lunedì 23 novembre 2015

Occupazione suolo pubblico attività commerciale

N. 12904/2015 REG.PROV.COLL.
N. 08429/2015 REG.RIC.



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Ter)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 8429 del 2015, proposto dalla Società Bottega Italia Srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avv. Corrado Morrone, con domicilio eletto presso lo Studio Legale Associato Panunzio e Romano in Roma, viale XXI Aprile, n.11;


contro

Roma Capitale, in persona del Sindaco p.t., rappresentata e difesa dall'avv. Rosalda Rocchi, con la stessa elettivamente domiciliata presso gli Uffici dell’Avvocatura Capitolina in Roma, Via Tempio di Giove, 21;


per l'annullamento, previa sospensione,

- della Determinazione dirigenziale prot. n.CA/91504/15 del 15 giugno 2015 avente ad oggetto: chiusura ex Ordinanza sindacale n. 258/12 e ss.mm.ii. dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande per il locale sito in Roma, via Vittorio Veneto 15-25 e ordine di immediato ripristino dello stato dei luoghi;

- dei provvedimenti ad essa presupposti con riferimento all’Ordinanza sindacale n. 258 del 2012 e dei verbali n. 14140057774 del 24.3.2015 e n. 13-14729 del 24.3.2015.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 2 settembre 2015 il Cons. Mariangela Caminiti e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;


1. La Società Bottega Italia Srl ha impugnato la Determinazione dirigenziale di Roma Capitale, Municipio Roma I Centro - Unità Organizzativa Amministrativa, prot. n. CA/91504 del 10 giugno 2015, notificata in data 15 giugno 2015, con cui è stata disposta: 1) la rimozione dell’occupazione abusiva del suolo pubblico accertata dal Corpo di Polizia Locale in data 19 marzo 2015 antistante l’esercizio sito in Roma, via Vittorio Veneto n.15/25, per l’immediato ripristino dello stato dei luoghi; 2) la chiusura dell’esercizio per un periodo pari a 5 (cinque) giorni e comunque fino al completo ripristino dello stato dei luoghi, da eseguire dal settimo giorno successivo a quello della predetta notifica, nonché i provvedimenti ad essa presupposti (Ordinanza sindacale n. 258/2012 e verbali n. 14140057774 del 24.3.2015 e n. 13-14729 del 24.3.2015).

Premette di essere titolare di un’occupazione di suolo privato e di aver presentato istanza all’Amministrazione per il rilascio in concessione di un ulteriore spazio comunale confinante con quello attualmente occupato, allo stato non ancora riscontrata.

La società ha allegato al ricorso i seguenti motivi di impugnazione:

1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 16, della legge n. 94 del 2009 e dell’Ordinanza sindacale n. 258 del 2012. Eccesso di potere per errore nei presupposti di fatto e di diritto, travisamento del fatto, manifesta irragionevolezza e violazione del principio di proporzionalità, ingiustizia palese, contraddittorietà e difetto di motivazione. Incompetenza: la società avrebbe immediatamente e spontaneamente provveduto a ripristinare lo stato dei luoghi subito dopo il sopralluogo e l’accertamento da parte della Polizia Locale, senza attendere il successivo provvedimento da parte del Municipio. Nella specie, l’Amministrazione non avrebbe tenuto conto dell’immediato ripristino da parte della società dell’area occupata (comunicato con nota prot. CA/56995 del 13.4.2015), sanzionandola comunque in modo sproporzionato, ingiusto e irragionevole con la chiusura del locale per 5 giorni, posto che con la chiusura è punita la condotta di chi non adempia immediatamente al ripristino ai sensi dell’art. 3, comma 16, della legge n. 94 del 2009. Nel caso in cui l’Ordinanza sindacale n. 258 del 2012, atto presupposto a quello impugnato, dovesse interpretarsi in difformità della norma primaria (art.3, comma 16 della legge n. 94 del 2009) ed imporre la chiusura dell’esercizio a prescindere dall’adempimento dell’ordine di ripristino, dovrebbe considerarsi illegittima con conseguente annullamento in parte qua. Inoltre sussisterebbe il vizio di incompetenza per l’adozione della Determinazione dirigenziale impugnata da parte dei Dirigenti perché la legge attribuisce solo al Sindaco il potere di disporre tali misure (ripristino stato luoghi e chiusura locale).

2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990: il provvedimento non sarebbe stato preceduto da alcun obbligatorio avviso all’impresa interessata di avvio del relativo procedimento amministrativo e inoltre sarebbe carente di motivazione e di istruttoria, per errore nei presupposti di fatto e di diritto, in quanto la società interessata non sarebbe stata posta nelle condizioni di partecipare al procedimento per evidenziare i vizi di legittimità oggi censurati con il ricorso; inoltre mancherebbe la prova da parte dell’Amministrazione che il contenuto del provvedimento impugnato non sarebbe stato comunque diverso in base alle circostanze e rilievi forniti dalla società interessata in sede procedimentale.

3) Violazione e/o falsa applicazione dell’Ordinanza sindacale n. 258 del 2012. Violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza: l’Ordinanza sindacale n. 258 del 2012, atto presupposto della Determinazione impugnata prevede l’applicazione dell’art. 20 del C.d.s. e dell’art. 3, comma 16, della legge n. 94 del 2009 in caso di occupazione del suolo pubblico “totalmente abusiva”, laddove nel caso di specie, anche ritenendo corrispondenti al vero i verbali della P.L., si tratterebbe di occupazione soltanto parzialmente priva di titolo. Parte ricorrente riferisce di essere titolare di concessione onerosa di suolo privato, relativamente alla parte antistante il locale, di proprietà esclusiva dell’Ordine dei Frati Cappuccini. L’asserita occupazione di suolo pubblico sarebbe solo parziale e, come confermato dal sopralluogo, per la denunciata presenza di “vasi di fiori e pannellature” e non di tavolini da utilizzare per svolgere l’attività. Del resto, sottolinea la ricorrente, il riferimento alla occupazione “totalmente “ abusiva non potrebbe che essere intesa come una specifica limitazione posta dalle norme soprarichiamate e dall’Ordinanza sindacale per mitigare gli effetti lesivi dell’applicazione di tali disposizioni ed evitare l’applicazione delle stesse ai casi di violazioni più trascurabili e di minor impatto. Da qui la denunziata violazione del principio di proporzionalità e di ragionevolezza della misura sanzionatoria.

4) Violazione e falsa applicazione degli articoli 1 e ss. della legge n. 689 del 1981 e del divieto di doppia sanzione amministrativa per il medesimo fatto costituente illecito amministrativo. Violazione dei principi di legalità e tassatività e dei principi di proporzionalità e ragionevolezza: per reprimere la medesima condotta l’Amministrazione avrebbe ritenuto di irrogare autonome e concorrenti sanzioni amministrative di carattere pecuniario, ripristinatorio, accessorio e interdittivo, con la conseguenza che un medesimo fatto sarebbe illegittimamente assoggettato a doppia se non tripla sanzione amministrativa, in violazione dei principi e delle leggi richiamate in epigrafe. I provvedimenti impugnati sarebbero quindi illegittimi per la previsione della chiusura dell’esercizio in aggiunta alle altre sanzioni comminate e in presenza dell’avvenuto immediato ripristino dello stato dei luoghi. Laddove dovesse ritenersi che la misura applicata sia vincolata e la sua ineludibile per quanto illegittima applicazione discendente direttamente dall’art. 3 della legge n. 94 del 2009, parte ricorrente sottopone la questione di costituzionalità di tale norma per contrasto con gli artt. 3, 10, 23, 24, 25, 41 e 97 della Costituzione nonché chiede la disapplicazione della stessa per contrarietà ai principi del diritto dell’Unione, in particolare a quelli di proporzionalità e divieto di discriminazione, che esigono che la normativa nazionale non ecceda i limiti di ciò che è idoneo e strettamente necessario per il conseguimento degli scopi perseguiti da ciascuno Stato (cd. principio del minimo mezzo), per violazione degli articoli 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza), 6 (diritto ad equo processo), 13 (diritto ad un ricorso effettivo) e 17 (divieto dell’abuso del diritto) della Convenzione CEDU, dell’art. 1 del Protocollo Addizionale (Protezione della proprietà) e dell’art. 1 del Protocollo 12 (divieto generale di discriminazione), nonché per la violazione degli art. 16 (Libertà dell’impresa), 17 (Diritto di proprietà), 20 (Uguaglianza davanti alla legge), 21 (Non discriminazione), 41 (Diritto ad una buona amministrazione), 49 (Principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene), 50 (Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato), 52 (Portata dei diritti garantiti), 53 (Livello di protezione) e 54 (Divieto dell’abuso di diritto) della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, le quali ai sensi dell’art. 6 del Trattato UE “hanno lo stesso valore giuridico dei Trattati”. Conclude per l’annullamento della Determinazione dirigenziale impugnata, previa sospensione dell’efficacia della stessa.

Si è costituita in giudizio Roma Capitale per resistere al ricorso, opponendosi all’accoglimento dello stesso ed ha depositato documentazione.

Alla camera di consiglio del 2 settembre 2015 la causa è stata trattenuta per la decisione, ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm., sussistendone i presupposti (e come preavvisato alle parti presenti).

2. Nel merito, il ricorso è infondato per le ragioni di seguito riportate.

La società Bottega Italia Srl ha impugnato: - la Determinazione dirigenziale adottata dal Municipio Roma I Centro n. CA/91504/2015 del 10 giugno 2015, che ha disposto la rimozione dell’occupazione abusiva del suolo pubblico antistante l’esercizio sito in via Vittorio Veneto n. 15/25 per l’immediato ripristino dello stato dei luoghi nonché la chiusura dell’esercizio stesso per un periodo pari a cinque giorni, esecutiva quest’ultima dal settimo giorno successivo a quello di notifica avvenuta in data 15 giugno 2015; - nonché i provvedimenti ad essa presupposti (Ordinanza sindacale n. 258/2012 e verbali n. 14140057774 e n.13-14729 del 24 marzo 2015).

2.1. Rileva il Collegio che il provvedimento è stato adottato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 3, comma 16, della legge n. 94 del 2009 e dell’Ordinanza sindacale n. 258 del 2012, in quanto il I Gruppo Trevi di Polizia Locale Roma Capitale, con rapporto amministrativo ha comunicato al Municipio di aver accertato, con verbale elevato ai sensi dell’art. 20 del Codice della strada in data 19 marzo 2015, che la società “occupava il suolo pubblico antistante il locale, sul marciapiede, con vasi di fiori e pannellature in due distinte aree di mq 14 e di mq 7 per un totale di mq. 21, senza essere in possesso della relativa concessione”.

Risulta, quindi, evidente che al momento dell’elevazione del VAV da parte della Polizia Locale (19 marzo 2015) la società ricorrente non era titolare di concessione di suolo pubblico relativamente all’area in questione, a nulla rilevando la presentazione di nuova domanda di concessione Osp per altra area, in corso di istruttoria, nè la preesistenza di occupazione di suolo privato riguardante invece la parte antistante il locale occupata in due aree distinte di mq. 49,00 e di mq. 21,00, che non è stata computata nella Determinazione impugnata, né infine che l’occupazione riguarda la presenza di “vasi di fiori e pannellature” e non di tavolini per svolgere la propria attività.

Le censure dedotte, ancorché diversamente articolate, ricalcano sostanzialmente profili giuridici già sottoposti all’esame della Sezione, che hanno trovato costante pronunciamento di rigetto (vedi da ultimo le sentenze n. 2245, n. 1055 e n. 11300 del 2015, nonché ex multis sentenze nn. 7931 e 7949 del 13 agosto 2013, n. 7257 del 2014).

Le decisioni citate muovono dalla ricognizione del relativo quadro normativo primario di riferimento (art. 20 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 – Codice della Strada e art. 3, comma 16, della legge 15 luglio 2009, n. 94), la cui combinata lettura impone di ribadire come possa essere comminata la sanzione della chiusura dell’esercizio per un periodo non inferiore a giorni cinque, per i casi di “indebita occupazione di suolo pubblico previsti … dall’articolo 20 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285”.

La misura interdittiva, di cui parte ricorrente contesta la contraddittorietà e insussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi (primo motivo) è, dunque, legittimamente applicabile a fronte delle violazioni consumate dall’occupazione di suolo pubblico totalmente “abusiva” (in assenza di titolo), come nel caso in esame: la medesima parte ricorrente ammette di aver presentato domanda di nuova concessione Osp permanente su altra area pubblica e comunque entrambi i verbali della P.L. rilevano la presenza di altra occupazione di suolo - posta su area privata - con tavoli, sedie ed altri elementi di arredo, non computata nella Determinazione impugnata.

Più in particolare riguardo i profili sostanziali di censura dedotti il Collegio ribadisce, in coerenza con l’orientamento della Sezione, che il potere attribuito al Sindaco per le strade urbane ai sensi dell’art. 3, comma 16, della legge n. 94 del 2009, è indubbiamente un potere discrezionale e tale potere è stato esercitato dall’Autorità in via generale e preventiva, disponendo con la citata Ordinanza sindacale n. 258 del 2012 specifiche indicazioni, impartite ai Dirigenti dei competenti Uffici dell’Amministrazione capitolina, in ragione delle quali, nei casi di occupazione di suolo pubblico totalmente abusiva effettuata, per fini di commercio, su strade urbane ricadenti nel territorio capitolino, delimitato dal perimetro del sito Unesco, devono applicarsi le disposizioni previste dall’art. 20 del Codice della strada e dall’art. 3, comma 16, della legge n. 94 del 2009, con decorrenza dell’esecutività del provvedimento di chiusura dal settimo giorno successivo a quello della notifica.

In particolare, l’art. 20 del d.lgs. n. 285 del 1992 prevede che chiunque occupa abusivamente il suolo stradale, ovvero, avendo ottenuto la concessione, non ottempera alle relative prescrizioni, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 168 ad euro 674 (comma 4) e che tale violazione importa la sanzione amministrativa “accessoria” dell’obbligo per l’autore della violazione stessa di rimuovere le opere abusive a proprie spese, ai sensi dell’art. 3, comma 16, l. n. 94 del 2009 (comma 5); inoltre, fatti salvi i provvedimenti dell’Autorità per motivi di ordine pubblico, nei casi di indebita occupazione di suolo pubblico previsti dall’art. 633 c.p.p. e dall’art. 20 d.lgs. n. 285 del 1992, il Sindaco, per le strade urbane, può ordinare l’immediato ripristino dello stato dei luoghi a spese degli occupanti e, se si tratta di occupazione a fine di commercio, la chiusura dell’esercizio fino al pieno adempimento dell’ordine e del pagamento delle spese o della prestazione di idonea garanzia e, comunque, per un periodo non inferiore a cinque giorni.

La stessa norma di legge, quindi, fa riferimento alla fattispecie dell’indebita occupazione di suolo pubblico a fine di commercio, sicché deve ritenersi che l’Ordinanza sindacale n. 258 del 2012 sia stata adottata nel rispetto delle finalità perseguite dalla norma primaria (cfr. sul punto la consolidata giurisprudenza della Sezione, ex multis, sent. 7 gennaio 2015, n. 46; idem, 17 dicembre 2014, n.12846; idem, 28 ottobre 2014, n.10809).

L’Ordinanza sindacale n. 258 del 2012 costituisce, pertanto, applicazione della disposizione di cui all’art. 3, comma 16, della legge n. 94 del 2009 che ha attribuito al Sindaco uno specifico potere sanzionatorio, di natura dissuasiva (rimozione, ripristino e chiusura dell’esercizio), in via ordinaria ed a prescindere da situazioni contingibili ed urgenti, per le quali invece soccorre la previsione di cui all’art. 54 del d. lgs. n. 267 del 2000 (T.U. Enti locali).

Stabilisce, infatti, il citato comma 16: “Fatti salvi i provvedimenti dell’autorità per motivi di ordine pubblico, nei casi di indebita occupazione di suolo pubblico previsti dall’articolo 633 del codice penale e dall’ articolo 20 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 , e successive modificazioni, il sindaco, per le strade urbane, e il prefetto, per quelle extraurbane o, quando ricorrono motivi di sicurezza pubblica, per ogni luogo, possono ordinare l’immediato ripristino dello stato dei luoghi a spese degli occupanti e, se si tratta di occupazione a fine di commercio, la chiusura dell’esercizio fino al pieno adempimento dell’ordine e del pagamento delle spese o della prestazione di idonea garanzia e, comunque, per un periodo non inferiore a cinque giorni”.

Appare chiaro dalla lettera della norma che il presupposto unico per l’esercizio del potere di disporre l’immediato ripristino dello stato dei luoghi e la (contestuale) chiusura dell’esercizio commerciale, quando si tratta di occupazione a fine di commercio, è costituito dalla indebita occupazione di suolo pubblico. Nel senso che le due misure (ripristino e chiusura) scontano, in questo caso, il medesimo, identico ed unico presupposto: l’occupazione abusiva del suolo pubblico a fronte della quale, l’Amministrazione è tenuta ad applicare, in ogni caso, la sanzione della chiusura anche in caso di effettuazione del ripristino, spontaneamente o in danno, in esecuzione della Determinazione dirigenziale.

D’altra parte, che l’Autorità competente abbia voluto prevedere per le occupazioni di suolo pubblico totalmente abusive la più incisiva sanzione della chiusura temporanea, sia pure nella misura minima, emerge in modo chiaro dalla motivazione dell’Ordinanza in cui è, tra l’altro, indicato come “il crescente fenomeno di occupazione abusiva di suolo pubblico, da parte di titolari di esercizi commerciali, ampiamente registrato dagli organi di comunicazione ed oggetto di persistenti segnalazioni da parte della comunità cittadina, testimonia la necessità di dar corso ad una nuova valutazione generale dell’equilibrio tra l’interesse pubblico di massima fruizione del territorio, da un lato, e l’interesse pubblico di tutela del patrimonio, dall’altro” nonché dal successivo snodo della stessa in cui è indicato che “la sanzione della chiusura del pubblico esercizio si rivela quale misura accessoria alla violazione dell’art. 20 del Codice della Strada che già prevedeva l’obbligo della rimozione delle opere e, quindi, rientrante nell’ordinaria attività di vigilanza e controllo da parte della Polizia Municipale e dei competenti Uffici; … il Sindaco intende avvalersi del potere previsto dall’art. 3, comma 16 della legge 94/2009, per sanzionare le occupazioni totalmente abusive di suolo pubblico, per fini di commercio, ricadenti nelle strade urbane del territorio capitolino delimitato dal perimetro del sito Unesco”. L’Ordinanza sindacale indica con chiarezza che la tutela del patrimonio pubblico cittadino si pone come “un elemento caratterizzante di quel grado di vivibilità cittadina che favorisce l’incremento della coesione sociale”, per cui gli interessi pubblici tutelati attengono anche alla esigenza di garantire la qualità della convivenza sociale in un ambito territoriale di straordinaria rilevanza storico-culturale.

Ne consegue che il potere discrezionale attribuito al Sindaco dall’art. 3, comma 16 della legge n. 94 del 2009 in esame è stato in concreto esercitato con una ragionevole valutazione “a monte” di carattere generale, coerente con le specifiche finalità di protezione di cui alla legge n. 94 del 2009 applicate in concreto, perché si è inteso perseguire – in maniera strutturata – un fenomeno di degrado avente dimensioni collettive e radicate nel contesto ambientale, assicurando in tal modo tutela alle strade urbane ricadenti nel perimetro del sito Unesco.

Si tratta di una scelta assolutamente legittima giacché non sussistono impedimenti di tipo giuridico o funzionale a che un organo della P.A., titolare di un potere discrezionale, decida di esercitarlo per il tramite di un atto a contenuto generale che ne fissi contenuti e presupposti e che ne demandi l’esecuzione (che, in presenza dei presupposti previsti, diventa attività vincolata) agli uffici dipendenti, anche avendo riguardo alla circostanza che in tale maniera viene assicurata uniformità di trattamento e prevedibilità di conseguenze per la trasgressione del precetto, a tutto vantaggio della trasparenza e dell’efficacia dell’azione amministrativa.

Va altresì sottolineato che in linea generale tutta la disciplina concernente l’occupazione di suolo pubblico è posta anche a presidio della sicurezza pubblica, sia sotto il profilo della circolazione pedonale che di quella veicolare (tanto è vero che la rubrica di tale norma è “Sicurezza pubblica”); in particolare, il richiamato art. 3, comma 16, della legge n. 94 del 2009, come risulta dalle prescrizioni in esso contenute, non consente di ritenere che debba essere effettuata una valutazione in concreto circa la sussistenza di pericoli per la sicurezza pubblica ogni qualvolta la condotta di occupazione di suolo pubblico abusiva venga sanzionata o che essa costituisca il presupposto per l’esercizio di volta in volta del potere sanzionatorio (senza che possa rilevare quanto dalla ricorrente sostenuto sulla asserita sussistenza di zona adeguata per la circolazione dei pedoni e delle persone con limitata capacità motoria: cfr., sul punto, Tar Lazio, Roma, sez. II ter, 29 aprile 2015, n. 6210).

Proprio in tal senso, la norma richiamata rispetta entrambe le declinazioni del principio di legalità: in questi casi, pertanto, il Sindaco può esercitare il potere di ordinaria amministrazione anche in assenza del requisito della necessità e urgenza (cfr. in tal senso, Cons. Stato, sez. V, n. 1611 del 2015).

Ne consegue che, come chiarito in precedenti pronunce, è conforme a Costituzione la previsione normativa attributiva di un potere sindacale ordinario che contenga sia il fine pubblico da raggiungere (cosiddetta legalità-indirizzo) sia contenuto e modalità di esercizio del potere (cosiddetta legalità-garanzia) (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II ter, cit n. 2573 del 2014; idem, cit n. 6210 del 2015)

In particolare si è di fronte all’esercizio di un potere espressamente regolamentato dalla legge per ipotesi assolutamente prevedibili, che non hanno né i connotati dell’urgenza né della eccezionalità e l’occupazione totalmente abusiva del suolo pubblico (con arredi costituiti da vasi di fiori e pannellature all’esterno del locale) ai fini di commercio da parte della Società ricorrente è indubbia, per cui le censure proposte con il primo motivo devono essere disattese, in considerazione anche della circostanza che al momento dell’accertamento della Polizia Locale la società non era titolare di concessione Osp per quell’area occupata, per ammissione anche della medesima ricorrente che riferisce di essere in attesa del rilascio di concessione Osp di suolo pubblico e di essere titolare di un’occupazione di suolo privato, area comunque non computata nella Determinazione di ripristino.

Assente il titolo di legittima occupazione dell’area pubblica da parte della società, non può essere infatti mantenuto a servizio dell’esercizio tipologie di arredo commerciale occupante porzioni di suolo pubblico - senza l’intermediazione del potere amministrativo - con la conseguenza che la rimozione dei manufatti è atto obbligato di tipo assolutamente vincolato parimenti alla chiusura avente anch’essa carattere di doverosità in forza delle previsioni richiamate (cfr. Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2015, n. 501).

2.2.Alla stregua di quanto sopra argomentato, ne consegue che sono del tutto irrilevanti le argomentazioni in punto di violazione del principio di proporzionalità e ragionevolezza per asserita occupazione “solo parzialmente priva di titolo” e con presenza di elementi e suppellettili (vasi di fiori e pannellature) non per lo svolgimento dell’attività nonché di tutela della proprietà (terzo motivo).

Ed invero, l’occupazione di suolo pubblico si connota come abusiva - ai sensi e per gli effetti del Regolamento Cosap e della normativa richiamata nel provvedimento impugnato - in ragione della sua qualificazione di carattere ontologico/funzionale; per cui, ciò che rileva ai fini del riscontro di (il)legittimità è la mera occupazione materiale, sine titulo, del suolo pubblico (elemento ontologico), posta in essere al fine di assolvere esigenze strumentali all’attività commerciale (elemento teleologico), come da ultimo affermato dalla Sezione (cfr. Tar Lazio, sez. II ter, 11 maggio 2015, n. 6779; idem, 29 maggio 2015, n. 7640; idem, 18 settembre 2015, n.11297).

Peraltro non appaiono convincenti le considerazioni di parte ricorrente riguardo la censurata violazione del principio di proporzionalità, in quanto in sede di applicazioni di sanzioni amministrative va data una lettura di tale principio nel senso che la censurabilità dell’azione della P.A. va limitata al controllo dell’eventuale carattere manifestamente inidoneo e inadeguato della pena, in relazione al fine che l’ente irrogatore intende perseguire (cfr. Tar Liguria, sez. I, 7 marzo 2008, n.375; Tar Puglia, Lecce, sez. II, 10 luglio 2014, n. 1715). Sulla base di ciò non appare irragionevole l’esercizio del potere sanzionatorio dell’Amministrazione che – premesse le valutazioni di carattere generale coerenti con le specifiche finalità di protezione di cui alla legge n. 94 del 2009, di cui si è riferito in precedenza - nella scelta della misura da adottare ha disposto nella specie per la violazione operata dalla società la sanzione minima di chiusura dell’esercizio di 5 giorni (art. 3, comma 16, l. n. 94 del 2009), con la conseguenza che la società non potrebbe neanche dolersi, per mancanza di interesse, della circostanza che in presenza di infrazioni più gravi l’Amministrazione abbia applicato la medesima sanzione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5066; idem, n. 501 e n. 1611 del 2015), senza che, tra l’altro, l’immediato ripristino dello stato dei luoghi da parte della società ricorrente – come sostenuto dalla stessa - possa evitare l’applicazione della sanzione della chiusura, legata al disvalore della condotta dell’occupazione abusiva su un’area pubblica, circostanza inequivocabile.

2.3. Passando all’esame dell’ulteriore doglianza riguardo la violazione delle norme procedimentali in assenza di preventiva comunicazione dell’avvio del procedimento nonché della prova che il contenuto del provvedimento non sarebbe comunque stato diverso, se l’Amministrazione avesse tenuto conto dei rilievi della società nella fase procedimentale (secondo motivo), osserva il Collegio che, come sopra esposto, l’Ordinanza sindacale n. 258 del 2012, dettando stringenti indicazioni per i Dirigenti competenti, fa sì che il potere del soggetto che adotta il provvedimento sanzionatorio sia totalmente vincolato dalle determinazioni stabilite dal Sindaco in via generale con la predetta Ordinanza n. 258 del 2012 (cfr. su tutto quanto sin qui richiamato, TAR Lazio, Roma, II ter, 13 agosto 2013, n. 7931).

Il provvedimento dirigenziale in contestazione costituisce esercizio di potere vincolato e si presenta, come precedentemente rilevato, esaurientemente motivato con riferimento all’accertamento dell’occupazione abusiva di suolo pubblico operato dalla Polizia Locale.

La natura vincolata del provvedimento recante l’ordine di chiusura rende, pertanto, irrilevanti i dedotti vizi di forma del provvedimento e formali del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990.

Ne consegue che, ai sensi dell’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990, il provvedimento impugnato non è comunque annullabile per la violazione di norme sul procedimento in quanto, per la sua natura vincolata, è palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato e la partecipazione della società al procedimento non sarebbe stata comunque in grado di incidere sul contenuto sostanziale della determinazione finale assunta (cfr. Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2015, n. 501; idem, 27 marzo 2015, n. 1611).

Pertanto, va ribadito che la circostanza dell’occupazione di suolo “privato” contigua a quella pubblica contestata non assume alcun rilievo ai fini in questione, per cui la Determinazione impugnata deve ritenersi fondata oltre che su specifici presupposti giuridici anche su un corretto presupposto fattuale, vale a dire la sussistenza di un’occupazione totalmente abusiva di suolo pubblico - accertata come tale per distinta estensione rispetto a quella concessa in via privata - alla data del 19 marzo 2015.

2.4. Inoltre, il Collegio non condivide le argomentazioni dedotte con il quarto motivo secondo cui l’impugnata Determinazione sarebbe stata emessa in violazione dei principi generali di cui alla legge n. 689 del 1981.

A tale proposito va rilevato che le disposizioni della legge n. 689 del 1981 e i correlati principi trovano applicazione esclusivamente in materia di sanzioni amministrative/pecuniarie depenalizzate (la cui cognizione è devoluta, peraltro, alla giurisdizione del g.o.), mentre la misura interdittiva impugnata, prevista in disposizioni normative di settore, ha finalità prettamente ripristinatoria e dissuasiva.

Più in particolare, la misura consistente nella chiusura temporanea del locale è una sanzione aggiuntiva, destinata a rafforzare la prescrizione del divieto, con funzione di deterrente per scoraggiare – e perseguire - l’uso indebito di beni demaniali di particolare rilevanza storica, culturale e architettonica e la cui abusiva utilizzazione si sostanzia nella sottrazione del loro godimento alla collettività (cfr. Tar Lazio, Roma, cit n. 6210 del 2015).

Tale autonoma misura ha pertanto rilevanza settoriale, a differenza delle sanzioni amministrative di cui alla legge n.689 del 1981 le quali, invece, rivestono carattere afflittivo e, perciò, portata di carattere generale. Ne consegue, tra l’altro, sul distinto piano esecutivo, la trasmissibilità agli aventi causa delle prime (rimozione Osp e chiusura attività) e invece l’intrasmissibilità delle seconde agli eredi.

Sulla base di quanto sopra non si ravvisa la censurata violazione dei principi di legalità, tassatività, proporzionalità e ragionevolezza.

3. In conclusione, il Collegio richiamando le considerazioni già più volte espresse dalla Sezione sulla non contrarietà dell’art. 3, comma 16 della legge n. 94 del 2009 con i principi costituzionali e con quelli del diritto dell’Unione Europea (principio di proporzionalità e divieto di discriminazione), genericamente e apoditticamente formulati dalla ricorrente, rileva che è manifestamente infondata la questione di costituzionalità del comma 16 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009, per violazione degli artt. 3 e 23 Cost., nella parte in cui esso svincola la sanzione della chiusura dall’effettivo ripristino dello stato dei luoghi, in ragione della finalità non solo ripristinatoria bensì anche sanzionatoria-dissuasiva della norma de qua, come sopra argomentato. Parimenti infondata è la questione di costituzionalità della predetta norma per violazione dell’art. 41 Cost, in quanto rileva il Collegio che la tutela costituzionale dell’iniziativa economica, come è noto, incontra il limite dell’utilità sociale (art. 41 Cost.). Nella specie il legislatore, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, ha ritenuto che lo svolgimento di tali attività commerciali in maniera non conforme alle regole di disciplina della materia e in particolare di uso del territorio cittadino giustifica l’applicazione della sanzione della chiusura, per un periodo di tempo limitato, del relativo esercizio commerciale. Di talché, le occupazioni di suolo pubblico sono soggette ad una specifica concessione da parte del Municipio competente e, d’altra parte, non appare neanche astrattamente ipotizzabile che il titolare di un esercizio commerciale possa liberamente occupare porzioni di suolo pubblico senza l’intermediazione del potere amministrativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2015, n. 501). Né varrebbe obiettare che sarebbe stato violato il principio generale di proporzionalità e divieto di discriminazione in quanto, nella specie come già rilevato, la sanzione è stata applicata nella misura minima e come tale non contraria, altresì, ai principi dell’Unione Europea potendosi considerare, alla luce di quanto predetto, quale misura sanzionatoria (repressiva) prevista dalla normativa nazionale non eccedente i limiti di ciò che è “idoneo” e “necessario” al conseguimento dei scopi legittimamente perseguiti da tale normativa e comunque nella scelta la misura adottata è quella meno restrittiva e gli inconvenienti provocati comunque proporzionati rispetto agli scopi rilevanti perseguiti (cfr. Corte di giustizia UE, sez.I, 9 febbraio 2012, n. 210).

4. Sulla base delle considerazioni che precedono, unitamente alla copiosa giurisprudenza della Sezione che qui si intende richiamata ad integrazione della motivazione, il ricorso è infondato e va respinto.

5. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in favore di Roma Capitale resistente, nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore di Roma Capitale, che si liquidano in euro 1.000,00 (mille), oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 settembre 2015 con l'intervento dei magistrati:



Leonardo Pasanisi, Presidente

Francesco Arzillo, Consigliere

Mariangela Caminiti, Consigliere, Estensore



L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE




DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 13/11/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)