa di prostituzione previsto nei numeri 1 e 2 dell'art. 3 della
legge 20 febbraio 1958 n. 75 è necessario un minimo, anche rudimentale,
di organizzazione della prostituzione, che implica una pluralità di
persone esercenti il meretricio” (Sez. III, 19.5.1999, n. 8600,
Campanella, m. 214228); e “per integrare il concetto di casa di
prostituzione, è necessario il contestuale esercizio del meretricio da
parte di più persone negli stessi locali ed, all'interno dello stesso
locale, l'esistenza di una sia pur minima forma di organizzazione” (Sez.
III, 16.4.2004, n. 23657, Rincari, m. 228971), con la conseguenza che
“Il reato di chi, avendo la proprietà o l’amministrazione di una casa,
la concede in locazione a scopo di esercizio di una casa di
prostituzione non sussiste, pertanto, quando il locatore conceda in
locazione l'immobile ad una sola donna, pur essendo consapevole che la
locataria è una prostituta, e che eserciterà nella casa locata
autonomamente e per proprio conto” (Sez. III, 19.5.1999, n. 8600,
Campanella, m. 214228, cit.) e persino che “Non integra il reato di
locazione di immobile alfine dell'esercizio di una casa di prostituzione
concedere in locazione un appartamento all'interno del quale, sebbene
con frequente turnazione, venga esercitata la prostituzione di volta in
volta da una sola donna” (Sez. III, 16.4.2004, n. 23657,
Rincari, m. 228971, cit.). Questo orientamento è stato da ultimo
ulteriormente confermato da questa Sezione con sentenza 28 settembre
2011, Pastorelli (che ha anche rilevato come non convince il contrario
indirizzo: Sez. Ili, 5.11.1999, n. 2730, Gori, m. 215760; Sez. Ili,
27.2.2007, n. 21090, Petrosillo, m. 236739), alle cui considerazioni,
per brevità, si fa qui richiamo. Orbene, l'ordinanza impugnata non
contiene alcuna motivazione sulla sussistenza dei requisiti per poter
configurare il fumus del delitto di locazione di appartamento al fine
dell'esercizio di una casa di prostituzione, ed in particolare, tra
l'altro, sull'esistenza di una pluralità di persone esercenti il
meretricio nell'appartamento e di una attività di organizzazione.
Allo
stesso modo, l'ordinanza impugnata non contiene alcuna motivazione
sulla sussistenza del fumus di un eventuale reato di favoreggiamento
della prostituzione. Va ricordato che secondo una giurisprudenza da
tempo affermata e prevalente, non è ravvisabile il favoreggiamento della
prostituzione nel fatto di chi concede in locazione, a prezzo di
mercato (altrimenti potrebbe ipotizzarsi lo sfruttamento), un
appartamento ad una prostituta, anche se sia consapevole che la
locataria vi eserciterà la prostituzione in via del tutto autonoma e per
proprio conto (Sez. III, 6.5.1971, n. 999, Campo, m. 119000; Sez. III,
5.3.1984, n. 4996, Siclari, m. 164513; Sez. III, 3.5.1991, n. 6400,
Tebaldi, m. 188540; Sez. III, 19.5.1999, n. 8600, Campanella, m.
214228). Questo orientamento, che qui va condiviso, è stato poi
confermato anche da Sez. III, 13.4.2000, n. 8345, Donati, m. 217080, che
pure è stata citata in senso contrario da decisioni che sembrerebbero
aver affermato un principio opposto (Sez. III, 23.5.2007, n. 35373,
Galindo, m. 237400), ma che in realtà nella motivazione richiedono pur
sempre che, per aversi favoreggiamento, vi siano prestazioni ed attività
ulteriori rispetto a quella della semplice concessione in locazione a
prezzo di mercato. La citata sentenza Donati, infatti, rileva
giustamente come la giurisprudenza che esclude il favoreggiamento in
caso di mera locazione sia stata ispirata proprio dalla finalità di
evitare aberrazioni non solo sul piano dell'etica e del senso comune ma
anche in rapporto alla ratio e alla intentio legis cui porterebbe la
configurazione come favoreggiamento di qualsiasi aiuto prestato solo
alla prostituta in quanto persona e non direttamente all'esercizio del
meretricio in quanto tale. In particolare, la detta sentenza ha, più che
condivisibilmente, osservato che “se la locazione non è
concessa allo scopo specifico di esercitare nell'immobile locato una
casa di prostituzione (nel qual caso ricorrerebbe l'ipotesi di cui al n.
2 dell'art. 3 legge 75/1958), la condotta del locatore non configura
propriamente un aiuto alla prostituzione esercitata dalla locataria, ma
semplicemente la stipulazione di un contratto attraverso cui è
consentito a quest'ultima di realizzare il suo diritto all'abitazione.
Insomma l'aiuto (o più esattamente il negozio giuridico) riguarda la
persona e le sue esigenze abitative, e non la sua attività di
prostituta. E vero che indirettamente ne è agevolata anche la
prostituzione; ma questo rapporto indiretto non può essere incluso nel
nesso causale penalmente rilevante tra condotta dell'agente ed evento di
favoreggiamento della prostituzione. Altrimenti si arriverebbe
al paradosso che colui che soccorre una (a lui) nota prostituta che sta
annegando sarebbe imputabile di favoreggiamento perché indirettamente
consente alla prostituta di continuare ad esercitare il suo mestiere! In
verità - com'è noto - secondo la legge 75/1958 la prostituzione per se
stessa non è prevista come reato, mentre è penalmente sanzionata ogni
attività che induca, favorisca o sfrutti la prostituzione altrui,
giacché il legislatore è mosso dallo scopo evidente di evitare che il
mercimonio del sesso (penalmente irrilevante, ma socialmente
riprovevole) sia comunque incentivato o agevolato da interessi o da
comportamenti di terzi. Orbene, anche quando il reato previsto è a forma
libera (come il favoreggiamento e lo sfruttamento, che possono essere
commessi in qualsiasi modo), la condotta dell'agente deve essere legata
all'evento da un nesso causale penalmente rilevante. Poiché l'evento del
reato non è la prostituzione, bensì - nella fattispecie de qua -
l'aiuto alla prostituzione, ciò significa che esula il reato ove la
condotta dell'agente non abbia cagionato un effettivo ausilio per il
meretricio, nel senso che questo sarebbe stato esercitato ugualmente in
condizioni sostanzialmente equivalenti”.
Orbene,
nel caso in esame, l'ordinanza impugnata non solo non ha dato alcuna
motivazione sul fatto che gli indagati avessero agito allo scopo
specifico di far esercitare nell'immobile locato una casa di
prostituzione (intesa nel senso specificato) o comunque allo scopo
specifico di fornire un contributo causale alla prostituzione esercitata
dalla locataria, ma nemmeno ha indicato un qualche elemento da cui
potesse ricavarsi il fumus che gli indagati comunque tollerassero la
prostituzione svolta negli immobili (fatto che peraltro, di per sé solo,
per le ragioni dianzi indicate non costituisce reato) ma addirittura
rileva che era solo probabile, e quindi nemmeno certo, che gli stessi
fossero a conoscenza dell'attività svolta negli appartamenti.
Analogo
vizio di mancanza di motivazione, o di motivazione meramente apparente e
generica, è ravvisabile in ordine al periculum in mora, che l'ordinanza
impugnata ha apoditticamente ravvisato nel pericolo che la libera
disponibilità degli appartamenti potesse consentire la protrazione della
attività criminosa, per la probabilità che gli indagati, per affittare
gli appartamenti, siano propensi a disinteressarsi del loro effettivo
uso. E difatti, non è stata nemmeno indicata quale relazione specifica e
stabile esista tra la cosa sequestrata e l'attività illecita, ed in
particolare che gli appartamenti siano organicamente e stabilmente
strumentali alla attività illecita.
L'ordinanza
impugnata deve pertanto essere annullata per mancanza di motivazione
sul fumus del reato ipotizzato e sul periculum in mora, con rinvio per
nuovo esame al tribunale di Ancona, che si uniformerà ai principi di
diritto dianzi enunciati.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al tribunale di Ancona per nuovo esame